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La musica a Napoli III
La musica a Napoli III, di Girolamo De Simone
Collegati al primo e al secondo saggio




L'operina
Il lavoro più importante di Montagano è di certo l'operina, quell'Evento, rondeau in un atto per quattro voci e tre strumenti, a cui s'è già accennato. Il testo è in parte del compositore e in parte estrapolato da opere di Peter Handke. Evento è stato eseguito in prima assoluta per una settimana al Teatro Spazio Libero, ricevendo un'ottima accoglienza, nel febbraio del 1986[1]. E' stato poi replicato per il Forum degli scambi artistici tra Francia e Italia Meridionale all'Istituto francese di Napoli[2]. Dell'opera esiste inoltre una registrazione accurata, una inedita e bellissima incisione con le voci di un laboratorio vocale, Milena Di Vicino, Daniela Boffa, Mariarosaria Visco e Titti Mautone. I tre strumentisti (ma sembrano moltiplicarsi come per incanto grazie alla scrittura di Gabriele) sono Drummond Petrie al violoncello, Enzo De Carolis al sax e Alessandro Vecchiotti al trombone. Il risultato è un lavoro di densità sconcertante, in cui è palpabile l'ansia e l'impellenza creativa del compositore, ma anche la partecipazione espressiva degli interpreti. Il tempo reale dell'esecuzione è di quarantotto minuti, suddivisi in due tempi di trentuno e diciassette, ma quello emozionale è infinitamente più breve, denso come un amplesso sonoro. E un amplesso sicuramente è simulato da alcuni stratagemmi vocali, laddove i suoni vengono retrocessi a grida, invocazioni, pure emissioni. L'incipit sembra la continuazione del Trio di fiati di Cilio, del quale ultimo, come ho già detto, Montagano eredita l'aspetto più legato alla ricerca. Ma presto, dal tessuto in pianissimo imbastito dai fiati, emergono primi sommessi vagiti, brevissimi, puri, accaduti nella narrazione quasi per caso, come se un respiro si condensasse in parole. Quando la durata di questi vocalizzi si espande a cavallo dell'altra onda, quella descritta dai fiati e dal violoncello, il timbro vocale si smarrisce per incanto, e va a confondersi con quello strumentale. Altre voci, in sottofondo impalpabile, si mescolano come quelle di anime smarrite nel buio, e pian piano si avvicinano, descrivendo e modulando l'unico suono fino a quel momento ripetuto dalla prima solista. Questa atmosfera è contigua a sé, non vi sono interruzioni o fragori tipici della musica sperimentale deteriore; ma è richiesto un ascolto attento, disponibile al turbamento, in grado di tollerare le parole e i suoni del profondo. Il testo parte; ma è decostruito, si percepiscono solo sillabe, a lungo tenute, una sorta di lamentazione, di pianto di donne perduto nelle radici stesse della storia. E nel frattempo tutto cresce, in modo impercettibile, procedendo per onde. Poi le voci. Raggiunto un suono, rapidamente seguono un pitch discendente, si desituano oltre un tipo, rimandano a dinamiche insolite, perché usate più frequentemente dagli archi. E' qui che la confusione di timbri si fa caratteristica pregiata, grazie ancora, ne sono certo, alla magia del mixer. Alcuni sovracuti spengono la sezione.
Comincia una sillabazione dei testi piuttosto irritante, perché stavolta più vicina ai moduli della ricerca fine a sé stessa. L'ossessività della ripetizione sillabica si scontra con il principio della sua stessa variabilità. Vale a dire che si percepisce la consequenzialità (sic, con la 'q') di un testo che rompe con la ripetizione. Su questa base, che già discuterei, si mostrano tronfie esibizioni vocali, naturalmente non di belcanto, ma di tecniche teatral/musicali, e cioè  risate, urla, grida, che mi sono sempre parse eccessive, per quanto efficaci e realizzate in modo straordinario. Ma il periodo era quel che era, ed è naturale che anche l'operina pagasse il suo tributo all'avanguardia. I diciassette minuti della seconda parte (ma parlerei di una terza sezione) cominciano con fiati che giocano con archi, perché l'esiguità della tenuta dei suoni nei primi è tale da simulare lo stridio in pianissimo dell'archetto sulla corda, e viceversa. Non mi meraviglia che quest'opera piacesse a Scelsi, perché certi suoni/respiro sono davvero orientali. Quello che oggi mi pare estremamente affascinante è proprio il magma indistinto che consente alle voci di irrompere come  variabile impazzita.  Con l'intensificarsi delle piccole onde descritte da sax e trombone, subentra una voce che simula un coito in modo palese, e l'espressività è consegnata a questo risvegliarsi dell'attenzione per movimenti di vita e di morte, che solo un atto così passionale e profondo può generare.
In definitiva, l'operina riesce ad essere il racconto delle emozioni allo stato puro. Sentimenti primordiali come la paura, il gioco, l'amore, la morte, si fanno suono, e solo l'articolazione della parola mi disturba. "La verità diventerà verità", e tutte le altre frasi tautologiche, pur affascinando per il rinvio di senso, costringono l'ascoltatore a definire una soglia (minima) del linguaggio. Per questo preferisco la prima sezione, che mi pare un capolavoro nel capolavoro: tutto accade e nulla accade. Ma se quanto descritto nel finale era stato già realizzato all'inizio, forse l'opera va letta proprio attraverso l'inversione del suo procedere. Almeno questo suggerirebbe l'ultimo respiro, che gioca a rimpiattino con il primo.
 
Trieb
Sempre giocato sul singhiozzo, sul respiro (per i fiati), o sulla gestualità concitata (per gli archi), è Trieb, cominciato nel giugno dell' '86 e concluso nel gennaio dell' '87.  Il brano è suddiviso in due sezioni, o paginoni; nella prima si mantiene una scrittura più convenzionale, nel senso che le altezze sono definite entro una sequenza di otto note, permutata dopo due esposizioni e mezzo. Quasta pagina può essere eseguita anche dai singoli strumentisti, e infatti lo è stata, soprattutto dal flautista Luciano Carotenuto. Anche in Trieb  le note esplicative sono indispensabili per capire cosa esattamente abbia voluto il compositore: "il suono che si deve ottenere è un impulso incontrollato generato da movimenti addominali. E' il corpo che deve suonare nella maniera più rigorosa". Il tempo, gli andamenti e le dinamiche non sono indicati, perché bisogna procedere dal lento/piano al veloce/forte, secondo le possibilità di ogni fascia di strumenti. Se resta fissa l'altezza dei suoni, non lo è l'ottava, perché si presume che ogni strumento debba usare la più alta. Un certo grado di aleatorietà viene così fissato (ogni alea, secondo Evangelisti, ha il proprio limite nelle previsioni del compositore; per Cage ne ha un altro più serio nelle capacità dell'esecutore) in relazione al 'respiro' di ogni interprete, nel duplice senso di respiro 'agogico' e respiro 'fisico'. Un trait d'union è affidato all'ottavino, che ripete la parte quando gli altri strumenti passano al secondo paginone, il cui incipit vede un gran glissato di tutta l'orchestra che parte dal sol periodico della sequenza e conduce al suono più alto possibile di ciascuno strumento (il glissato sarà evidentemente breve, visto che ognuno è già alla sua ottava più acuta), e in tutta evidenza quel che si vuole raggiungere è un effetto 'urlato', cioè dinamico, visto che la 'scena' successiva (lo spartito è organizzato come una delle partiture visive di Sylvano Bussotti o di Lombardi) prevede un diminuendo progressivo che conduce allo svanimento (ritengo soffio per i fiati e fruscio d'archetto per gli archi).  L'ultimo quadro, rappresentato graficamente come una sorta di 'aquilone', è interessante per la 'coda', visto che gli strumenti giocano con glissati d'armonici (flauti e ottoni), armonici medi e naturali, e infine un sax tenore che chiude tenendo la sua nota più bassa in modo solo parzialmente intonato (oscillando leggermente sopra e sotto un suono). 
Non ho mai ascoltato Trieb nella sua esecuzione orchestrale, ma soltanto in quella per flauto: la ricerca interessante resta quella rivolta agli impulsi che lo strumentista deve catturare, facendo in modo di evitare quelli meramente binari, e cadendo sempre un po' fuori dal tempo[3].
 
