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La musica a Napoli IV
La musica a Napoli IV, di Girolamo De Simone
Collegati ai saggi primo, secondo e terzo



Le ribollenti Temperature Flegree

Vittorio Palumbo[1] fonda l'Associazione Aliseo e dall' '85 som/muove i territori flegrei attivando un fantastico contenitore di musica, pittura, danza, editoria. L'inizio, nell' '85, alle terme di Baia, non sarà privo di deflagrazioni, visto che l'idea straordinaria di accostare arti visive (decine di mostre dislocate lungo un percorso), musica 'classica' (ma con il trasgressivo concerto di Fels, che programma opere di Corea, Wakeman, Brubeck, etc.) e musica rock viene rovinata da slittamenti che dividono i desiderata dei rispettivi pubblici (ecco il punto debole: il pubblico è unico). Ma, aldilà della mia defezione (avrei dovuto intervenire in due concerti), la rassegna decollerà benissimo soprattuto per la presenza dei Panoramics, dei Walhalla, dei Little Italy e dei Bisca. Sempre alle Terme, si terrà l'edizione dell' '87, dedicata alla danza. Parteciperanno Movimento Danza, Every Day Company (al pianoforte c'è Antonello Salis), Koros, e Teatrodanza Contemporanea. La rassegna dell' '88 ha la grave pecca di essere presentata da politici campani (i processi sono in corso...), ma il programma è denso, anche perché approfitta del (quasi) mezzo millennio della nascita del vulcano flegreo Monte Nuovo. In collaborazione con lo Studio Morra, luoghi dell'area flegrea s'accendono di musica, poesia e teatro. Alla Solfatara, all'Acropoli di Cuma, nella Casina Vanvitelliana del Fusaro, si alternano nomi d'artisti e studiosi: Corrado Costa, Arrigo Lora-Totino, Eugenio Miccini, Lamberto Pignotti, Marcello Aitani, Albert Mayr. La quarta edizione di "Temperature Flegree" vede inaugurarsi l'attività editoriale di Aliseo, con la produzione di I miti e la storia nei campi flegrei e il videodanza dedicato a Properzio, alla Piscina Mirabilis: "Cynthia, forma potens, Cynthia, verba levis"
 
Il Colin Muset
Una sintonia molto particolare con quello che accade nel resto del mondo conosciuto, cosa piuttosto infrequente nella città in cui viviamo, è stata dimostrata dal "Colin Muset", una formazione capace di gareggiare, per inventiva, con quelle che oggi riescono a sbancare nei festival e nei negozi di dischi. Altrove, infatti, anche gli imprenditori ed i produttori hanno capito che si stava affievolendo l'auctoritas legata alla tradizionale immagine del "compositore di musica", e che anche i brani di repertorio, ancorché il giro d'affari  crescesse, risultavano alquanto difficili da piazzare sul mercato discografico per l'enorme costo delle produzioni.  Così, va da sé che diventava economicamente molto conveniente promuovere gli esperimenti creativi, inizialmente soprattutto trascrizioni, poi subito reinvenzioni e creazioni originali, di piccoli ensemble da camera dall'organico raro o ricercato. Qualche esempio? il "Marimolin" con Sharan Leventhal al violino e Nancy Zeltsman alla marimba; gli "Icebreaker" (spaccaghiaccio), fondati da James Poke e John Godfrey nell' '89, una decina di strumentisti che usano anche tastiere, basso e chitarra elettrica, percussioni; il brass quintet "Meridian Arts Ensemble"; Brett Dean e Simon Hunt ("FrameCutFrame"); il "New Century Saxophone Quartet" con Stephenson, Boatman, Pollock, Hubbard; e l'italiano "New Art Ensemble", che però al posto di Canino avrebbe bisogno di un pianista alla Moritz Eggert. Non ho volutamente citato ensemble più famosi, come quelli legati ai compositori Bryars, Glass, Adams, Nyman, o i quartetti rivoluzionari Kronos e Balanescu, e gli straordinari Madredeus. Il "Colin Muset" è in grado di gareggiare e vincere con più di uno di questi gruppi, eppure, benché anch'io non mi esima dal citarne le gesta ad esempio su una rivista specialistica della portata di CDclassica, è entrato in crisi dopo aver registrato un disco rimasto sullo scaffale dei crediti che la musica napoletana vanta verso la politica culturale cittadina[2]. I cinque strumentisti eccezionali sono (all'origine, ma le collaborazioni si moltiplicherranno nel tempo) Antonello Paliotti (chitarra, mandola e mandolino), Maurizio Chiantone (contrabasso) Nicolò Casu (tromba, flicorno sopr.), Luciano Russo (clarinetto, sax ten.) e Roberto Natullo (flauto e ottavino). Si tratta di musicisti di estrazione classica, ma con differenti percorsi artistico-culturali. Il loro progetto è sintetizzato nella ricerca di un suono particolare, 'nuovo' grazie all'originalità dell'organico, e nella scelta di un repertorio che è come minimo trascritto e adattato alle esigenze della compagine. Loro si sentono un po' vicini alle esperienze del Novecento (opere jazz o da music-hall, autori dell'altro Novecento: Weill, Stravinskij, Piazzolla, Gismonti, etc.) e un po' orchestrina da Café Chantant o Cabaret berlinese anni '20. Si occupano anche dei contemporanei, soprattutto quando si tratta di utilizzare brani scritti per organico indeterminato. Ma quello che mi piace di più dei loro 'intenti programmatici' è la seguente frase: "Infine la musica contemporanea: impossibile la trascrizione di opere scritte nel dopoguerra, non solo perché esse risultano legate alla tecnica degli strumenti per cui sono state pensate, ma anche perché contengono già in nuce tutto il significato strumentale; ciò che rende non trascrivibile la Terza Sonata di Boulez, per esempio!".
 
Bob Ashley, Peter Gordon...
Gabriele Montagano non si dà per vinto, e tra il 1986 e il 1988, si sbatte parecchio per inventarsi un ruolo d'artista manager che gli consenta di programmare e realizzare eventi d'elevato valore estetico. Invece di tentare la via delle associazioni, che abbiamo visto in fondo restare monadi (magari effervescenti, ma monadi), intraprende quella dell'impresa. La sua abilità manageriale la spunta in diverse occasioni, ma più spesso capitola di fronte all'incapacità di realizzare idee che si spingono troppo avanti. L'accensione di piazze e strade, la possibilità di far cantare, per davvero, tutta la città; la proliferazione non convenzionale di materiali anche effimeri (altro che resistenti), di istallazioni evanescenti, si scontra con la coriacea diffidenza partenopea, con quel modo di pensarsi e sentirsi fieramente isolati. La vera ragione di quell'identità falsata era ancora politica, e di certo legata alla capienza di un serbatoio di voti che una gestione differente, progressista, della cultura avrebbe potuto drasticamente ridurre.
Muovendosi tra mille difficoltà, Gabriele organizza la mostra "Immagini di città" a Villa Campolieto; il duplice concerto, a Santa Chiara e all'Istituto francese, del coro Bela Bartòk diretto da Kertész; diverse mostre (tra cui l'incontro con la fotografia di Antonio Gaeta al Museo del Sannio); promuove a Nola la rivista "Match" diretta assieme a Camillo Capolongo. Nel 1988 assume la direzione artistica dell'importantissima "Jazzology", rassegna antologica del jazz italiano[3], e quella del "Settembre a Napoli", riuscendo a portare in città Bob Ashley, con la prima europea di El Aficionado, e il newyorkese Peter Gordon. E tuttavia, conoscendo l'estrema ricchezza del progetto originario di Montagano si ha la misura dello scarto esistente tra le sue idee avanzate e le concrete possibilità offerte dalle istituzioni cittadine.
 
