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Il vitalismo del rock, fra energia e libertà
Il vitalismo del rock, fra energia e libertà
Due concerti



Rolling Stones


Ero a Salisburgo, dove il direttore del celebre Festival, Gérard Mortier, dichiarava che l'opera tradizionale è morta e sopravvive a se stessa solo grazie all'industria discografica e alla pigrizia del pubblico, perlopiù anziano. Diceva di preferire Tina Turner a Pavarotti e io sono talmente d'accordo con Mortier che scappo a sentire gli Stones.

Venendo da Salisburgo si percorre la stupenda regione dei laghi, prima di arrivare a Zelweg, piccola cittadina all'imboccatura di un immenso slargo dov'è situato l'autodromo di formula 1. La radura è circondata da basse colline sulle quali, il 1 di agosto, centomila persone prendono posto per assistere al concerto degli Stones, mai vista tanta gente su colline e pianure. A parte qualche scoppiato, bella gente dagli sguardi brillanti e dal fisico scattante, gente disciplinata (la maggioranza è austriaca, qualche tedesco con birra, qualche italiano ben vestito e qualche slavo, i più casinisti). Come al solito da queste parti il cielo minaccia pioggia, però poi non piove, meno male perché l'attesa è di 5 ore. Ci si consola con la musica che esce da un impianto di diffusione multiplo, semplicemente perfetto. Il gruppo d'appoggio fa un rock classico, compatto ma poco incisivo.

Mentre aspetto mi torna in mente come il rock sia visto dalle cosiddette persone colte come un fenomeno di costume; a differenza della cultura anglo-sassone (e di quella americana) da noi del rock se n'è occupata la sociologia, le comunicazioni di massa, la pedagogia anche ma non la musicologia, eppure già da tempo un filosofo come Jankélévitch ha chiarito, anche alla cultura elitaria, l'importanza della musica rock, pop e della canzone non solo dal punto di vista emotivo ma anche da quello strettamente filosofico. Mi ricordo che, fra i nostri filosofi, Franco Rella ha parlato proprio degli Stones, a proposito del loro tour del 1990 Urban jungle, collegandolo alle problematiche dei labirinti metropolitani. Fra questi pensieri e un po' di noia, la ragazza che mi sta accoccolata accanto si avvicina, è sui trent'anni, l'età media dei presenti, e i pensieri passano dall'importanza del rock ad altro.

Il palco è molto bello, me ne accorgo durante il concerto quando si illuminerà di effetti di luce giocati fra giganteschi video fedelissimi all'immagine che viene immeditamente ripresa e immediatamente ritrasmessa. Il palco rappresenta un serpente che all'inizio del concerto sputa fuoco vero. Sulle note di Not fade away finalmente si vedono gli Stones.

La scaletta mischia i grandi successi degli anni Sessanta con quelli recenti e con i brani tratti dall'ultimo cd, Voodoo lounge, da cui prende il nome il tour. Mancano alcuni pezzi storici come Let it bleed e sono assenti tutti quelli non firmati da Jagger-Richard, come Just my immagination o Harlem Shuffle.

Una volta scrissi su un'importante rivista musicologica, "La musica 1985", che mi sarebbe piaciuto fare il calciatore o il chitarrista rock! Per i soldi ovviamente, per le donne ma soprattutto per la libertà e l'energia (e mi rattristo al pensiero che al ritorno dall'Austria dovrò sorbirmi il Racliff mascagnano, accanto non più alla ragazza accoccolata ma a 300 borghesi ultrasettantenni, di seta vestiti. /.../ Da parte mia continuo a suonare rock, con il mio vecchio gruppo de I sogni, nessun denaro, poche ragazze ma tanta vitalità. Qualche volta, sogno che Richards mi chieda di suonare con lui, non si sa mai. Quello che invece si sa è che gli anni Ottanta sono stati i più critici per gli Stones, perché è stato il decennio delle esperienze personali, risultate poi essenziali per immagazzinare nuove energie.