Dissolvenze
Dissolvenze , scritto tra l' '87 e l' '88, chiude il cerchio: si tratta di un pezzo aforistico, esistente in due versioni che differiscono per dilatazioni successive. La prima, pianistica, consta di diciannove battute con valori larghi, che si lasciano risuonare a lungo, anche oltre la durata dei quattro movimenti, in pianissimo. Si tratta di accordi il cui legame è armonico soltanto per il senso di vibrazione che si instaura tra le parti. I movimenti di quest'ultime sono perlopiù 'proibiti' secondo i canoni limitativi dell'accademia, tanto che 'risolvono' a modo loro, frantumando le abitudini consolidate (in definitiva il titolo Dissolvenze mi fa pensare proprio a "risolvenze" improprie). Ma la dilatazione del tempo, il prolungamento dei suoni attraverso il pedale, l'evanescenza del pianissimo, l'uso prevalente di registri medio-alti, fanno sì che non si verifichi uno spiazzamento che risulta sgradevole al consumo. Nel suonare questo brano ho potuto verificare, inoltre, che l'uso di una diteggiatura non convenzionale (tale da consentire una posizione della mano che nell'attacco indirizzi il peso verso certi suoni dell'accordo) apre all'ascolto linee trasversali di significato. La versione pianistica, inoltre, presenta due piccoli incisi melodici, cromatismi lati, che nella zona centrale della pagina offrono un barlume di memoria formale; una specificazione ritmica, purché l'esecutore ricordi di considerare l'ampiezza del tempo virtuale che sta alla base del pezzo, segue immediatamente, richiamando il procedimento logico della progressione. 
Nella versione per archi i suoni vengono ulteriormente spaziati, tanto che le battute diventano ventidue; il valore degli incisi procede per 'aumentazione', sparisce anche l'individuazione ritmica immediatamente seguente. Tutte le durate si appiattiscono, linee di senso finiscono sommerse, lasciando al direttore la possibilità di rintracciarne e recuperarne traccia. Ma se un singolo esecutore può recuperare ed amplificare empaticamente suoni/chiave, tutta l'orchestra andrebbe forse indirizzata prevedendo e segnando i piani sonori desiderati (con 'ossia', o molteplici varianti...).
Dissolvenze  rende ancor più essenziale il gesto compositivo di Gabriele; ne condensa lo sforzo attraverso una realizzazione "minima" (come riferisce lo stesso autore).
Al silenzio alcuni compositori sono giunti attraverso l'uso di pause, la fugace apparizione di suoni sottilissimi. Montagano è consapevole della necessità di tagliare, rendere agile ed essenziale la comunicazione, ma sceglie la strada intensa del suono lungo.
Come se chiudendo una porta nessuno potesse mai dimenticare che nell'altra stanza c'è un intero universo di suoni e colori.
 
Quel terribile cappuccetto rosso
Di Giusto Pappacena, l'altro compositore vicino al Gruppo Ricerca e Sperimentazione, devo segnalare in primo luogo la straordinaria capacità improvvisativa. Seduto davanti alla tastiera del pianoforte, Giusto era capace di modulare per ore, cambiando continuamente genere senza interrompere la  narrazione. Una grandissima musicalità fluiva libera, e forse non ho mai più provato una tale sensazione di arresto del tempo reale come quando queste 'sedute' avevano corso. Al suo confronto, io e Gabriele, che non ce la caviamo male con l'improvvisazione, sembravamo bambini con difficoltà d'articolazione. Eppure (specie in duo con Montagano, che si dimostrava il più adattabile) procedevamo ad esperimenti che sarebbe stato bello e importante far confluire in qualche registrazione, cosa che non avvenne mai.
Ad un certo punto Giusto cominciò dapprima ad occuparsi in modo  serrato della sua preparazione scolastica, e poi della carriera accademica. Il dono d'attingere a istantanee sublimità venne pian piano messo da parte, forse perché, letteralmente, troppo "a portata di mani" (nel senso che poco doveva essere lo scarto tra pensiero e gesto musicale). La sua maggiore attenzione, oggi che insegna in conservatorio, è rivolta agli impegni didattici, ed agli strumenti originali e raffinati che predispone per i suoi allievi.
Pappacena, dottore in filosofia dal '78, è allievo, come Fels, di Aladino Di Martino, con il quale fa in tempo a conseguire il compimento inferiore di composizione. Il dato non è casuale, perché specialmente nei primi lavori è presente una vena melodica abbastanza ironica, simile a quella del maestro. Con la sua Sonatina vince il concorso Maleventum, e l'Improvviso n. 4 viene trasmesso (è l'otto aprile 1985) dalla trasmissione radiofonica "Un certo discorso". Oltre che all'interno delle rassegne già citate, io ed Eugenio  eseguiremo alcuni suoi brani nei concerti inaugurali della Associazione Liszt. Si tratta ancora della Sonatina Tragicomica, del Preludio quasi un blues, e del fluido Quel terribile cappuccetto rosso (tratto dall'omonima fiaba di Rodari "C'era una volta un povero lupacchiotto, che portava alla nonna la cena in un fagotto..."). Sono  brani in cui prevale l'elemento improvvisativo, e non so quanto oggi vengano accettati dall'autore. Certo è che specie il Preludio quasi un blues richiama fortemente i momenti più ispirati delle performances libere del compositore vesuviano, ed è pagina molto ispirata. Su decime affidate ad un' ampia sinistra, si muove un fraseggio perlopiù monodico, molto cromatico, affidato alla destra, che conduce un monologo della durata di appena venticinque battute, non senza sbuffi e palpiti irregolari. Bello anche il Primo stasimo, una lirica per soprano e pianoforte su testo di Lello Giordano ("Un asfittico palpito di morte, diluizione nel mare del silenzio, perdermi, e perdere. Soffrire sradicando le lacrime e le colpe..."): di stampo neoimpressionistico, non gli mancano tuttavia la pienezza di certe armonie jazz (la curiosa sensazione è che nel Primo stasimo l'autore si sia volutamente contenuto, irregimentandosi nelle regole...).  Ho notizia di una suite per archi, e di molti altri brani pianistici consegnati al nastro, che risalgono all'incirca al 1985. Dell' '86-'87 è Disincanto, una improvvisazione mossa sul tracciato del Preludio, in cui mi pare notevolissimo l'humus accordale, prevalentemente armonico, che fa da sfondo alla performance di una tromba solista (o altro fiato, visto che la registrazione è sintetica). Molto carino e sfavillante Friends, del 1991, concepito per banda; il Concerto per tre del 1992 è gradevole, anche se un po' incline a certe prolissità scolastiche (romantiche, per quanto riguarda il pianoforte). Più recentemente ho avuto modo di ascoltare alcune registrazioni di prova per due Song: la prima esiste in due versioni, per solo pianoforte e per quartetto d'archi, estremamente romantica, evoca, un po' per gioco, aloni alla Rachmaninoff. La seconda, più interessante limitatamente all'incipit, è per pianoforte ed archi, ma ci avrei visto bene il bandoneon, perché allude a modalità usate da Piazzolla. Ma è chiarissimo che in entrambe Giusto sta facendo esercizio di stile.
In generale devo considerare che se questo straordinario musicista/strumentista tornasse alla sua antica vocazione potrebbe stracciare parecchi autori di musica da film (che a parer mio, lo ripeto, ha  medesima se non maggior dignità di quella d'altro tipo), e fare cose non lontane da quelle dello Jarrett performer solista. Il paragone mi viene anche meglio dopo aver ascoltato la produzione, per così dire, 'colta' del famoso jazzista: anche lì il senso della forma soffoca l'ispirazione melodica; eppure nelle improvvisazioni restano notevoli le acquisizioni sperimentali, le sognanti melodie, impossibili da riprodurre su carta o da suonarsi identiche, come ammette lo stesso autore[4].
 