Vento che canta, vento che danza
Eugenio Fels, intanto, si ritrova in una nuova felice stagione creativa. Il suo autocontrollo è forte, e la capacità di entusiasmarsi per la musica in sé gli conservano una intensa vitalità.  Scrive Aztlán  (tromba, trombone e pianoforte), Ixtlán  (clarinetto e pianoforte) e l' Intermezzo  per chitarra, tutti nell' '88. Harzenlied (viola e pianoforte) e Atitlán (pianoforte) nell' '89; il Preludio Dorico e l' Arabesques, sempre per pianoforte, nel '90; completa l'ultima versione, ormai definitiva, della Vent qui Chante, Vent qui Danse - Sonata nel 1992; compone il Canto Notturno (pianoforte) e le musiche di scena, per organo e strumenti, Lustratio ad iter Averni nel '93; la Threnodia, per voce e strumenti, nel '94, assieme ad un monumentale lavoro di trascrizione (ed incisione) della colonna sonora del film Fade Out. Recentissimo è l'Hommage à Bartòk, che consta di due pezzi facili per due pianoforti, un Ostinato  e una Marcia, rispettivamente del gennaio e maggio '95.
Cominciamo dalla Sonata, che accompagna il percorso del pianista-compositore per lungo tempo. Il primo movimento consiste nell'esposizione del tema, mutuato da una canzoncina francese e affidato al registro medioalto del pianoforte. Nella (mai) celata tonalità di do minore, il Tema esplora l'universo di poche note presente già nell'Antica Monodia tuttavia aprendosi subito a più voci, e consegnando la melodia ad una parte interna, in modo da esigere dall'esecutore notevole magistero di tocco. Suddiviso in due sezioni, Andante e Più veloce (legatissimo), prende in quest'ultimo un carattere 'improvvisativo' di ricercando, grazie al do basso in ottava sul quale si muove, non esente da cromatismi e variazioni, la frase che contrappunta il tema. L'Adagio comincia con un mi naturale basso, e con misteriose volatine modali che approdano ad appoggiature sostenute dall'ultimo suono legato dell'arpeggio. La sensazione di spaesamento è garantita. Gli intervalli (per quel che può servire dare gli intervalli in musica di atmosfera come questa) sono di quarta eccedente/quinta; seconda eccedente/terza (forma la terza minore di do...); quinta eccedente/sesta. Tutto questo già porta alla 'lontananza nel tempo' di cui s'è  parlato. Un "cadenzando" prelude alla prima esplosione fortissima, e poi ad un "lasciare vibrare": col pedale tutti i suoni eseguiti. La libertà agogica dell'Adagio è ancora segnalata dallo "stentato precipitando" e dal vorticoso Presto ("martellato") che sfrutta la zona più bassa della tastiera (frammenti del tema e del controsoggetto mescolati) per ottenere un rombo appena sfumato dal pedale: questo 'effetto', molto usato da Fels e da me, raggiunge una sorta di clamore metallico non casuale né caotico, ma in grado di evocare tonalità o temi lunghi attraverso tecniche particolari di esecuzione. Gli accordi che riportano al tempo primo rappresentano il punto cruciale, l'apertura del movimento. Non c'è interruzione, ma un lungo pedale che introduce l'Interludio, "Lento, molto libero", con la sordina e l'alternanza di mf e pp che crea un effetto eco. Una sorpresa: la cellula misteriosa che viene prima esposta solitaria, poi arricchita con accordi (decime, naturalmente) della sinistra, in tutto otto battute, diventa elemento minimale, ma di un minimalismo che guarda alla sacra triade Glass/Reich/Riley solo da lontano, e proprio dal vecchio continente. In questo brano (che è quello che più avvicina le nostre produzioni) Fels va verso un minimalismo europeo che non è cerebrale come quello di Adams, o estroverso come quello di Nyman, sembrando piuttosto vicino alla delicatezza del Bryars di Vita Nova, come ho già avuto modo di osservare in un articolo. In più, la vena melodica (e non si dimentichi che la Sonata produce in fondo continue variazioni del tema), che si inserisce perfettamente nell'insieme dei movimenti, è così pronunciata fin dall'essenza della cellula iniziale, da farci immaginare quali potrebbero essere gli esiti di un minimalismo italiano; ma questo accenno è quasi unico nell'intera produzione di Fels. La Fuga palesa la dimestichezza dell'autore col trattamento della polifonia: è forse il brano più complesso ed esauriente che ha scritto, o più semplicemente quello che io amo di più per equa disposizione degli elementi cerebrali ed esplosioni ritmiche e dissonanti: ma andrebbe ascoltato... Segnalo che alla fine della Fuga è prevista una cadenza improvvisata, di cui Eugenio fornisce un possibile canovaccio. O sarebbe meglio dire che segna la sua improvvisazione: si vadano a ripescare i frammenti di soggetti e controsoggetti  presentati con grande abilità fuori dal loro contesto ritmico, ovvero spostando gli accenti. La sua esecuzione della pagina (mi pare importante segnalarlo) è tipicamente jazz: usa un tocco non legato, ma accentato, senza pedale. Il Corale finale (concluso a Pozzuli nell'ottobre del '92) ripresenta con variazioni armoniche il tema, nella tonalità di si minore (ancora uno spaesamento, una delocalizzazione...), e propone una figurazione di semicrome puntate, piccoli clusters e bicordi dissonanti, una intuizione importante nel percorso compositivo perché, pur nella profonda dissonanza, è uno stratagemma che permette di muovere le armonie millimetricamente, generando una sorta di alone armonico.
Resta, nella Sonata, la più importante qualità che noi assegniamo, in tempi di accaduta postmodernità, all'opera d'arte: la capacità del rinvio ad altro. Fels la raggiunge attraverso  lo spostamento di tecniche, armoniche e ritmiche, di tutti i tipi.
 
