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L'amore di plastica nella musica postmoderna
L'amore di plastica nella musica postmoderna

Relazione svolta al settimo Convegno Inquietudini nella modernità, Loveless: affective insight?
Sotto l'alto patronato del Presidente della Repubblica, giovedì 5, venerdì 6, sabato 7 dicembre, presso l'Aula magna dell'Università di Careggi e Sala Minerva dell'Accademia di Belle Arti di Firenze 



Il cosiddetto Postmoderno s’impone prima negli Stati Uniti, in ambiti letterari, architettonici e sociologici. Il termine, a dir la verità piuttosto ambiguo e che dà adito a varianti terminologiche e concettuali (come Modernismo tardivo, Trasmodernità, Metamodernità, Ipermodernismo etc.), lo si riscontra, per la prima volta, nel libro di Ihab Hassan, Post-modern Literature, stampato a New York nel 1971. L’anno di nascita della postmodernità in musica potrebbe essere considerato il 1976 quando, a Darmstadt, città che era stata il simbolo dello Strutturalismo musicale, viene eseguita la Sonata per violino di von Bose che rimette in gioco una rivalutazione generale della tradizione, soprattutto tardo romantica, che dovrebbe farsi viatico a una ritrovata comunicazione col pubblico, messa a dura prova negli anni della ricerca sperimentale. Le prime affermazioni di ciò che venne chiamata Nuova Semplicità trovarono la loro consacrazione, nel 1979, quando la rivista “Neue Zeitschrift fur Musik” pubblicò un intero numero dedicato al Postmodern in musica, uno stile che ha caratteristiche assai vicine a quelle del poema sinfonico straussiano. Si tratta di un gruppo di compositori, fra cui il citato von Bose, Trojan e soprattutto Rihm, che proclamano la finis avanguardie, recuperando immagine orfiche e narcisistiche, attraverso l’uso della citazione, dove il temps perdu è quello della soddisfazione, secondo il detto che soltanto i paradisi perduti sono i veri paradisi.
 
In Italia il dibattito sulla musica postmoderna iniziò negli anni 1980-81, in questo periodo vennnero organizzate diverse iniziative dedicate alla musica dei giovani compositori di allora: nell’autunno del 1980 all’Istituto “Peri” di Reggio Emilia, nella primavera dell’anno successivo alla Biennale di Venezia, nell’estate dello stesso anno al Festival Luglio Musica di Certaldo e nell’estate del 1982 al Festival Proposte Musicali di Acqui Terme (queste ultime due rassegne dirette da chi scrive). Un contributo importante venne fornito dai primi numeri della rivista “Musica/Realtà” (stampata a Reggio Emilia in quegli anni) che propose una serie di interviste a coloro che si auto-battezzarono “neo-romantici”. Si può citare, a titolo esemplificativo, ciò che scrive Marco Tutino: “Noi romantici nutriamo un’avversione atavica e giurata per il linguaggio preciso e scientifico /…/ O sentimenti! O passioni! /…/ L’unica maniera di essere capiti e strettamente legata all’unica maniera di essere graditi”. Come vedremo i sentimenti sono ben lontani da quelli interiorizzati dei romantici e le passioni sono omologate da un vissuto che punta alla gradevolezza. Fa da spalla a questa posizione Carlo Galante, il quale vede nella piacevolezza il “modo per ritrovare un rapporto positivo col pubblico”, mentre Giampaolo Testoni vuole “riacquistare il senso e l’aspirazione alla bellezza”, problematica annosa affrontata in maniera banale.
 
Da anni si assiste a una generalizzata commercializzazione dell’arte, legata oramai imprescindibilmente all’aspetto economico. I Teatri e le Istituzioni musicali, così come gli Assessorati e le Associazioni private si affannano a programmare manifestazioni “leggere” nel tentativo di acchiappare un po’ di pubblico, banalizzando le programmazioni in nome di un pugno di gente che, in generale, è attratta solo dal momento musicale piacevole, vissuto come passatempo. Pur senza voler tralasciare l’importanza dell’aspetto ludico nell’arte, sorge però spontaneo un interrogativo: è di questo che abbiamo bisogno? E’ della piacevolezza e del rassicurante déjà vu che l’uomo, in tempi di guerra e di miseria, ha necessità?