Le interviste: un quadro desolante
Tra l' '82 e l' '84, oltre a dedicarmi all' attività solistica e compositiva[5],  mi muovo come giornalista per sentire le ragioni di operatori e compositori napoletani. Parto naturalmente dall'ondata di interesse suscitata da "Avanguardia e ricerca musicale" e sento tra i primi Carmelo Columbro, che mi conferma la difficoltà a lavorare nella città (è il giugno dell' '82). "Per essere compositore a Napoli devi pensare di non essere a Napoli: la città non ti stimola, le strutture mancano, gli enti sono tardivi e, spesso, completamente immobili. Fare musica è quasi impossibile: esistono soltanto delle élites, al di fuori delle quali il nulla, l'affossamento totale di certi processi culturali". Per questa ragione Carmelo afferma di lavorare senza pensare al pubblico, ma solo per la voglia di farlo. "Parto da 'ombre' che vado man mano a definire attraverso momenti quasi artigianali di costruzione ed elaborazione. Il 'fare espressivo' aumenta col definirsi di queste ombre. Il momento creativo si esaurisce quando la composizione è terminata".
Nello stesso periodo, pubblico le interviste e le analisi di brani di Fels e Cilio. Nel febbraio dell' '84 ascolto un didatta locale, Carmine Pagliuca, e gli chiedo provocatoriamente quale sia la situazione del conservatorio di Napoli; questa la risposta: "Napoli, pur avendo la scuola più celebre, a livello mondiale, ha oggi numerose carenze: non abbiamo nemmeno il corso di musica elettronica. Esiste una maggiore arretratezza, il conservatorio viene considerato provinciale, perché inquadrato in una realtà cittadina purtroppo decadente e avvilente (...). Comunque abbiamo tuttora delle forze vive, per porci all'avanguardia del movimento musicale internazionale: in quanto a tecniche, fantasia e modernità di linguaggio i nostri compositori sono sempre fra i primi, anche se, purtroppo, la mancanza di strumenti idonei li costringe a non aggiornarsi sufficientemente. Vi è la latitanza più completa dello Stato". 
Dopo pochi giorni incontro Franco Di Lorenzo, che ricopre la carica di responsabile della struttura orchestra e coro della sede regionale Rai. Mi è stato presentato da Enzo Marone, un universitario sensibile e colto e tuttavia di ironia raffinata. Di Lorenzo, gentile e disponibile, si mantiene però sul filo del rasoio; concede e recede, dice e tace. Cavilla sul termine "contemporaneo" ("essere un artista contemporaneo non vuol dire porsi all'avanguardia"), ma poi ammette: "a Napoli non vi è spazio per la composizione, c'è poca avanguardia, anche per la scarsa presenza di artisti specializzati. La musica non è un'arte autonoma: l'autore deve affidarsi a un esecutore: e purtroppo non esistono strutture che mettano a disposizione solisti, orchestre, organici vari per eseguire le nuove musiche".  Tutte cose vere, naturalmente, e sarebbe appena il caso di chiedersi dove diavolo avrebbero dovuto essere queste orchestre se non alla Rai... Certo, la responsabilità era dei vari direttori artistici lì presenti, da sempre più preoccupati di crearsi un'immagine nazionale: a chi poteva interessare promuovere la musica dei compositori locali? 
Tuttavia Di Lorenzo, di tanto in tanto, riuscì ad essere eseguito dall'orchestra Rai e ad utilizzare quelle esecuzioni per incisioni discografiche. Extra ecclesiam nulla salus.
 
La difficoltà di essere musicisti a Napoli
Per Renato Piemontese (l'intervista è del marzo '84), "Napoli è una strana città: se può sembrare l'eterna addormentata all'ombra degli eventi, opera poi costantemente in una fitta rete di cultura che sovente esplode o primeggia nelle occasioni offertele. Una gran quantità di talenti produce arte come il pane quotidiano, ma è costretta a usufruire  di circuiti extralocali o, se vuole operare in loco, di quei rari spazi consentitigli dalle strutture esistenti. Il guaio è che questi spazi sono creati non certo per sete di conoscenza o per interesse diretto, ma perché 'la serata contemporanea dà lustro' ". Con grande lucidità, Piemontese aggiunge che "Napoli non offre alcuno spazio alla musica contemporanea, se non sporadiche occasioni pressoché riservate a quei nomi che fanno parte dei circuiti nazionali di arte contemporanea. Tutti dovremmo raggiungere la consapevolezza che l'avanguardia non è più dei vari Sciarrino, ma di coloro che giorno per giorno continuano la ricerca e la sperimentano nell'atto della creazione".
Il problema è che sono passati oltre dieci anni da quella intervista, e l'unico omaggio a  un vivente che si pensa di organizzare nei dintorni della città è proprio dedicato a Sciarrino, un compositore che, con tutto il rispetto, appare lontano anni luce da tutto quanto sta accadendo nel panorama delle musiche vive[6].
Piemontese descrive con precisione e minuziosità il suo procedimento creativo: "Partendo dalla ricerca di definizione immaginale, attraverso processi di articolazione, ti trovi a modificare e spesso a moltiplicare le immagini stesse, ti trovi in mondi diversi da quelli iniziali, ad analizzare sfere emotive scaturite dalle tue elaborazioni, dalle tue immagini. Rispetto ai mezzi espressivi, non disdegno di usare, se necessario, forme di linguaggio anche tradizionali. Un compositore di oggi ha a sua disposizione una enorme quantità di materiale timbrico, armonico e gestuale, anche perché coadiuvato da mezzi tecnici impensabili fino a pochi anni fa. Con questo intendo dire che non soltanto perché si è usato il rumore di un vetro rotto si debba negare l'utilizzazione dei semplici accordi perfetti maggiori e minori".
 