L'antica trilogia: Aztlán  Ixtlán  Atitlán
Aztlán  e Ixtlán , finiti di comporre rispettivamente nel giugno e nel dicembre dell' '88, sono stati eseguiti in prima assoluta nell'edizione '92 di Galassia Gutenberg.
In Aztlán  tromba e trombone tessono un dialogo che procede per larghi intervalli, non certo di facile esecuzione. Entrambi gli strumenti tengono lunghe note sull'entrata del pianoforte, che non manca di ricamare qualche arpeggio minimale alla maniera dell'Adagio della Sonata. Del brano mi spiace soltanto il dialogo un po' percussivo tra il pianoforte e i due strumenti (come segnalai a Eugenio alla prima assoluta), ma trovo interessante la presenza di cadenze della tromba prima e del trombone poi, perché reminiscenze di improvvisazioni. In una successiva versione, l'autore ha eliminato il dialogo tra i due fiati, inserendo una cadenza pianistica sulla quale viene innestato, in parti interne e ravvicinate, l'intervento di tromba e trombone.
Ixtlán  comincia con un nostalgico e misterioso tema affidato al clarinetto, non privo  di asperità tecniche per la presenza di due glissati: l'esecutore deve essere in grado di improvvisare e cadenzare con un respiro appropriato. Il tema viene subito ripreso dal pianista, con accordi quasi alla Rachmaninoff, fino all'esposizione ("Larghetto") di un malinconico tema. Gli episodi si susseguono come in una improvvisazione a due, in cui ogni tanto spunta una melodia o un'invenzione ritmica (lo staccato improvviso del pianoforte "un po' più allegro", poi sviluppato e ripreso anche oltre). La pagina raggiunge la maggiore rarefazione in un punto affidato al solo pianoforte, nel Largo : un luogo in cui la scrittura di Fels è uguale a sé stessa, riconoscibile, struggente. Di Ixtlán  devo segnalare un continuo cambio di temi e atmosfere, che mi pare indebolire il brano, a meno di reinventarlo esecutivamente volta per volta con  grande flessibilità agogica, del resto prevista dal compositore.
L'Intermezzo per chitarra, finito anch'esso nel dicembre dell' '88, ancora inedito e  ineseguito, conosce almeno due rielaborazioni, e credo sia una delle migliori pagine pensate per uno strumento differente dal pianoforte. Se in Aztlán e Ixtlán  si sente una certa difficoltà di quadratura formale, l'Intermezzo  trova una migliore disposizione tra intuizione melodica e sviluppo.
Atitlán è un brano pianistico che ha avuto un certo successo di esecuzioni, sia perché nel '90 è stato pubblicato in una collana che dirigevo per un editore napoletano[4], sia per l'oggettiva bellezza, tutta strumentale, di certi passaggi. L'epigrafe recita: "Insieme ad Aztlán e ad Ixtlán , Atitlán forma un'ideale trilogia evocativa di remoti misteri: Aztlán  era l'Olimpo degli Incas, Ixtlán  un luogo di potere degli sciamani messicani, ed Atitlán  un lago vulcanico a tremila metri di altitudine, scenario di antichi riti pagani, considerato oggi dai guatemaltechi una delle meraviglie naturali del mondo".
La prima sezione mostra una mano sinistra che arpeggia da posizioni impervie, sfruttando i cromatismi in modo da far 'esplodere' l'accompagnamento; la seconda echeggia frammenti minimali, questa volta assegnati alla destra; un terzo episodio, su una figurazione di quartine di semicrome ripetuta, gioca con un ritmo di tre/tre/due non mancando di utilizzare cluster sulla tastiera e sulle corde. Atitlán  resta di notevole difficoltà, e tuttavia è uno di quei brani che dà soddisfazione al pianista, perché fa bene alle dita.
Harzenlied, finito di comporre a Roma nell'aprile dell' '89, sia per lunghezza che nella modalità del dialogo tra pianoforte e viola è più bilanciato di Aztlán  e Ixtlán . Vi si fa un uso armonicamente ambiguo, e perciò gustoso, di bicordi di quarte[5].
 
Lustratio ad iter Averni
Sbaglierò, ma il Preludio Dorico del maggio 1990 fa da spartiacque fra il Corale di cui s'è già detto (1992), ed il Canto Notturno, terminato nel '93. Dico subito che l'apice dei tre momenti è naturalmente rappresentato dal brano più maturo: è lì che l'intuizione di con/fondere e mescolare clusters 'armonici', per così dire, alla vena melodica di cui Fels già aveva fatto bella mostra fino al '79, viene portata a buon esito. Il Preludio Dorico, invece, può essere accostato senza difficoltà allo studio del trattamento di melodie 'arcaiche' che culminerà soprattutto nella Lustratio ad iter Averni.  Nel brano pianistico si esplorano tipi e caratteri della modalità, e questo naturalmente finisce con attenuare la tensione cromatica, restaurando tuttavia il clima presente nella lontana Improvvisazione (me la ricordano anche alcune formule cadenzali).
Quella di Lustratio è una musica commissionata dall'associazione "Progetto Flegreo"[6], per lo spettacolo omonimo svoltosi all'interno della Grotta della Sibilla, in occasione del "Viaggio nel Mito"[7]. Il nome indica la purificazione lungo la strada dell'Averno, un rito realmente esistente e recuperato dal lavoro dell'autore e regista Ugo Fanina. Piccoli gruppi di persone, guidati dalla flebile luce di fiaccole, si inoltrano nella  galleria della Sibilla. Lungo il percorso appaiono ninfe velate, figure magiche, che recitano solo con sguardi e gestualità, indicando anfratti e cunicoli dispersi nel sottosuolo. La musica accompagna il pubblico itinerante, che replica inconsapevolmente la catarsi. Alla fine, nell'antro delle vasche, suoni di arpe su melodie antichissime: si tratta degli unici frammenti musicali dell' "Oreste" di Euripide e degli "Inni delfici", trattati da Eugenio con naturalezza ed efficacia. Lo spettacolo, restato memorabile in quella versione, è poi stato replicato da altri, che ne hanno imitato  l'idea originale ma non di certo la raffinatezza o la qualità dovuta alle intuizioni di Fanina e Fels[8]. La musica, semplice e rarefatta, è magica, tanto da non sembrare opera di un occidentale. Andrebbe registrata e pubblicata su compact.
 
Fade Out
Nel settembre del '93 il regista Mario Chiari chiede ad Eugenio di occuparsi della colonna sonora del suo film Fade Out (che tecnicamente indica la dissolvenza). Eugenio pensa a musica trascritta da classici, e a qualcosa di nuovo composto per l'occasione. L'idea è quella di confrontarsi con le variazioni da Paganini. Inizia un monumentale lavoro di trascrizione e rielaborazione[9] della Variazione n. 1, del Tema, della seconda, dodicesima e diciottesima variazione della Rapsodia su un tema di Paganini op. 43 di Rachmaninov. A queste verranno aggiunte alcune della Brahms-Paganini (la seconda, quarta, decima e dodicesima) ed alcune delle Variazioni di Liszt. Per una scena cruciale, Fels immagina una melodia affidata ad un contraltista (si tratta di Maurizio Rippa), appena sostenuta da un bordone, poi sviluppata con variazioni strumentali. Nasce la Threnodia, un brano di bellezza sconvolgente, fortemente espressivo e di grande densità metatemporale. In quel periodo, Fels sta assistendo la madre gravemente ammalata, che non riuscirà a vedere la realizzazione di Fade Out . Di tutti i pezzi, eseguiti nel film dal pianista compositore, esiste una registrazione in studio, realizzata in tre differenti sedute, a Roma e a Napoli[10]. Sarà forse superfluo aggiungere che, ascoltando il nastro inedito, o vedendo il film, si nota un pianista ancora eccezionale, per nulla opacizzato dall'attività compositiva. "Dissolvenze" verrà scelto e proiettato in prima assoluta alla Mostra del Cinema di Venezia (1994), con ottimo successo di critica.
 