Nell’apologia della superficie brillante non si riesce neanche, fra l’altro,  a esprimere il piacere – il sostantivo che indica un’essenza – ma solo la piacevolezza – l’avverbio che alleggerisce. E’ l’estetica tipica del Postmodern, ricorrente però in ogni periodo di crisi. Già Goethe, per esempio, parlava dell’impossibilità di comunicare la sostanza (come per lui riuscivano invece a fare gli antichi greci). A proposito di greci, per Platone la bellezza è contemplazione, difficilmente riconducibile al fare comune, viene all’improvviso, per sua natura, ed è essenziale che l’uomo vi instauri una con-partecipazione. La bellezza è dunque un (ac)cadere stra-ordinario e questo suo essere fuori dal comune lo condivide con l’altra faccia della medaglia, il suo aspetto complementare è infatti il brutto, al quale viene ascritta molta arte contemporanea, la quale ha saputo assumere su di sé il durissimo (bruttissimo) compito di descrivere gli aspetti drammatici e negativi della nostra epoca, riuscendo a compiere quell’affondo nelle viscere dell’uomo e della società che per Adorno era il solo modo per fare arte senza falsa coscienza. Se l’arte del Novecento è stata molte volte dura e “brutta” è perché è stata affetta dal negativo di una vita vissuta fra guerre e miserie.

Senza piacevolezze e senza denari siamo destinati a una piccola nicchia culturale? Nell’epoca dell’audience occorre tanta gente per costruire l’evento. La quantità prima di tutto, alla quale però la nicchia può contrapporre la qualità e quindi anche un suo valore di mercato. I prodotti di nicchia hanno, infatti, una loro commerciabilità, meno ampia di quelli di massa ma più incisiva e di più lunga gittata e durata. Certo il problema dell’arte e del suo inserimento nella società è complesso, lo aveva già rilevato Platone, e Socrate diceva: “difficili sono le cose belle”, difficili perché non risolvevano facilmente nel banale e nella piacevolezza. Il vecchio cane Argos, disteso sul letame, è bello perché riconosce subito il padrone. Il bello ha dunque la stessa radice di buono (bellu(m) è un diminutivo di bonus), ma l’abbinamento del bello col buono non appartiene solo al pensiero greco e a quello del Cristianesimo medioevale, è proprio anche del senso comune che dice infatti “bella azione” o “bel gesto” (Giovanni chiama Gesù “il bel pastore”). Il bello richiama dunque un atto di cor-responsabilità, un co-operare, un agire per l’altro, un vissuto di partecipazione, proprio quello che manca alla musica postmoderna.

La musica ha sempre avuto innumerevoli contatti con l’epoca storica in cui è vissuta e vive, anche con gli aspetti banali, ma in questa attuale situazione di inquietanti cambiamenti, deve assumersi la responsabilità di un gesto di pace. La pace = pactum è un medio, un ponte che collega gli opposti, l’uomo del nord a quello del sud, quello bianco a quello nero, l’una cultura all’altra, proponendo un ethos della solidarietà. “Ethos” significa il soggiornare, la duratura forma della dimora. Forse occorre non recuperare la piacevolezza ma abitare il senso, diremmo ontologico, dell’arte? Toccandone non le corde dei sentimenti en rose e della piacevolezza plateale, ma quelle dell’intelligenza, della ricchezza delle idee, della coerenza, senza aver bisogno di lusingare nessuno e alcunché, percorrendo una via innocente, autentica e indipendente, sorretta da una fortissima necessità interiore, dall’essere e dall’esserci. E’ la concavità dell’esistere che assorbe l’essere nel mondo consapevole e critico.
 