Il suono e la parola
Nel marzo dell' '84, stimolato dalle inchieste condotte, e per muovere qualcosa in acque altrimenti stagnanti, promuovo e curo nelle sale della libreria dehoniana di Via Depretis un convegno dal titolo "Il Suono e la parola", in tre pomeriggi di "annotazioni e ascolto sulla/della Nuova Musica". Il 23 marzo leggo gli "Spunti per una estetica improbabile", già pubblicati dal quotidiano Napolinotte, e faccio ascoltare su nastro le musiche di Cilio, Fels, Montagano e mie. E' previsto un intervento di Enrico Renna, di cui Ciro Scarponi aveva eseguito Tief durante gli "Incontri nazionali della Nuova Musica". Sia io che Fels abbiamo appena detto la nostra, soprattutto mostrando l'apertura a musiche di provenienza differente da quella 'colta'. Renna reagisce duramente, prendendo in giro alcuni gruppi rock e cercando lo scontro frontale anche sul problema della formazione (servono le scuole di composizione? in che rapporto sono genialità e autodidattica?). Eugenio non sopporta la provocazione, s'alza e va via.
Al secondo incontro, proprio sul tema della creatività,  benché fosse prevista la presenza di Columbro, Piemontese, e naturalmente la nostra, ci si ritrova in pochi: evidentemente non a tutti le sorti della musica contemporanea sono care come era parso nelle interviste. Conclude il ciclo l'unica commemorazione a Salvatore di Giacomo, il 5 aprile, con un "Omaggio" di Franco De Lorenzo che ne ha musicato e pubblicato su ellepì una lirica[7].
Posso dire retrospettivamente che il convegno ha avuto una duplice funzione. I contenuti, innanzitutto: materiali sommersi son venuti alla luce, riacquistati all'ascolto benché soltanto da nastri. Ma anche tesi a confronto: l'irriducibilità  tra l'avanguardia 'colta', 'sperimentale', e quella vera, che avrebbe preso il sopravvento: quella che incontra di nuovo il pubblico perché utilizza la contaminazione, un linguaggio accessibile ed espressivo (non necessariamente semplice), che rompe con l'estetica oppressiva e snob della seconda scuola di Vienna. Simbolicamente, le due posizioni s'erano scontrate, e quasi schiaffeggiate, per usare una metafora 'postuma' suggerita da Fels.
Nemmeno mi pare casuale l'assenza di alcuni, e l'egotismo di altri (i tg segnalarono soltanto la terza conferenza...): mentre in altre città, per esempio Roma o Firenze, i compositori riuscivano a federarsi e a trovare nuove opportunità d'esecuzione, a Napoli, scomparso Cilio (avrebbe potuto essere l'Amelio della musica), non si reperiva una figura capace di aggregare e amplificare le diverse solitudini.
Se non c'era l'emergenza di un contropotere (né io né Montagano riuscimmo a costruirne uno sufficientemente forte), mancò pure un interlocutore istituzionale che potesse per autorità o competenza costituirsi come referente.
 
Andiamo a verificare...
In effetti, se si tenta una ricognizione delle possibilità concrete offerte dalla istituzioni cittadine in quegli anni, guardando anche ai loro direttori, si vedrà che queste si potevano quasi contare sulla punta delle dita e che quelli s'infischiavano della valorizzazione delle nostre risorse. Ed è quasi superfluo precisare che non si sta parlando genericamente della musica  che altri portavano qui, ma delle occasioni che gli artisti partenopei avevano per dare visibilità al loro lavoro.
Tutto questo va dimostrato, per evitare che si parli della solita lamentazione o del consueto piagnisteo meridionale. Qui deve essere visibile che la compressione di certi percorsi fu questione di scelte relative a precise politiche culturali. Le nostre terre di frontiera furono prese per terre oleografiche, e rese disponibili alla conquista. Capire questo, e dirlo a tutte lettere, potrebbe servire ad evitare errori futuri, e il messaggio mi pare sufficientemente chiaro. Devo anche legittimare l'indignazione con documenti, date, citazioni, che sono qui solo esemplari (né potrebbe essere diversamente: il panlogismo è una pretesa eccessiva). E pazienza per l'appesantimento del testo.
I nomi che già sporadicamente passano al San Carlo sono quelli di Satie, Hindemith, Berg, Webern. Il nostro teatro viene appena sfiorato da opere di Henze, Tosatti, Barber, Mannino. Nell' '86 si commemora il quindicesimo anniversario della morte di Antonio Cece (Passacaglia). Nel '93 ci sono Cece e Morricone. Poche e sporadiche le altre presenze. La musica contemporanea ha invece una via d'accesso facilitata per quanto riguarda i balletti. A parte una fantasmatica commissione che già Cilio dovette ricevere, il Caledoscopio di Cece,  Lucia! di Sergio Rendine, e poche altre cose, ho notizia di un ottimo successo riportato da Nino Panariello con Immago.
Alla Rai, quando ancora la sede era attiva con una programmazione indipendente e con l'orchestra, l'apparente gran movimento sotto la direzione artistica di Mario Bortolotto, soprattutto grazie al Festival d'autunno consacrato alla musica contemporanea, si riduceva alla passarella dei soliti nomi dell'avanguardia nazionale che ci gratificavano con le loro opere sperimentali.  Nell' '84, ad esempio, veniva eseguito l'Arioso mobile di Francesco Pennisi (e nello stesso concerto opere stagionate di Ghedini e Bossi). Bortolotto riteneva molto importante dare spazio ad un concerto monografico dedicato alla "Scuola di Donatoni" col milanese Ruggero Laganà (Concerto per arpa e orchestra),  Alessandro Solbiati, classe 1956, di Busto Arsizio (...Più sopra le stelle..., per soprano e orchestra),  Pippo Molino, sempre milanese (Il canto ritrovato, per orchestra da camera), col romano Matteo D'Amico (Ariel, per orchestra) e naturalmente  Franco Donatoni (Orts per 14 strumenti). Una certa compensazione la troverei nella scelta di Enrico Renna come direttore, se non sapessi che quel concerto dette origine ad una serie di problemi e recriminazioni. Nel 1985, Bortolotto programmava Bettinelli (Omaggio a Strawinsky e Concerto per violino e orchestra), Pennisi (Due canzoni natalizie etnee), Short (Slow Drag and Gallop; Scott Joplin and Friends, per quintetto d'ottoni e orchestra), riteneva importante commemorare i dieci anni dalla morte di Dallapiccola (e passi), ma anche il sessantesimo compleanno di Aldo Clementi (O du Heilige) con musiche di Gentile (Criptografia), Togni (Lyrusches Intermezzo), ancora Pennisi (L'arrivo dell'Unicorno, giusto per una postilla "per Aldo"), Arcà (A Splendid Tear), Mann e Sciarrino (Due canzoni del XX Secolo). Ospitava il Terzo concerto per pianoforte e orchestra op.25 di Mosca (uno dei pochi brani memorabili), ed il "veneziano" concerto per pianoforte, clavicembalo e orchestra di Ambrosini. Sempre nell' '85 c'erano due prime assolute di Claudio Cojaniz (Memories 1 e 3), con la direzione di Dennis Stanko e di Sandro Gorli[8]. Nel 1987 (ancora una festa di compleanno!), per il 60° anno di Hans Werner Henze si eseguono la  Sinfonia n. 1, per orchestra da camera; la Fantasia per archi e leFunf neapolitanische Lieder (e cioè "Canzoni 'e copp' 'o tammurro") per mezzosoprano e orchestra.
In realtà, il vero pensiero di Bortolotto sulla musica napoletana era contenuto in una epigrafe consegnata al già citato disco di Franco Di Lorenzo. Tra altre amenità, riteneva che il lavoro di Di Lorenzo non si potesse "ricondurre ad una matrice napoletana, vera o immaginaria che sia"; e adduceva le seguenti motivazioni "storiche": "si sa come, dopo la grande età dei Borboni, fino al direttorio e al regno di Murat, non si possa più parlare, per la composizione, di una vera e propria scuola di Napoli: lo stesso insegnamento di Zingarelli (mi permetto di far notare che sta parlando di Nicola Antonio Zingarelli, nato a Napoli nel 1752, e morto a Torre del Greco nel 1837!! nda), e d'altri, ebbe gli esiti migliori con musicisti non napoletani, Bellini in prima fila. La ripresa importantissima di Martucci non trova continuatori: dopo Martucci, si tratta in ogni modo di casi sporadici, da considerare, chi ne fosse interessato, ciascuno per sé, autonomamente". Non c'è che dire, una ricostruzione davvero aggiornata! Il lavoro di Franco Di Lorenzo sembra aver avuto valore soprattutto per il fatto che "quali che siano i suoi rapporti con gli altri musicisti del Sud, la sua linea se ne discosta senza mezzi termini. Non rinunzia a nulla del colore che è tradizionale nella musica del Mezzogiorno, e men che mai della sua tendenza a risolvere tutto in valori lirici, nel predominio del canto (...)".
Come ci si poteva illudere che questa linea critica concedesse spazi alla nostra musica?
 