Alkèmia
Seguendo un percorso che lo allontana dai concerti tradizionali, Fels continua ad usare il pianoforte, ma in lavori che lo coinvolgono in modo nuovo e originale, Fels riprende "Satie Opera", e poi si dedica alla scrittura di uno spettacolo particolare, tutto fondato sull'improvvisazione. Si tratta di"Alkèmia"[11], una performance che nasce da quella che Enrico Grieco[12], suo ideatore assieme ad Eugenio, chiama "una idea fissa": una mescolanza tra immagini, musica e danza nella quale nessuna disciplina prevale sull'altra, dal momento che appaiono così capillarmente "confuse", nel senso postmoderno del termine, da essere effettivamente, e costantemente, l'una il prodotto dell'altra. Quando, in occasione di un mio articolo, ho chiesto ad Enrico di parlarmene,  lui ha alluso con estrema lucidità al "potere di tre arti poste sullo stesso livello, sullo stesso piano: non somma, non semplice raccolta, ma moltiplicazione, incremento quasi esponenziale di tutte". Ognuno dei tre operatori (c'è anche una danzatrice), e questo è il dato fondamentale, improvvisa interagendo con l'altro, così come è tipico della pratica esecutiva jazz. Eugenio parla di "una rappresentazione che tende al raggiungimento di un risultato unitario; non si tratta di una scenografia per immagini, o di musica pensata per una scenografia: ci si muove per appunti minimi, seguendo un percorso comune e prestabilito. Enrico: "per godere del nuovo messaggio multimediale di Alkèmia, ciascun gesto della ballerina, ciascun suono prodotto da Eugenio, e ognuna delle mie diapitture proiettate su di loro, a loro adattate, vien fuso e confuso insieme. A tal punto che il prodotto finale sembra vivere di vita propria, proprio come una cosa che sia lì da sempre, e che è toccato a noi riscoprire".
Ho ascoltato la musica, specie quella del primo quadro, parzialmente annotata su canovaccio: si tratta in assoluto della miglior cosa scritta da Eugenio. Sfrutta i suoni della cordiera, percossa con varie tecniche, ma in modo espressivo. Il che vuol dire conserva la capacità di parlare al pubblico riuscendo contemporaneamente ad utilizzare le tecniche maturate durante la fase dell'avanguardia (è l'acquisizione estetica di chi non ha mai smesso di cercare la comunicazione). Gli esiti successivi del lavoro di Fels dovranno passare necessariamente attraverso una testimonianza discografica.
 
Il "Centro di Cultura Musicale"
Non sono poi molte le vicende che scorrono  nell'ultimo lustro. Posso cronologicamente individuarle nell'attività di Pezzullo, nel corso napoletano di Donatoni (che mi dà modo di conoscere alcuni suoi allievi locali), nelle rassegne "Musical Networks" e "Dissonanzen", nelle sporadiche proposte dell'Istituto Francese o della mostra tecnologica di "Futuro Remoto".
Cominciamo dal "Centro di Cultura Musicale" di Franco Pezzullo[13] e Maria Regina de Vasconcellos, la cui attività si condensò attorno ad un Festival annuale di musica contemporanea, intitolato "'900 Musicale Europeo", che affiancava alle  esecuzioni (spesso prime assolute) le conferenze/analisi esplicative dei maggiori critici nazionali ed europei. Passarono per il Festival le prime di Daniele Bertotto (...Con libere ali per violino, violoncello e pianoforte), Alfredo Cece (Sonata per clarinetto e pianoforte), Chiti (Arion per chitarra), Silvana Di Lotti (Aura per pianoforte a quattro mani; Trio per violino, violoncello e pianoforte), Giorgio Ferrari (IV Quartetto per archi; Gesta per quintetto di fiati), Flavio Testi (Tempo, per quartetto d'archi), Italo Vescovo (Sonatina per Aldo per pianoforte), Daniele Zanettovich (Aube per voce femminile e flauto). Il poderoso programma della VII edizione ospita opere di Scelsi (Kho-Lo  e più tardi i Quattro pezzi per corno in fa), Berio (Sequenza per voce sola), Sciarrino, Bortolotti e soprattuto dei nostri Mario Cesa (My Musical per clarinetto e pianoforte) e Patrizio Marrone (Due fantasie per clarinetto e pianoforte). Il Festival accoglie, fra l'altro, nel 1990, l'importante performance Brise Glace, con musiche di David Jisse e Luc Ferrari, vincitrice del Prix Italia dell' '87.
I critici, considerando a parte i giornalisti locali dei quali Pezzullo diceva apertamente un gran male, furono Enrico Fubini, Paolo Gallarati, Enzo Restagno, Imre Foldes, Dominique Jameux, Jean Roy, Hansjorg Pauli, Estevan Lines, Volker Scherliess, Mario Vieira de Carvallo, e molti altri. Sul tipo di formula adottato da questa e da altre rassegne ho già espresso i miei dubbi: più che essere formato, il pubblico sembra volersi godere musica gradevole, e se la qualità lo convince non esita a sbancare il più vicino emporio musicale. Ciononostante, il "'900 Musicale Europeo" è stato una presenza importante per la città, almeno fino a quando nella città è rimasto, ospite dell'Istituto francese di Via Crispi. Negli ultimi anni, stufo di combattere contro i mulini a vento e di mercanteggiare spazi coi giornalisti, Pezzullo lo esportò a Ischia. Il destino migratorio degli operatori e dei musicisti si compiva ancora una volta.
In una recente intervista mi confidava di volersi 'aprire' ancor più ai napoletani, e so del suo interesse per il lavoro di Gaetano Panariello e di Giacomo Vitale, che definì "musicisti con belle qualità, ma che possono certamente trovare ulteriori possibilità per giungere ad un 'loro' linguaggio". Dei giovani in generale rilevava la difficoltà ad "allontanarsi dall'accademismo contemporaneo" e a "districarsi all'interno della matassa dei linguaggi".
In un mio articolo per un quotidiano, pur rilevando il valore degli strumentisti impegnati (primo tra tutti il cornista Guido Corti), e l'attenzione rivolta a Giacinto Scelsi, un autore che ha dovuto patire una non piccola e non breve persecuzione critica (solo di recente c'è stata una sorta di 'riabilitazione')[14], bacchettavo pesantemente (ma bonariamente) Pezzullo. Ciò avveniva nonostante fossi stato ospitato come unico relatore napoletano di quella. Più precisamente, esprimevo il desiderio di ascoltare anche i brani di altri napoletani, e facevo i nomi di Paliotti, Musino, Mormile, Fels.
Ma Franco era abituato a rapporti tempestosi con la critica, e non me ne volle: qualche tempo dopo mi regalò un suo importante disco con la Kammermusik di Napoli (pubblicato dalla francese MGA, con opere di Dvorak, Strauss e del contemporaneo Jacques Bondon).
La profonda umanità di questo didatta (operatore e trascrittore, esperto di fiati) mi colpì subito, al di là dei suoi meriti e demeriti. L'ultima volta che l'ho sentito, prima dell' inaspettata scomparsa, era felice come un bambino perché il San Carlo gli aveva affidato un concerto. Purtroppo il male gli impedì di tenerlo.
 
Oltre Donatoni
Sempre nel '90 il corso di Donatoni mi dà modo di conoscere Gaetano Panariello, Carlo Mormile ed Enrico Massa. Questi musicisti devono al veronese l'amore per l'avanguardia e, in fondo, anche il suo superamento. Lo stesso cerebralismo strutturalistico del primo Donatoni, capace di attirare in epoca di aureo culto della contemporanea 'colta' frotte di nuovi aspiranti adepti, una volta sfociato nella sottile ironia degli ultimi anni, nel diatonalismo che da più parti gli rimproverano, ha poi allontanato (o definitivamente 'formato') molti degli allievi di una volta. Non so come potrebbe reagire un giovane al vedersi valutare il proprio elaborato con il pendolino da rabdomante, come è uso fare di recente Donatoni. O alla vista del suo maestro/vate che si presenta al Maurizio Costanzo Show in tenuta da messicano con tanto di sombrero. Negli interminabili pomeriggi dei suoi corsi, l'autore di Antecedente X, Questo, e del Sigaro di Armando 'metteva su' una cassetta con un brano di sua composizione; disponeva caramelle, sigari, fiammiferi e quant'altro sul tavolo, e placidamente si addormentava, boforchiando di tanto in tanto qualche risposta esoterica alle rade domande degli allievi. Ma ad un genio (matematico, beninteso) si perdona questo ed altro.
Sta di fatto che alcuni dei partenopei storicamente allievi di Donatoni, pur restando in qualche modo legati affettivamente al maestro, se ne sono  distaccati progressivamente dal punto di vista degli esiti compositivi. 
 