Oggi si fa un gran parlare di comunicazione, la comunicazione è comunque dispersa in mille rigoli, è una comunicazione impalpabile perché non si fonda sul contatto diretto, sulla partecipazione attiva e umana, ma sulla comunicazione virtuale: sono questi gli anni della ridondanza condivisa, in maniera eterea, leggera, vaga. Siamo dentro l’occhio del ciclone, sentiamo un turbinio di parole e di suoni, vediamo milioni di immagini, ma nulla ci tocca veramente e proviamo sempre meno sentimenti autentici. Perfino l’amore diventa plastificato.
           
I rampanti musicisti neo-romantici (in quella Milano degli anni Ottanta che fu definita “da bere”) sono tutti presi dal tentativo di inserirsi nei circuiti commerciali. La mancanza nelle loro opere di un senso forte ma effimero fa di questi compositori musicisti non del mondo ma della mondanità, furbi e cinici intendono la molteplicità in senso quantitativo, infatti, il mare magnum dell’eterogeneità contemporanea è per loro un terminus ad quem; si lasciano prendere dal luccichio della cose, producendo una musica easy, da arredo metropolitano; giocano non sulla leggerezza dell’essere ma sulla sua banalizzazione, come in certa fusion o in certa world music che fanno suoi i termini della globalizzazione, presentando brandelli di musiche in una semplice carrellata di suoni sentiti e non vissuti, fagocitando tutto e realizzando un pastiche. Si verifica ciò che Ivan Della Mea denuncia per le tante tendenze neo-folk che sono fuori dal contesto socio-culturale, molti musicisti sanno suonare uno strumento legato alle tradizioni popolari ma lo fanno senza aver vissuto quelle tradizioni. Anche la spiritualità diventa leggera, si preferisce rincorrere religioni orientali (realizzando un improbabile Zen made in Europe) piuttosto che riflettere criticamente sulla nostra cultura religiosa.
 
Nei compositori postmoderni un fatto positivo è che si allenta la morsa dell’ideologia e la strada maestra delle impostazioni post-belliche (soprattutto quella dello Strutturalismo) si biforca in altre strade o sentieri, più stretti o marginali, ma con l’indubbia qualità di essere meno astratti, mettendo a frutto una libertà concettuale, un’apertura culturale e una trasversalità del linguaggio che porta ad esiti (più) personali e impensabili fino alla metà degli anni Settanta. La qualità della scrittura è indubbia e non è un caso che molte opere recenti hanno saputo recuperare il rapporto con l’ascolto e, quindi, col pubblico, in una dimensione di bel suono. Quel che manca spesso è lo spessore del pensiero (che da eccessivo passa a insufficiente) e la profondità del vissuto che è oggi, per i compositori come per tutti gli altri, invischiato con i problemi dell’omologazione, un’esistenza che, se non esperita con attenzione e sincerità, rischia a ogni passo, di lasciarsi risucchiare nel conformismo.
 
L’inventiva linguistica si fa tanto più forte quanto più piatta e convenzionale è la situazione generale della cultura, come scrisse il poeta Shelley: "la pratica della poesia non è mai tanto desiderabile quanto nei periodi in cui, per eccesso di egoismo e di calcolo, l'accumulo dei materiali della vita esteriore supera il grado di capacità di assimilarli alle leggi interiori della natura umana". C'è un istinto, femmineo, il quale intuisce che la scrittura, per potersi svolgere, non deve essere forzata da azioni esterne di nessun tipo, ma necessita di una lunga meditazione che ne favorisca il lievitare e il relazionarsi alla memoria collettiva. La cultura degli anni Ottanta ha in parte disatteso le esigenze dei tempi lunghi della meditazione scrittura, privilegiando la velocità di scrittura e di ricezione e gli aspetti più superficiali "d'immagine".
 