Tutto cambia, nulla cambia
Con l'avvento di Fargnoli alla direzione artistica della Rai, c'è l'apparenza di qualche concessione in più ai compositori locali. Nell'Autunno Musicale dell' '88 viene programmata la Suite Dominicana di Antonio Braga, che fa seguito alla sua Hispaniola, già eseguita alla Rai. Ci sarà una serata di prime assolute, con il  Capriccio per clarinetto e archi  di Aladino Di Martino (un brano atonale e virtuosistico), l'omaggio a Proust Recherche  di Franco Di Lorenzo (certo non descrittivo nel senso tradizionale, ma rivisitazione atonale e quasi dodecafonica - ma non seriale), il Concerto per archi di Cece, il modesto Concerto per clarinetto e archi di Enzo De Bellis [9], la Suite per pianoforte e archi di Mario Pilati (nel 50° della morte)[10]. Il concerto del 9 dicembre vede quattro prime esecuzioni assolute, di Galdi (Concerto per archi), Vandor (il manniano Paesaggio con figure), Scogna (Fluxus, immagino dal nome del mitico e omonimo movimento) e Lombardi (è il Concerto per pianoforte e orchestra)[11]. Il 16 dicembre c'è la prima di Gentile (Concerto per chitarra e orchestra) e di Ravinale (Elegia del silenzio, e meglio sarebbe stato tacere). Non mancano cenni di continuità con la gestione di Bortolotto, come si vede, non foss'altro per il perpetuarsi dell'intento celebrativo (l' 80° compleanno di Carter...). Nella stagione "istituzionale" dell' '89, su diciannove concerti, l'unico 'contemporaneo' sarà Petrassi. Pian pianino anche l'"Autunno Musicale", tradizionalmente dedicato alla musica d'oggi, si impoverirà di esecuzioni: nel '90 l'autore più vicino a noi sarà Hindemith. E non è napoletano.
Le altre istituzioni, la cattedra universitaria di Storia della Musica e il Conservatorio statale, hanno avuto un ruolo trascurabile per la promozione di musica contemporanea. La prima pare quasi specializzata in musica medievale (non è una battuta: Ziino è un esperto di quel settore), e il secondo, oltre ad ospitare periodicamente un concerto  di qualche gruppuscolo, mi pare, fino ad oggi (si è appena insediato Roberto De Simone), paralizzato come la sua biblioteca[12].
 
Le ragioni del silenzio
A questo punto le ragioni che mi spingono a qualificare la nostra come un'avanguardia 'altra' dovrebbero essere evidenti. Avevamo contemporaneamente qualcosa in più e qualcosa in meno rispetto a città come Roma o Firenze.
I politici che ci rappresentavano venivano eletti per ragioni di opportunità. Le Piedigrotte  erano sempre servite a consolidare i tarallucci, di cui ci restava naturalmente soltanto il buco (altro che brioches!). E' naturale che si facesse di tutto affinché le cose rimanessero come erano. Non si poteva mica consentire a qualcuno di ripensare la cultura, di anticipare i percorsi dell'arte, di riformulare quelli della musica. L'omertà è calata anche attraverso i giornali; quando s'è soltanto svilito e sminuito quello che qui si produceva bisognava ritenersi fortunati. L'acquisizione estetica del silenzio è stata quantomeno 'indotta', per dir così, attraverso quella mancanza di parole.
L'omertà produceva altri effetti indesiderati: eravamo incapaci di federarci; il sospetto, l'opportunismo, il menefreghismo e il tira a campà tutto partenopeo, appartenevano alla sfera delle scelte, o erano anch'essi 'indotti'?
Così, ognuno fece per sé; qualcuno riuscì, come Roberto De Simone (che per la verità ha anche dato spazio a molti giovani). Molti altri non furono, all'interno dell'atollo, che una miriade di monadi perlopiù isolate, spesso in lotta feroce l'una con l'altra.
Questo individualismo esasperato non ci impedì di anticipare talvolta i percorsi estetici nazionali, e in qualche caso internazionali, un po' come era avvenuto al trenino della "Vesuviana". Non ho bisogno di fornirne prove ulteriori: il solo caso di Cilio è sintomatico, e taccio, per pudore, dei viventi.
Ma occorre tener presente che con la velocità ipermediale l'unicità del genio è andata scomparendo; la sensibilità collettiva appartiene ad una coscienza globale sempre più sviluppata. Insomma, ci si muove in tanti verso la medesima meta. Una cosa accade quando la vediamo in rete;  non possiamo nulla contro questa illusione, se non almeno mantenerci consapevoli degli effettivi mille piani quando ricostruiamo o raccontiamo i fatti.
Magari conservando quella personale conoscenza, la quale infine supera la prospettiva, e si tramuta, col tempo, in  silenziosa e saggia capienza.
 