Finalmente Topolino
Panariello s'è diplomato con Aladino Di Martino, per poi perfezionarsi all'Accademia di Santa Cecilia con Donatoni. Conta parecchie esecuzioni, anche radiofoniche, ed è edito da Pucci e Simeoli. Nel '90 la sua produzione comincia a discostarsi da quella di Donatoni; quella è anche l'epoca in cui cominciano le commissioni di Gorli, Pezzullo etc. Collabora intensamente con il San Carlo, ma soprattuto attraverso balletti. Oltre al già menzionato Immago (rappresentato nel giugno del '92, per flauto, clarinetto, violino, viola, violoncello, vibrafono e percussioni), c'è La scena del ragno per il balletto Agostino (realizzato però al Teatro di Corte nel marzo dell' '85), e la suite Nel magico mondo di Disney (soprano solo e grande orchestra, portato in scena nell'aprile del '95), che naturalmente rielabora temi ed esprime sintonie col mondo dei fumetti.
Dalla nota di presentazione di Immago, un'epigrafe cara al compositore: "le sue composizioni nascono da una costruzione artigianale intesa come espressione di felicità e di vitalismo positivo: sviluppi imprevedibili vanno oltre lo sguardo acquoso del postmoderno per tuffarsi nella concretezza del fare, senza nutrire più il minimo dubbio sulla possibilità della comunicazione" (Gallarati). Non posso, naturalmente, condividere la lontananza dal postmoderno, ché altrimenti troverei noiosa l'opera di Nino. Un effetto del postmoderno (di cui mi pare possa prendersi a vangelo l'opera di Lyotard, La condizione postmoderna, che è del '79), è la naturale combinazione e confusione che caratterizza il tempo presente, e dal quale non mi pare affatto essenziale distaccarsi. Anzi, la possibilità che fonda una estetica del futuro, a cui non posso dedicare qui più che un rapido accenno, è proprio nell'uscita dal sistema rappresentata dalla contaminazione, la quale può condurre alla qualità (possibile) dell'opera e alla sua comunicabilità. Ciò equivarrebbe alla riscoperta di un senso dopo l'epoca di conclamata crisi della parola e della creatività.
Per tornare all'opera di Nino, troverei singolare che fosse distaccata dal postomoderno e poi indulgesse in una scrittura che dimostra d'essere molto varia, e quindi certamente attuale. Oltre ai balletti, Panariello è autore di una maestosa e concentrata Sacra Rappresentazione su testo di Ferrara (non Franco Ferrara, il voluttuoso e funambolico poeta), nella quale è possibile percepire il gran gusto per la pura e non cerebrale invenzione (forse questo intende Gallarati per 'vitalismo'), eseguita alla Curia di Salerno nell'aprile '91; ha scritto Ajone, gradevole, melodica, descrittiva opera incisa per Leep Records nell'ottobre '91 (devo soltanto sanzionarne la declamazione della voce, troppo accentuata), e il recentissimo, ancora tonale, La scuola di Musica di Brema, per voce recitante e orchestra. Ha in catalogo molte musica di scena, composizioni vocali e miste, brani per strumento solo ed ensemble. Mi pare notevole il suo Quartetto, del '90, forse ancor troppo legato alla stringente logica donatoniana; Grock, del '91, è già più lontano, perché pur mantenendo una serrata trama sotterranea, e incorrendo in qualche giochetto di troppo (cioè riconoscibile e riconducibile ad un ambito sperimentale), mostra qualche indulgenza per la melodia in un intermezzo armonico, principiato da accordi ben individuabili.  Immago, del '92,  è un nuovo passo avanti, e di strutture severe conserva poche tracce solo nel finale (preferisco sviluppi per note lunghe e tenute). Il suo lavoro più notevole resta per me Concerto per quattro corni, commissionato, come s'è detto, da Pezzullo, scritto velocissimamente da Nino, ed eseguito infine a Lacco Ameno nel settembre '93. Col solo inizio strutturalistico segue un secondo movimento dai toni intimi e delicati, solo a tratti interrotti dall'intervento del terzo corno, che crea un ponte logico/connettivo tra i movimenti (per la ritmica che propone). Il terzo tempo offre qualche seduzione mahleriana. Insomma, una giusta misura tra la voglia di dire qualcosa d'espressivo e l'utilizzazione di tecniche e segnature sofisticate.
 