Sentii Charlie Watts con una big band inglese impeccabile al Palasport di Jesi. Al Pistoia Blues ascoltai Ron Wood che girava il mondo suonando con i vecchi bluesmen, in quel concerto era con Bo Diddley (secono me il vero ispiratore degli Stones dell'inizio, insieme a Chuck Berry. Intanto Mick Jagger incideva due cd e altrettanto faceva Richards. /.../

La gente mi trascina, canta e balla, incolla lo sguardo al palco. Watts tiene un ritmo incisivo e regolare, inquadrando e sottolinenado il fraseggio, se Charlie fa uno scambio vuol dire che succede qualcosa a livello formale, la sua regolarità è fondamentale per le chitarre che suonano sempre in controtempo. Richards e Wood s'intendono a meraviglia e insieme fanno una coppia insuperabile, hanno la stessa forza e lo stesso carattere, le continue antifone fra le due chitarre costituiscono l'ossatura ritmico-armonica dei pezzi. Il basso di Daryll Jones è molto potente, ma poco inventivo (strano per uno che proviene dal jazz); anche il tastierista è relativamente nuovo, rispetto da Ian Stewart che suonava con uno stile che mi ricordava Fats Domino è più colto e rispetto a Nicky Hopkins meno nervoso. Vecchio invece il buon Bobby Keys, oramai inseparabile da Richards. Pulitissimo il concerto, con un Mick Jagger rilassato e affabile, corre meno rispetto a qualche anno fa ma la sua voce slabbrata rimane ammaliante. /.../ Il biss è Jumpin' Jack Flash, ma io, proprio come un jumpin' Jack flash me ne scappo per non rimanere imbottigliato fra i centomila e mi godo il gran finale con i fuochi d'artificio da lontano.

Da Renzo Cresti, Rolling Stones for ever, "Il Grandevetro" n 129, Santa Croce sull'Arno ottobre 1995.

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AC/DC

Arrivo a Casalecchio sul Reno dopo una coda pazzesca in autostrada e mi dico, "ma chi me lo ha fatto fare?" Al ritorno sarò così contento di aver sentitio il concerto degli AC/DC che avrei fatto anche una coda doppia! Credo di trovare motociclette e puzzo di spinelli, vedo invece Mercedes e BMW, tutto intorno lindo ed educato, "porca miseria, ho sbagliato posto", solo il volume della musica che esce dal Palasport mi dice ch'è proprio qui che si esibisce il più importante gruppo heavy metal del mondo. Entro e mi aspetto un Palasport di metallari di borchie vestiti, invece, a parte qualche viso sfatto, è gente in jeans e maglietta che fuma nazionali! Ascoltano fermi e concentrati, solo quelli davanti al palco saltano come fosennati. Accanto a me c'è un tipo a dorso nudo, sulla trentina, tatuato fin ai capelli, mentre sulla destra, una ragazza in maglietta bianca fa sballottare i suoi seni prosperosi al ritmo violento della batteria.

La sezione ritmica del complesso è monolitica, Phil Rudd picchia duro e in maniera ossessiva, il basso di Cliff Williams fa tutt'uno con la batteria, anche timbricamente; la chitarra di Malcom Young è una vera chitarra ritmica, precisa e tagliente. Questi tre musicisti creano un rude tappeto ritmico-armonico sul quale urla la voce di Brian Johnson. Angus suona in trance e quando suona davvero ossia quando non fa il gigione suona bene. Anche la voce di Brian mi pice, più dal vivo che nelle incisioni.

Nessuno si bacia, nessuno beve, pochi ballano, i concerti della mia gioventù erano altra cosa, basati sul motto "sesso, droga e rock'roll", io della droga ne ho sempre fatto a meno volentieri (in maniera molto casalinga sostituita con qualche bottighlia di vino) ma degli altri due elementi come farne a meno? Che sia la leggerezza dell'essere del Postmoderno? Dove i contatti divengono sempre più virtuali.

La scaletta del concerto tocca pezzi vecchi e nuovi, come di solito si fa. Non nascondo che quando intonano le note iniziali di Hard as a rock, un pezzo che negli mesi ho ascolto decine di volte, mi scateno, la flemma da serio studioso mi abbandona, finalmente, smetto di pensare e mi lascio trascinare dell'energia di questo vitalissimo hrad/rock/blues.

Da Renzo Cresti, I canguri del rock, "Il Grandevetro" n. 133, Santa Croce sull'Arno luglio 1996.
Questo mio articolo suscitò molti apprezzamenti tanto da essere parodiato in alcuni dei numeri successivi della Rivista.





Renzo Cresti - sito ufficiale