L'armonia e l'invenzione
Molte monadi, dunque, si formano pian piano. Associazioni come "L'Armonia e l'invenzione", "Liszt", "Aliseo", gruppi come  "AC.EL.", "Virus", "Colin Muset": tutti esempi che documentano la vita musicale dell'ultimo decennio. Realtà non prive di valore, di intuizioni importanti. Forse uniche occasioni per veicolarsi.
L'attività de "L'Armonia e l'invenzione" sembrò inizialmente incoraggiata più da "Paese Sera" che dal "Mattino". Ma anche il maggior quotidiano locale dette spazio a quei concerti/analisi, come ad esempio alla performance di Shivkumar Sharma. Naturalmente ciò avveniva entro i limiti e le possibilità che già abbiamo attribuito ai critici di quel giornale. Il merito generalmente riconosciuto all'associazione (che organizzò incontri di rilievo con Berio, Nono, Schiaffini, etc.) è attribuito al tentativo  di 'formare' il pubblico napoletano, che però a me pare un tentativo che palesa una vecchia malattia degli operatori, forse inoculata dalla formazione neoadorniana. Infatti mi pare chiaro che il vero problema per i botteghini fosse più nella qualità dei compositori che riuscivano ad arrivare ai teatri che nei limiti di fruibilità degli ascoltatori: i curriculum e le cassette demo venivano accolte all'estero e rifiutate a Napoli.
 
Un colloquio di informatica musicale
Il gruppo AC.EL. (e cioè il gruppo di Elettroacustica del Dipartimento di Scienze Fisiche dell'Università di Napoli), invece,  svolse prevalentemente attività di ricerca fin dalla  fondazione nel '76 ad opera di Giuseppe Di Giugno e Antonio De Santis. Coinvolse soprattutto scienziati interessati al discorso musicale, più che musicisti veri e propri: ma questa è un po' la pecca di tutta la musica elettronica (solo in parte, e con evidente minor capienza di mezzi, l'insorgenza della computer music consentirà anche a compositori non specialisti di ampliare certe facoltà grazie all'uso delle macchine, sempre nell'ambito di possibilità previste da software già predisposti). Una storia essenziale del gruppo è stata formulata da Giancarlo Sica, sensibile e disponibile compositore, in un saggio ospitato da  KOnSEQUENZ (n. 2/94). Tuttavia mi pare importante ripetere qui, almeno, i nomi di Sergio Cavaliere, Aldo Piccialli e Imma Ortosecco (1980). Nell' '81/'82, Cavaliere e Sossio Vergara realizzano un elaboratore in tempo reale per la sintesi del suono (TROLL). Con Lorenzo Papadia, Cavaliere studia, inoltre, un sistema che consenta l'interazione automatica tra musica e movimento, poi presentato al Festival dei Due Mondi di Spoleto. Il sistema PSO-TROLL, che approderà a Parigi, sarà invece opera di Piccialli, Cavaliere ed Evangelista.
Ma l'esito più importante dell' AC.EL. per la città, visto il numero di prime esecuzioni che vi si realizzarono, fu il "VI colloquio di Informatica Musicale", tenuto a Villa Pignatelli nell'ottobre del 1985. Oltre all'esecuzione di tre lavori di Giancarlo Sica (Cantata (ex machina) per soprano e computer; Arcana; Timesteps) non mancarono prime assolute di Sergio Cappucci (Traslazione e...), Enrico Cocco (Istinti verso...), Michelangelo Lupone (Mira);  brani di Fausto Razzi ed altri.
 
Il lavoro di Giancarlo Sica
Pur svolgendo un'intensa attività di ricerca nell'ambito del gruppo AC.EL., Sica non rinuncia per questo all'attività compositiva. Le sue opere strumentali Sonata per pianoforte e marimba, e Quartetto d'archi, adottano un sistema compositivo che rimanda implicitamente alle permutazioni matematiche utilizzate anche nella produzione elettronica. Lo stratagemma tecnico consiste nell'individuazione di piccole sequenze ripetute attraverso un loop, un circolo virtuoso/vizioso di reiterazioni, pur sempre modificabili, sulle quali si inscena la variazione tematica o l'invenzione ritmica di una parte superiore. Mi pare, in particolare, di poter connettere le due composizioni già citate almeno alla Cantata (ex machina)  e a Kane no Koe.  Un discorso a parte merita invece Ancestralia, per pianoforte, alla quale abbinerei Il cerchio del Tonal, ambiziosa e bellissima suite per voci ed orchestra ispirata alle opere di Castaneda ed eseguita in prima a Napoli nel 1991[13]. Si tratta di opere legate a linguaggi più semplici, tonali o atonali, che restano pur sempre espressive e raffinate. Anche la Fantasia per flauto e orchestra da camera (ma ne esiste anche una versione per flauto e quintetto d'archi) può riconnettersi a questa seconda anima di Giancarlo, visto che alcune cellule rimandano alla medesima propensione india. Qui la tensione  resta legata più al percorso iniziatico/musicale che a un "in sé" dedito alla ricerca di suoni e formulazioni inedite. L'anima elettronica di Sica non si esime dall'uso di seduttive voci femminili, le quali muovono melodie atonali e voluttuose, al di sopra di un sostrato elettronico denso e inaccaduto, per indisponibilità delle sue particelle ad un riconoscimento strutturale. Ad esempio, la Cantata utilizza un testo liberamente estrapolato dalla lirica Laughing Gas di Allen Ginsberg ("un'occhiata/dalla quale l'intero/processo svolge questo/universo.../lo disfà nel suo esatto/contrario finché si ritorna da/fino al Nulla/nel quale a caso/una nota venne in origine/sfiorata (...) e l'intera/struttura si svolge/inevitabilmente e/torna a riavvolgersi/nel Nulla..."), gestisce la voce umana come nona super partes (le altre otto sono affidate al computer, che conduce il movimento di un cluster suddiviso in due sezioni in modo da ottenere spettri leggermente disarmonici). Anche Kane no Koe ("Il suono della campana") utilizza la voce femminile che recita un testo giapponese ("Gli orgogliosi sono effimeri, simili solo al sogno di una notte di primavera; e i forti, anch'essi, saranno alla fine travolti, a nient'altro simili che a polvere dinanzi al vento"). Invece, un lavoro decisamente all'avanguardia, e quindi all'estremo 'elettronico' di Giancarlo Sica, mi pare Particles che utilizza il linguaggio per macchine virtuali Csound, del quale Giancarlo ha fornito un'esemplare trattazione nel n. 1/95 di KOnSEQUENZ. L'autore così la definisce: "la composizione è nata dall'idea di 'fasci di particelle' musicali (i grani della sintesi granulare asincrona) propagantisi ovunque, che di volta in volta si aggregano a formare strutture sonore dotate di confini ben definiti o nebulosi, e con distribuzioni spaziali dinamiche nel tempo".
Pur riconoscendo l'elevato specialismo elettronico di Particles , confesso di preferire la produzione intermedia, quella che mescola l'umano e l'elettronico, anche perché lì il linguaggio mi pare più riconoscibile.
A meno che anche quello della riconoscibilità non diventi un luogo comune, e non si verifichi davvero la scomparsa della figura dell' autore. Finora, all'alba del terzo millennio, non è che un'ipotesi giocosa, a metà strada tra fantapolitica ed estetica, ma la diffusione di tecniche sofisticatissime ne sta accelerando la realizzazione.
 