Rag Birds
Dopo essersi diplomato, Carlo Mormile s'è perfezionato  all'Accademia di Roma e alla Chigiana di Siena con Donatoni. Ma alla Chigiana incontrava Prati, Barriere, Morriconi... e consolidava i suoi interessi per la musica elettronica e per quella da film (con buona pace di Umberto Eco). Del conservatorio non pensa un gran bene; in una intervista inedita mi dice: "La sua situazione negli anni '80 creò problemi a molti, ad esempio a Gabriele Montagano, ma anche a Mario Vitale, che ora fa l'informatico. Io ho resistito, ma qui non ho mai partecipato a un saggio. Cercavamo risposte che a Napoli mancavano. Gli insegnati erano Mazzotta, Ravinale, D'avalos (il quale dice che la composizione è morta nel 1950). Tomei è sulla stessa lunghezza d'onda. Poi qui c'è anche questa faccenda della scuola napoletana, di cui siamo discendenti. Anche Calbi, con tutto il bene che gli ho voluto, era in sostanza una persona essenzialmente retrò. E' stata una generazione che non ha fatto nessuno sforzo per accostarsi alle problematiche italiane ed europee".
Non è che Mormile sia più tenero con Donatoni: " Era attento ed era anche despota. Di qualsiasi frammento voleva sapere origine e collocazione, e se c'era qualcosa che non funzionava secondo una certa concatenazone tecnica o logica ne voleva spiegazione. Questo ha creato la famosa generazione dei 'donatonini', dovuta proprio al fatto che lui era così presente. 'Donatonini' di spicco furono, ad esempio, Gorli, Cardi, Gentilucci, ed altri: l'Italia ne è piena, anche se oggi scrivono in modo molto diverso. Poi è finita l'avanguardia, e con la sua morte certi atteggiamenti sono stati abbandonati. L'anno scorso gli ho chiesto come si trovasse oggi, lui che ne era stato uno dei baluardi. Mi ha risposto di aver già svoltato negli anni ottanta; oggi ha scritto anche qualcosa di diatonico. Dice di essere stato contagiato da Solbiati, all'epoca suo allievo".
Nonostante tutto, dopo il diploma, Carlo ha avuto parecchie esecuzioni radiofoniche, commissioni, pubblicazioni. Di lui m'interessa la disponibilità alla critica, la versatilità e trasversalità del lavoro, la capacità di teorizzarne gli esiti. Mormile, considerando la consacrazione della serialità integrale sia al problema delle durate che a quello delle altezze, finisce col dedicarsi soprattutto al ritmo ("se si riproduce su uno strumento a suoni indeterminati il ritmo di un brano famoso, questo sarà riconosciuto nella maggior parte dei casi sia da ascoltatori musicisti che semplici amatori"). Isolate alcune cellule ritmiche elementari ma discontinue, procede alla loro ripetizione e permutazione, escludendo con meticolosità tutte quelle che potrebbero ascriversi all'intervento dell'esecutore. L'alea, decisamente, non gli interessa, e gli esiti di rigida scansione ritmica non possono che rimandare ad analoghe preoccupazioni del suo maestro (quando vide Silenzi,  la prima frase  di Donatoni fu: "anch'io all'inizio usavo molte pause, perché non sapevo scrivere").
La scelta delle altezze viene invece consegnata al momento compositivo in sé, nel senso che si tende ad utilizzare serie difettive sovrapposte alla scelta delle durate, secondo l'unica discriminante dell'impatto d'ascolto. Tutto ciò, naturalmente, vale soprattutto per la produzione 'accademica' o 'di scuola', nella quale includerei senz'altro Specchi (per pianoforte, maggio, Cadenze (fl. cl. tr. md. cb., agosto '91), Three Two Time (trio d'archi, maggio '92), Sweet Blue Night (pianoforte, sax contralto e tenore, aprile '93), Abba (fl. ob. cl. cr. mb., giugno '93), Figuranti  (fl. ob. cl. cr. mb.), ed altri brani per strumento solo, come Silenzi, unico definito dall'autore 'cageano' (ciò avviene per la presenza di pause ed il tentativo di lavorare sul silenzio: cosa che per la verità mi pare avvicinarlo più a Webern che a Cage) e Permutazioni per clarinetto solo. Fra questi, Sibilando, di cui posseggo una versione per macintosh, pur utilizzando qualche rete strutturale donatoniana, mi pare ottimamente riuscito. Negli altri brani, la componente sperimentale è notevolmente pronunciata, e certo non posso dire di condividerne gli esiti. Molto interessante la lista delle proibizioni estetiche che Carlo adotta come progetto del suo lavoro a venire: innanzitutto l'adozione del furto come metodo; poi, l'abolizione dell'estetica adorniana, e del riferimento alla seconda scuola viennese, dell'avanguardia e della novità per la novità, di "pregiudiziali fideistiche nei confronti dei movimenti artistici 'commerciali' ". Nel programma di Carlo c'è, inoltre, oltre alla già menzionata attenzione verso lo sviluppo delle durate, anche la ricerca verso stili e forme del dire musicale non esenti da contaminazioni.
Infatti altre opere, soprattutto per teatro, sono notevolmente più liriche e meno preoccupate di proclami estetici restando,  a mio avviso, le migliori. Anche la collettanea Mare Nostrum Citreum, di cui si dirà più avanti, ha meriti legati alla confusione con elementi gestuali e teatrali. Infine non mancherò di segnalare che quando Carlo decide di divertirsi e divertirci, al di là delle preoccupazioni sperimentali (con Rag Birds per orchestra di flauti), ci riesce benissimo. E non è un caso che quest'ultima sia forse l'opera più eseguita.
 
Il pozzo e il pendolo
Dopo gli studi napoletani, Enrico Massa si è perfezionato con Donatoni e Clementi. La sua ricerca, rigorosissima, s'è indirizzata verso lo studio di parametri costanti, invarianti o 'eterni'. Ben presto ha preso le distanze dai suoi maestri, lamentando soprattutto la loro indifferenza alla dimensione verticale; ha così cercato inedite relazioni strutturali tra accordi, nuove 'armonie' possibili, pur senza tornare alla tonalità. Ha rilievo pure la rivalutazione della tensione melodica (come ad esempio in Ditirambo).
Massa certamente caratterizza il suo lavoro attraverso una forte carica intellettualistica, che si esprime, ad esempio, nell' interesse per la memoria, indispensabile per l'individuazione della forma di un brano. Per lui, la riconoscibilità di fatti accaduti nel tempo (ha funzione simile a quella dello spazio nell'arte figurativa) assicura la continuità tra atti fondamentali e loro impercettibile mutazione (variazione). "Ogni frammento di musica è formato da singole unità sonore che stabiliscono con l'unità precedente e con quella seguente rapporti di altezze, durata e omo/disomogeneità timbrica": l'aggregarsi di queste particelle crea strutture più complesse. Ciò fa sì che Enrico privilegi la forma chiusa, proprio a causa della presenza di una finalità connessa con l'esercizio della memoria: anche Weininger lega quella facoltà all'espansione volitiva.
Così, giustizia è fatta della serialità integrale, che Massa dichiara morta e defunta proprio come la tonalità; e del suo distaccarsi dall'opera aperta s'è detto. Oggi, l'attenzione va soprattutto al tempo, e subisce la suggestione proustiana: "un tempo in cui passato e presente si intreccino e si confondano, in cui non sempre sia possibile distinguere con chiarezza il prima dal dopo".
Questa ricerca sul tempo e sulla memoria sortisce esiti differenti nella sua produzione. A parte i Cinque pezzi per pianoforte  (1986), eseguiti in Italia e Grecia da Roberto Melini, la sua prima produzione è perlopiù inedita e non ancora eseguita. Si tratta di Collage e Sonatina per vibrafono e pianoforte (1986); Presentia per quartetto d'archi (1988); Il segreto di Arianna per violino e percussioni (1988). Invece Cheter (1989), per due pianoforti, vede diverse esecuzioni, anche radiofoniche, grazie ad Oreste De Tommaso e Carlo Mormile. Vi si esibisce un pianismo vigoroso, esuberante, energico e poderoso, non esente da deteriori tensioni virtuosistiche, e tuttavia d'effetto. Dei Quattro Studi per flauto  (1989-90) uno soltanto è stato eseguito più volte da Daniela Cima e anche da Sandro Carbone, ma lo trovo una sorta di esplorazione di tecniche sperimentali, e non di grande interesse.
Complesso, solidamente costruito, insomma nello stile di Massa, è The Pit and the Pendulum (1990, per chitarra, che più di altri pezzi si fa esemplare del progetto compositivo. Brano rarefatto, suddiviso in 'aree', ambiti o segmenti riconoscibili, ancorato probabilmente a stilemi sperimentali, è tuttavia non privo di esiti espressivi, soprattutto quando rinuncia ad effetti di 'rottura' trasversale. Una sezione echeggia consapevolezza di musiche diverse, addirittura anche jazz (in senso molto lato). In altra sezione, quella che più adotta il metodo donatoniano, presenta attimi (note), punti d'appoggio timbricamente riconoscibili. L'ultima parte torna al lento risonare, stavolta di accordi, appena 'disturbati' da interventi strumentali ad effetto.
Il successivo Studio per Arianna (1991) è tratto da Il segreto di Arianna quasi integralmente. Non è il brano che preferisco, ma devo dire di averlo ascoltato (sia dal vivo che su nastro) soltanto nell'esecuzione di Enzo Porta, forse troppo 'specialistica'. Il Preludio per chitarra, sempre del '91, è tutt'altra cosa, e condensa l'esperienza de Il Pozzo e il pendolo in una aforistica e gradevole piece che presenta qualche citazione (di atmosfere), qualche ostinato, qualche bell'effetto tipicamente strumentale. Si chiude con il susseguirsi di note lunghe (forse si ricollega al pozzo che ospita memorie), e con accordi arpeggiati non privi di tensione armonica. Non conosco la Serenata per quintetto d'archi,  e mi delude un po' il Preludio, duetto e rondò per due sax e pianoforte, scritti entrambi nel '92. Invece trovo molto belli Saffo  ('93) che gioca per sovrapposizioni variate tra la voce femminile ed un contrabbasso in tessiture anomale, e Ditirambo (1995) per sax alto. L'ho ascoltato nell'esecuzione di Nicola Cassese: è un pezzo molto concentrato ed espressivo. Espone il moto solitario, quasi modale, di un solista, cantore dell'universo. Ha preparazione del materiale, sviluppo, apice agogico e coda con virtuosismi, tutti convincenti.
Assieme ai brani per chitarra mi pare tra le cose migliori di Enrico.
 