Dalla seconda metà degli anni Settanta, l'artista non ha più una fede cieca nel razionalismo strutturale, né vuole perdere il proprio io annegandolo nel materismo delle cose, si dirige invece verso spazi obliqui, con intenzioni volubili, riscoprendo un uso calibrato e leggero dei tradizionali metodi compositivi, senza eccessi, senza quei radicalismi che avevano caratterizzato le Avanguardie. E' certo però che lo sperimentalismo è stato, durante gli anni Cinquanta e Sessanta, un'esigenza storica, vera, vissuta profondamente dalla gran parte dei musicisti, che si posero il problema dello svecchiamento delle forme musicali e della conseguente ricerca di nuove soluzioni. Altrettanto certo è che la scommessa musicale delle Avanguardie permette oggi, ai giovani compositori, di utilizzare una situazione tecnico-linguistica evoluta e aperta agli esiti personali.
 
La ripresa della soggettività (non solo debole, ma in certi casi fortissima) consente una libertà di atteggiamenti infinita: niente più concetti di struttura o di casualità, di negativo o positivo, di gestualità, grafismo etc., tutti questi aspetti vengono appiattiti in una neutralità che non conosce poli divergenti, in una ritrovata creatività individuale tutta giocata in superficie. Parlare di visione superficiale, nel contesto di questi ultimi anni, non significa contrapporre il concetto di superficie a quello di profondità, ma piuttosto intendere una ritrovata fiducia nel manufatto, nell'attività artigianale; l'opera torna a farsi mondo, a raccontare una storia, a sollecitare sentimenti, è così che dalla cosiddetta "opera aperta", cara alle Avanguardie, si ritorna alle forme chiuse.
 
Nell'ultimo scorcio del Novecento, il linguaggio musicale è meno implicato con gli avvenimenti politici, e anche i grandi temi sociali passano in secondo piano. Rispetto agli anni Sessanta si è più disincantati, più smaliziati, perdendo però quella dimensione dello stupore e della sorpresa ben presente nei decenni passati: si prende atto del consumo di ogni mito, che la rivoluzione (linguistica o culturale o sociale) è un'illusione, però si perde il valore propulsivo dell'Utopia. Sul piano del linguaggio, dopo le costruzioni strutturalistiche, la sperimentazione casuale e le opere éngagée, assistiamo a una retorica del semplice, infatti molti musicisti prediligono figurazioni musicali che sappiano instaurare un rapporto di chiarezza sul piano comunicativo. La ricerca di tensioni lascia il posto alle assonanze, alle simmetrie, alle referenze psicologiche e descrittive. Oggi c'è una nuova volontà di dire, un'urgenza di esplicito, una vocazione al racconto, spesso col carattere del sogno o della favola, con un tono crepuscolare.
 
La ripresa di materiali dalla musica del passato è molto frequente; della memoria si privilegia il fremito romantico, la suggestione, l'evocazione, ovvero si ha della memoria un'idea tipicamente crepuscolare, avulsa dal contesto storico e velata da inquietudini leggere. Il ritorno al privato ha condotto al recupero di immagini orfiche e narcisistiche, tecnicamente espresse da un linguaggio neo-tonale.
 
Fra la strada di un'ostentata semplicità di scrittura, finalizzata all'immediatezza comunicativa, e lo sperimentalismo radicale si inseriscono dei percorsi mediani intrapresi da chi, pur mantenendo salde esigenze costruttive e di riflessione sul fatto artigianale, è anche interessato a un effetto finale "piacevole", a un sound morbido che non rinuncia alla cantabilità, senza però nulla sacrificare alle esigenze rigorose della costruzione. Fra i compositori chi, pur naturalmente all'interno della cultura degli anni Ottanta, ha saputo mediare le esigenze sperimentali, ha saputo tenerle vive e in tensione, chi crede ancora nella ricerca come ampliamento dei confini della conoscenza, ma anche come bisogno interiore, come disciplina etica, quei compositori sono coloro che forniscono le prove più convincenti. 






Renzo Cresti - sito ufficiale