Nasce la Ferenc Liszt
Nel febbraio dell' '85, per iniziativa di Fels e mia, nasce l'"Associazione Musicale Ferenc Liszt": la nostra monade. Il primo atto è esecutivo e strumentale, ci qualifica immediatamente come pianisti-compositori: nelle sale adiacenti al chiostro maiolicato di Santa Chiara, si tengono due long concert  solistici.
Eugenio suona nella prima parte uno dei suoi mitici Bach-Fels (ovvero una trascrizione/reinvenzione da Bach), e tre pezzi forti  di Mozart, Franck e Liszt. Nella seconda parte tre composizioni di Dino Messina: Réverie d'été (1983), Sortilèges d'une courte èvasion (1985) e Improptus (1982), la IV Sonata di Cilio nella prima versione del 1975,  la Sonatina di Pappacena, le mie Variazioni sul Vento (1985) e la sua Vent qui chante, vent qui danse - Sonata, nella versione del 1983. Io dedico la prima parte ad Erik Satie, ma cambio i testi, improvvisando sugli ostinati in Avant-derniéres penseès, modificando con variazioni ritmiche  Je te veux, giocando sulle dinamiche delle sei Gnossiennes e delle tre Gymnopédies. Nella seconda parte presento Les chants de la mi-mort di Alberto Savinio, musiche di Stravinskij, Schoenberg, due brani di Fels, due di Giusto Pappacena, il Preludio per pianoforte di Franco Di Lorenzo[14], i miei Fantasia, Preludi, Basso ostinato. In calce al programma è indicata una "improvvisazione", che fu tenuta e registrata: l' esperimento di un pianista 'colto' al quale stava stretto quel ruolo. L'inaugurazione dell'Associazione smuove un po' le acque, anche per la straordinaria affluenza e il notevolissimo successo di pubblico che accompagnano entrambi i concerti. La Liszt inizia un'attività che la porterà nel giro di dieci anni a diventare Ente di rilievo regionale, e alla pubblicazione di KOnSEQUENZ. Poco dopo la sua fondazione, gemma una filiale calabrese, presieduta da Jonny Polito, e una romana grazie al pianista Claudio Bonechi. Negli anni promuove una serie di rassegne pianistiche in cui si dà spazio soprattutto a interpreti e compositori locali; patrocina lo spettacolo teatrale e musicale "Satie Opera" di Ugo Fanina ed Eugenio Fels che fa il giro d'Europa; produce concerti per coro o vario organico. Dal 1990 al 1994 cura la parte musicale della Mostra meridionale del libro "Galassia Gutenberg", inventandosi ogni anno un tema differente, con iniziative seguitissime dalla stampa locale e nazionale ("...fino alla Nuova Musica", 1991; "Nonsolomozart", 1992; "Gershwin & dintorni", 1993)[15]. E' grazie al lavoro dell'Associazione che sarà possibile, nel maggio del 1993, tenere presso le Edizioni Scientifiche Italiane il "Ricordo di Luciano Cilio", capace di scatenare una nuova ondata di interesse sul  percorso musicale dell'artista scomparso.
 
Scoppia un Virus
Parallelamente all'attività della Liszt si attesta anche quella di un gruppo di pittori in grado di portare aria nuova anche alla musica, con performances e happenings che coinvolgono strumentisti e compositori, cittadini e non. Il progetto di Giancarlo Savino, Carla Viparelli e Dino Izzo è a tutto raggio, e può condensarsi nella frase "l'arte è un modo". La matrice del virus-pensiero può essere studiata leggendo il Progetto per un nuovo almanacco (il riferimento è a Kandiski) rilasciato dai tre artisti il 30 novembre 1987. Sia Adorno che Arnheim col suo l'Entropia e l'arte influenzano l'estetica del gruppo, e tuttavia il Virus si muove e promuove verso/con sviluppi inediti e realizzazioni estetiche originali. "Il superamento che l'artista può esprimere nel suo lavoro è il superamento di se stesso: l'avanguardia è un'officina interiore": il gruppo aprirà il suo atelier ad altri artisti, a visitatori e curiosi. Ampi stanzoni con sorprese sempre nuove: lì qualcuno  dorme e  mangia, eppure produce  (alla faccia di Adorno!). La sensazione del movimento estetico svolto attorno e dentro quella casa/museo colpisce tutti, e sempre più gente affolla le serate programmate dal gruppo. Ad ogni "Evento", una sorta di memorandum: un ciclostilato con frasi, dichiarazioni, disegni. Un genio trasversale, la cui vita è arte, accompagna il lavoro di Virus: si tratta di Isacco, sempre presente nel museo, come un custode d'oggetti svaniti (da un quadernino: "Confusa armonia delle forme, nubi son parole che un sogno scrive"). In uno dei memorandum ci sono scritti di Oreste Bilotti, fantasie vulcaniche  di Carla Viparelli (usa materiali raccolti pazientemente sul vulcano, e sul vicino Monte Somma, poi mescolati, mescolati...), poesie di Marco Manchisi, affabulazioni di Izzo e Savino. Su di loro andrebbe scritto un libro apposito, ma qui si può segnalare almeno la "Esposizione di macchine inutili" di Puccio Savioli e Michèle Kramers, perché lì si raggiunse un grande coinvolgimento tra scultura, musica (improvvisata/segnata) e teatro. L'arte, in queste forme, comincia a risuonare con gli spazi della metropoli, come era accaduto con "Suite per un castello". Ma qui la città è più vicina, perché non vi si sovrappone l'ingombro del monumento. Il corteo di macchine terrestri e volanti si forma in una piazza, quella del Gesù Nuovo, e procede verso lo studio di Via Benedetto Croce, sosta in un cortile, lungo le scale rovinate, e ad ogni pianerottolo di un palazzo, storico quanto malandato. Tra la folla si finisce col toccare mura e gradini, sentire ringhiere arrugginite e osservare intonaci cadenti. Eppure tutto ciò è più vero e più sentitamente artistico dei concerti al San Carlo e alla Rai. La storia di Virus è importante proprio per questo: se un artista non riesce a trovare "canali", allora apra la propria bottega, e si faccia egli stesso vicolo, rione, città[16]. Se i luoghi istituzionali sono vuoti di cultura, perché il circuito soffoca, allora riempiamo le case vive di una metropoli morente, respiriamo con gusto l'atmosfera decaduta, accendiamo candele che rendano visibile un'altra e una vera avanguardia, che è sentire interiore. A Napoli è mancato chi fosse in grado di portare un contrabbasso, un pianoforte, un violoncello, in una piazza. La cosa avrebbe avuto un senso profondo allora. E non ne ha alcuno oggi, quando il mercato si è in qualche modo riconciliato con l'arte, perché l'arte ha trovato una strada, è uscita dall'impasse in cui era precipitata.