Altra musica al "Grenoble"
Monade con l'obbligo di produrre cultura con gli indigeni è stato l'Istituto francese di Napoli. Quando non occupato a predisporre meravigliose locandine (salvo poi abbandonare gli artisti a se stessi), propose anche concerti notevoli, sia con Digne che con Schifano. Grazie al primo, diversi artisti partenopei trovavano comunque uno spazio (ed uno sgangherato Steinway che è ancora lì): Eugenio vi rappresentava con Ugo Fanina "Opera Satie", Montagano l'operina Evento, ed io uno spettacolo assieme al gruppo"Virus". Grazie a Schifano, invece, un pezzo d'Africa, col concerto di Francis Bebey, approdava a Napoli. Ma per la prima volta non si trattava di una manifestazione di colore, di quelle che mandavano in bestia Luciano Cilio, ma della performance, perfino un po' snob, di un interprete che gira il mondo per far capire a tutti di quale musica l'Africa si sia riappropriata, e quanto sia disposta a condividerla se sollecitata dal miraggio del villaggio globale.
Il concerto (è il 1993) inizia coi suoni di un piccolo flauto usato dai pigmei. E' un'emissione prima solitaria, ma ben presto capace di articolarsi in varianti profonde o lievi, come accade con la voce umana. C'è vera Africa, col suo diritto a vivere senza guerre postcoloniali, senza egemonia di gruppi commerciali stranieri, nel grido modulato che Bebey lancia al soffitto (e in fondo al resto del mondo) come nelle cantilene  su cellule e moduli strumentali ripetuti. Ma c'è Africa e Francia, e quindi contaminazione, nei pezzi più riusciti, come nel Poema. Qui si congiungono la canzonetta francese ed i timbri ancestrali della "sanza" e dello "n'dehou"; anche la chitarra viene percossa in ogni punto come un tamburo, ed il testo, francese, ci parla  di voli oltre il mare, di morte come a noi è ignota (bambini per strada, mucchi di giovani e vecchi in fosse comuni, massacri di intere tribù...), di colori intensi, di paesaggi  al di là dello sguardo.
Questi stessi elementi, la continuità dolciastra delle melodie, l'amalgama suadente tessuto dalla voce, la poliritmicità sincopata delle percussioni, li ritrovavo qualche tempo dopo nella performance dei figli di Bebey. E tuttavia restavo scontento dell'inserimento un po' casuale di una chitarra elettrica, e di non convinte modulazioni infratoniche della voce, tanto da scrivere di questo secondo concerto come di una grottesca esibizione, capace solo di fare il verso a quella di Bebey padre.
 
Musical Networks
Muovendosi in controtendenza rispetto a tutte le scelte precedenti, forse presagendo l'imminente crisi, la Rai nostrana, morente monade autoritaria, decide nel '92 di programmare una serie di concerti dedicati esclusivamente alla musica contemporanea. Tra novembre e dicembre si terrà infatti una sfortunata rassegna, dal titolo "Musical Networks", spinta dalla sinergia tra RAI, AMN, Università Federico II e Conservatorio. Il progetto, ideato da Giancarlo Sica, è affascinante, perché si basa su un'ipotesi connessionistica ad interazione completa ("Una rete a connessione totale può rappresentare, al di là della sua rigorosa applicabilità nel campo scientifico, un modello di riferimento per collegare molteplici aspetti di un medesimo ambito culturale"), il che presume una conduzione 'aperta' all'intervento del pubblico, dei critici, dei compositori e degli interpreti. Nell'idea iniziale, questa interazione, assieme alla connessione tra alcune tematiche evidenziate come portanti, doveva condurre ad uno spettacolo veloce, di tipo televisivo, con la presenza di linguaggi multimediali (diapositive, filmati, suoni registrati e live), la cui fusione restava affidata tuttavia alle persone invitate e sedere in una sorta di 'salotto' allestito sul palcoscenico. Più di una volta sono intervenuto a quei concerti, dicendo la mia dalla platea, e questo m'ha consentito di capire la ragione del fallimento (di pubblico, ma anche di programmazione, visto ad esempio l'eclatante forfait di Stockhausen). In una struttura realmente aperta, tutte le interazioni avvengono sullo stesso livello, non esiste, cioè, una gerarchia che ponga gli 'utenti' ad un livello di accesso mediocre. Viceversa, si riprodurrà il solito dibattito privo di risvolti culturali. In ogni caso, un merito di "Musical Networks" è sicuramente l'aver portato i pochi presenti all'ascolto di opere di rara programmazione. Ma a parte Berio, Petrassi, Clementi, Donatoni, ed i soliti Cage, Boulez, e via di seguito, anche qui su quattordici concerti viene inserito un solo compositore napoletano. Gli altri autori non sono nemmeno tenuti in considerazione, nonostante io ed altri, pubblicamente e per iscritto, continuassimo a chiederlo. La risposta, quella solita, beffarda e provocatoria: "ma dove sono i compositori napoletani?".
Si può perdonare l'ignoranza, ma non lo strategismo vigliacco.
 


[1] Vittorio aveva studiato pianoforte con Fels e per un breve periodo anche con me.
[2]Antonello Paliotti mi ha regalato copia della registrazione inedita: è un lavoro bellissimo, che presenta rivisitazioni, sempre gradevolissime, di brani noti o ignoti (Stravinskij, Gismonti, Satie, Paliotti, etc). Il titolo, forse non indovinatissimo, è Ma tu, se venisse un signore e ti desse diecimila lire, lo faresti il bagno? Si tratta di tredici tracce, interpolate con frasi celebri o inedite di grandi uomini e donne della cultura internazionale (Grazia Deledda: "Il filosofo ammonisce: se tuo figlio scrive versi mandalo per la strada dei monti; se lo trovi nella poesia per la seconda volta puniscilo ancora. Se va per la terza volta, lascialo in pace, perché è un poeta"). E con le previsioni dei moti ondosi scandite alla radio con lentezza inesorabile (altro che Cage!).
[3]Di quella rassegna, ospitata dal Teatro Diana tra Maggio e Giugno 1988, resta un meraviglioso catalogo (riproduce anche alcune partiture). Questi gli artisti coinvolti: Roberto Gatto, Rita Marcotulli, Massimo Bottini, Battista Lena, Franco D'Andrea, Tino Tracanna, Attilio Zanchi, Gianni Cazzola, Luis Agudo, Riccardo Bianchi, Marco Micheli, Christian Meyer, Maria Pia De Vito, Enrico Pieranunzi, Enzo Pietropaoli, Fabrizio Sferra, Franco De Crescenzo, Aldo Farias, Umberto Guarino, Daniele Sepe, Dario Franco, Giancarlo Perna, Riccardo Zinna, Piero De Asmundis, Pietro Iodia, Enzo Nini, Pietro e Pino Iodice, Pietro Condorelli, Ares Tavolazzi, Glauco Leandri, Marco Sannini, Lello Panico, Pietro De Asmundis, Pippo Matino, Claudio Romano, Guglielmo Guglielmi, Gianni D'Argenzio, Vittorio Pepe, Gino Izzo.
[4]In quella stessa collana ("Nugae", edita da Pagano) erano pubblicati brani di Claudio José Boncompagni (Presenze per clarinetto e pianoforte), Antonello Cannavale (Fragments per voce e pianoforte), Nicola Schiavo (Tema e Variazione per flauto solo), Glauco Cataldo (Vestigia Flammae, per pianoforte), Pietro Cece (Insomnia, per percussioni), Alessandro Abbate (Preludio per pianoforte), e naturalmente miei (Variazioni sul Vento per pianoforte; V.I.T.R.I.O.L.U.M., per pianoforte). Ben presto, tuttavia, appena mi resi conto di non avere alcuna reale possibilità di indirizzo, abbandonai la direzione di questa e di altre collane e smisi di collaborare con quell'editore.
[5]Come è noto, ciascun accordo di quarta di tre suoni può 'risolvere' almeno in tre modi diversi. Altre caratteristiche interessanti, reperibili peraltro in qualsiasi manuale, fanno sì che essi, pur essendo meno dissonanti, se usati in successione  mantengano meglio la sospensione armonica. Quando invece vengono 'risolti' (visto che comunque è possibile ricondurli entro un'area' armonica), vanno a finire su accordi che conservano una certa apertura tra le voci. Anche Schoenberg, pur assegnando la stessa funzione ad accordi che potremmo definire convenzionali (triadi aumentate, settime diminuite in successione, etc.) riconosce alle quarte il carattere di "armonia vagante".
[6]"Progetto Flegreo" si è costituita nel marzo del '93 e da allora opera con grande efficacia per la valorizzazione culturale, territoriale ed ecologica della zona flegrea.
[7]La manifestazione fu voluta dalle Sovrintendenze e dal "Mattino", che però tacque o fu impreciso su molte delle manifestazioni.
[8]Le 'apparizioni' erano realizzate da Pina Testa, Carla Savastano, Marialuisa Camaioni e Rossella Pollice. Fanina e Fels riproporranno con successo, il 16 aprile del '94, e sempre per "Progetto Flegreo", lo spettacolo "Satie Opera" che aveva avuto la prima assoluta al Café Einstein di Berlino.
[9]Fels è un ottimo trascrittore, tanto da essere contattato più volte dal musicologo Artuh Schanz. In catalogo ha, tra l'altro: da Bach, l'ultimo contrappunto dall' Arte della fuga, naturalmente completato (1974); il Preludio-corale BWV 742 (1973); e inoltre: BourrèeBWV 1002 (1973); Fantasia cromatica e fuga BWV 903 (1974); Preludio e fuga BWV 549 (1984); Passacaglia BWV 582 (1990); Sarabanda e double BWV 1002 (1990); Toccata e fuga BWV 565, in duplice versione, libera rielaborazione (1969-1987) e libera trascrizione (1987). Da Haendel: Passacaglia in Sol minore (1969). Da Rachmaninov le già citate trascrizioni usate in Fade Out. Non so se Fels accetti o meno ancora una sua trascrizione da  Tschaikowsky: l'Andantino in modo di canzone dalla Sinfonia n. 4 in fa minore.
[10]Il 28-1-'94; il 19 e 20 febbraio 1994.
[11]Il termine è per metà inventato. Dalle note di presentazione: "Alkèmia vuole portarti in un luogo particolare dove leggende e miti si mescolano ad una realtà ancora più misteriosa e magica. In un luogo dove la natura ha ammaliato i Cimmeri, i Greci, i Romani, le sibille, i poeti di tutti i tempi. Là dove nell'aria ci sono ancora gli odori dello zolfo, e se si guarda attentamente il mare, pare quasi scorgervi delle sirene. E' tra queste sensazioni che nasce la suite, accompagnando lo spettatore attraverso le tenebre degli inferi (terra), i misteri della magia dei miti e dei responsi della Sibilla (aria), attraverso il fuoco, vulcanico e metaforico (fuoco), fino a giungere alla fine di un percorso iniziatico, al mare ch'è il nostro mare, il Mediterraneo (acqua)".
[12] Enrico Grieco, come artista multimediale, si interessa al rapporto tra immagine e suono, cercando di "improvvisare" con le immagini così come  un jazzista farebbe coi suoni. I primi esperimenti risalgono al 1970, ma la storia è proseguita con diverse sperimentazioni: "Katia" (1984-86, solo immagini), "Vesuvio Suite" (1989-91, con chitarra e batteria), "Jam Session" (1992, con tamburo e sculture), "Senza titolo" (1992, con chitarra e percussioni), "Ploff visivo" (con suoni di Luc Ferrari), "Incongruenze" (1993, con pianoforte). Più recentemente ha utilizzato musica dei Pink Floyd e di Keith Jarret. Con "A suddd di Paperone" è intervenuto con immagini miscelate a dialogo, musica, movimento.
[13] Questo il curriculum ufficiale: “Franco Pezzullo, dopo una brillante carriera come solista e come membro di complessi da camera si dedica prevalentemente alla composizione e alla direzione. Grazie a Franco Pezzullo si sta avendo in Italia una rinascita degli strumenti a fiato che non hanno nel nostro paese una salda tradizione musicale e che invece egli sta cercando di costruire con la sua attività di compositore, direttore artistico e didatta. Fondata dal suo Direttore, Franco Pezzullo, la Kammermusik di Napoli riunisce alcuni dei migliori solisti d’Italia. Il suo repertorio, molto vasto, comprende sia opere di musicisti contemporanei che quelle dei maestri classici. Le sue esecuzioni sono caratterizzate dalla loro nitidezza, dalla loro vivacità e dalla freschezza delle tinte, la stessa freschezza che un critico italiano riscontrava nel compositore che è anche Franco Pezzullo.” Pezzullo avrebbe firmato una colonna sonora, per El ultimo dìa de la guerra (1968), regia di J. A. Bardem; ha effettuato registrazioni per la RAI, RAI RECORDINGS 1971/1973, per la quale ha inciso come clarinettista insieme a Sergio Fiorentino, con opere di Brahms, D'Indy, De Bellis (la Sonatine per clarinetto e piano), Glinka, Weber. Come Direttore della Kammermusik (già “Insieme di Firenze” fino al 1986) ha inciso per la MGA 2002 brani di Dvorak, Bondon, Strauss.
[14]Come indica anche Harry Halbreich, Giacinto Scelsi aveva l'abitudine di improvvisare al pianoforte le sue composizioni, chiedendo soltanto in un secondo momento ad un copista-compositore di trascriverle per gli organici da lui prescelti, e poi lavorandole a lungo con i singoli esecutori, come  testimonia anche il contrabbassista Stefano Scodanibbio ("Una volta lui desiderava da me un suono rotondo, io passai mesi a scervellarmi per dare un'idea, per dare corpo a questo suono rotondo, non linea



Renzo Cresti - sito ufficiale