[1]Lo spettacolo fu ben recensito da Livio Aragona per Paese Sera, specificando la dedica a Luciano Cilio.
[2]Alcune parti dell'operina sono poi state trasferite nello spettacolo "Rotte di Migrazione", rappresentato al Tetaro Rossini di Pesaro e al festival di teatro contemporaneo di Polverigi. Altre sezioni di Evento sono state eseguite staccate, come ad esempio alla terza edizione della rassegna "Ricerca Musicale e Mezzogiorno", organizzata ad Avellino da Mario Cesa per l'Arci.
[3]Montagano completa così la mia osservazione: "prendersi - sorprendersi in controtempo".
[4]Nella trascrizione del famoso concerto di Koln.
[5]Lavoravo alle Variazioni sul Vento, in cui uso un tema e un controsoggetto della Vent qui Chante, Vent qui Danse  - Sonata di Fels.
[6]L' "Omaggio a Sciarrino" si è tenuto il 12 novembre 1994 nella Chiesa S. Maria delle Grazie di San Leucio. Ho avuto modo, in quella occasione, di intervistare il compositore, che mi è parso ferocemente inchiavardato sulle sue convinzioni, mostrando tuttavia una sorta di superiore disponibilità al colloquio, non esente dal fiero cipiglio degli aristocratici che consentono al villano di recarsi in pellegrinaggio nella torre più alta del loro castello. Naturalmente solo per onorarli e inchinarsi ai meriti acquisiti in battaglia...
[7]Il disco (edizione ABICI srl, Napoli, fuori commercio) contiene un Concertante per cinque fiati e orchestra d'archi (solisti Masi, Sisillo, Martini, Panebianco, Marini; direttore Franco Caracciolo), un Concerto per orchestra (diretto da Luciano Rosada); e Pianefforte 'e notte per voce recitante e orchestra (voce di Stefano Sattaflores, direttore Ugo Rapalo). Indovinate quale orchestra suona?
[8]Gorli è uno dei pochi allievi di Donatoni ad interessarmi, soprattutto per un breve e rarefatto Requiem; nel 1991, dopo averlo contattato, consigliai l'inserimento della sua terza Novelletta, suonata da Alexander Lonquich in un compact collettaneo pubblicato da Pagano.  Gorli, purtroppo, mandò come registrazione definitiva tutte e tre le Novellette nell'esecuzione di Maria Grazia Bellocchio.
[9]Si tratta della generazione precedente: De Bellis, da noi già citato, nacque nel 1907 e morì nell' '82; fu allievo di Daniele Napolitano a Napoli, e scrisse soprattutto opere teatrali.
[10]Mario Pilati (1903-1938) pur essendo nato a Napoli orbitò nell'area di Pizzetti per aver insegnato a lungo a Milano, dove quest'ultimo era direttore. Cominciò a scrivere intorno al 1921; la Suite eseguita a Napoli è del 1923, anno in cui compose anche un Notturno per orchestra. E' invece del 1926 la  Sonata per flauto e piano (recentemente incisa per Nuova Era da Mario Carbotta e Roberto Cognazzo), che vinse il concorso Coolidge bandito dall'Associazione Scarlatti. Fu eseguita anche al Conservatorio nel 1931, da Marcel Moyse e Alfredo Casella. La scrittura di Pilati resta un po' di maniera, ridondante nelle invenzioni melodiche e simmetrica in eccesso.
[11]Nella stagione 1986-'87, per l'Accademia Musicale Napoletana, si era già eseguito il Pròteo di Lombardi per quattro pianoforti, voce di Joice, altra voce recitante e video-tape. Oltre a Daniele Lombardi ci sono al pianoforte Stefano Fiuzzi, Riccardo Risaliti e Giancarlo Simonacci. Dalle note del programma: "Ho realizzato quest'opera senza incatenare Proteo, nella speranza di rivelazioni, ho tentato invece di introdurmi nell'attimo della metamorfosi, metafora dell'impercettibile trapasso tra coscienza del presente e ricordo, realtà e immaginazione, così compenetrati nel proprio mondo interno".
[12]Ad esempio nel '90, in collaborazione con l'Associazione Chopin, il Movimento Artistico Napoletano proporrà nella sala Martucci del Conservatorio tre serate dedicate ai compositori napoletani, dove appaiono un po' mescolati per età e tendenze. Questi i nomi: Di Martino, Castaldo, Pagliuca, Napoli, Sandelli, Mormile, Evangelista, Schiavo, A.Vitale, Calbi, Anastasi, Panariello, Baccile, G. Vitale, Cece.
Devo segnalare anche la Missa 'Deus Meus'  di Franco Nocerino, dell' '89, eseguita nel giugno del 1990 alla Sala Martucci del Conservatorio, in uno dei saggi di composizione, ma soprattutto accettata alla Grawemeyer Music Award Comitee di Louisville.
Altre prime esecuzioni di quegli anni (tra il 1985 e il 1987), sporadiche rispetto a quelle di Torino, Roma, Milano...,  non tutte cittadine, e per varie associazioni minori, sono quelle che riporto di seguito: Miniature di Elisabetta Brusa; Aria e Berceuse di Otello Calbi; Entrebois e Solo di Gabriella Cecchi; Liebeslied di Raffaele Cecconi; Tre pagine da Amor Vacui di Ettore Contini; Concerto per pianoforte solo di Aurelio Giordano; 3X2+2 di Vincenzo Liguori; Sonata di Giuseppe Manzino; Dream I di Carlo Alberto Neri; Divertimento di Eraclio Sallustio; Le ragioni delle Conchiglie di Sciarrino; Kleine Musik di Gerardo Tristano; Poemetto Lirico di Raffaele Sergio Venticinque. Altre esecuzioni, naturalmente, potrebbero sfuggirmi.
E' invece del 1988 il "I Festival Italiano di Ragtime", svoltosi all'Auditorium del castel Sant' Elmo. Lo cito perché in programma figurano tre concerti, di Marco Fumo (presenta anche una composizione di Mario Cesa, Moduli Rag), Cesare Poggi e Antonio Ballista. Il 16 novembre del '90, allo Studio Morra, Daniele Lombardi presenterà Palindromi, Tredici Preludi, Quattro studi alla memoria di Chopin, Metamorfosi.
[13]Chi ha dimestichezza con i libri di Carlos Castaneda, metà antropologo, metà narratore, riconoscerà nei titoli de Il cerchio del Tonal,  le suggestioni mescaliniche di quell'autore.
[14]E' un brano scritto nel 1964 che gioca molto con le dinamiche, con valori e tempi irregolari. Gli stratagemmi tecnici e strumentali richiamano molto l'Hindemith del Ludus Tonalis (Interludio IV), con qualche allusione schoenberghiana. Il Preludio resta tuttavia confinato in ambito 'sperimentale'.
[15]Non posso fare a meno di menzionare, almeno, una serata dedicata a Bastianelli e Savinio, con l'intervento artistico di Davide Carnevale (Davic).
[16]Questa intuizione culminerà nella manifestazione epocale "Napoli - Studi aperti", con la partecipazione di quasi cinquanta artisti che apriranno i loro atelier di pittura (è il 30 novembre 1987).



Continua in Napoli IV
Napoli V



Girolamo De simone, L'altra avanguardia, in "Konsequenz", anno III, giugno 1996.



http://www.kultunderground.org/art/1563, intervista ad Antonietta Webb-James

http://www.youtube.com/watch?v=k8saWn-2tzE, quartetto di Giusto Pappacena
 






Renzo Cresti - sito ufficiale