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Le ultime generazioni di compositori
Fase terza e quarta (e ultima del Novecento) dei compositori

Chi abita oggi la creatività?

Estetica e bellezza

La musica non è una vera forma di linguaggio




Riprendendo il titolo del libro di Bortolotto, che fa riferimento alla seconda generazione dei compositori del Novecento, quella dei Nono, Berio, Donatoni, Clementi…fino a Castiglioni (la prima era stata quella dei Petrassi e dei Dallapiccola)[1], dobbiamo dire che i vecchi maestri sono tutti morti e anche se ce n’è qualcuno in vita non costituisce più un termine di riferimento per i giovani, troppo velocemente sono passati questi ultimi decenni e troppe cose sono accadute perché la generazione dei maestri degli anni venti-trenta del secolo scorso sia ancora viva. Ascoltare oggi le musiche di questi compositori sembra davvero passato un secolo, le musiche migliori del loro percorso artistico sono del tutto storicizzate.
Analizzando brevemente la generazione che nasce fra la fine degli anni trenta e l’inizio dei cinquanta, ci si accorge di una circolazione di idee e fatti talmente forte da scardinare il concetto classico di unitarietà dell’opera. La musicologia accademica continua a vedere l’operare artistico come qualcosa di personale e l’opera come il prodotto personalizzato di quell’agire individuale, ma questa visuale romantik non solo disconosce l’intreccio che si produce nella mente del compositore e le trame implicite espresse nella sua produzione, ma è del tutto fuori dalle coordinate culturali di questi anni che privilegiano la circolazione come soggetto del fare e la velocità con cui riesce a posizionarsi negli incroci principali del pensiero e del fare odierno.[2]

Nella terza generazione si riscontano accavallamenti di percorsi e di orizzonti e, al di là dei personaggi, è proprio su questa tela che si deve concentrare l’interesse, nell’insieme dei fatti socio-culturali che poi, ovviamente, vengono declinati in musica in mille modi dai tanti compositori, ognuno dei quali si fa portatore di una micro visuale del mondo, tanti piccoli tasselli che messi insieme ci forniscono – finalmente – la cartografia della contemporaneità.

La terza generazione trova i suoi personaggi impegnati in tendenze stilistiche differenziate, fra utopia e tradizione (Gaetano Giani Luporini[3]) e gesti corali non esenti da tratti popolareggianti (Azio Corghi), fra energico costruttivismo pregno di tensioni psichiche (come quello di Giampaolo Coral[4]) e attenzioni al mito e al rito realizzato in pagine grafico-gestuali (come quelle di Mario Cesa), fra gestualità bruciante nel regno della complessità (Fernando Mencherini) e golosità timbriche (Ada Gentile), fra costruttivismo piegato sempre più a brucianti esigenze espressive (Dario Maggi, Hubert Stuppner) e attenzioni al sociale (Armando Gentilucci, Luca Lombardi), fra ricerca strumentale collegata al disegno sonoro (Claudio Ambrosini, Alessandro Sbordoni) e sottili procedimenti di scomposizione e ricomposizione dell’oggetto sonoro (Rocco Abate[5], Aurelio Samorì), fra vitalismo sonoro (Mario Garuti) e abilità fraseologica nel disporre i giochi contrappuntistici (Alessandro Solbiati), fra un senso ecologico del suono elettronico (Michele Biasutti) e indagini di movenze timbrico-figurali (Matteo Segafreddo), fra umori poetici (Gianfranco Pernaiachi) e capacità analitiche (Fabio Cifariello Ciardi), fra pannelli sonori immaginifici (Matteo D’Amico) e frammenti che si sviluppano (Flavio Emilio Scogna), fra felicità e naturalezza di scrittura (Carlo Pedini) e ricerche elettroniche (Alvise Vidolin), fra dialettica vincolo-libertà alla ricerca di una cantabilità scoperta (Pippo Molino[6], Carlo Alessando Landini) e sollecitazioni infinite offerte da un testo verbale (Andrea Talmelli), fra preghiere laiche e graffiti sonori (Nicola Cisternino) e sondaggi nei meandri della complessità con pathos carnale (Corrado Pasquotti[7]), fra world music (Aldo Brizzi) e new age (Ludovico Einaudi), fra ricerca di sound particolare (Gilberto Bosco) e fusion (Claudio Scannavini), fra sollecitazioni sonore dedotte dal computer (Luigi Ceccarelli) e vena ironica (Tonino Tesei), fra vocazioni spirituali (Roberto Beccaceci) e teatro da camera (Enrico Cocco), fra semantica teatrale (Lorenzo Ferrero) ed esigenze comunicative (Marco Betta), fra ricerche sul tempo/spazio musicale (Biagio Putignano) e strutture che cantano (Gianvincenzo Cresta) e molto altro ancora[8] che va a costituire un gigantesco intreccio che generalmente si definisce come “musica contemporanea”[9].

Più che i tanti nomi sono da tener presente le tante strade che creano una fitta rete di tendenze formali, stilistiche, poetiche, e(ste)tiche, a volte parallele altre divergenti, spesso interdipendenti raramente scollegate fra loro (anche se i compositori non sempre ne sono consapevoli perché poco informati su quello che fanno i colleghi). L’immagine che dobbiamo avere di questa situazione è quella di una cartina stradale attorno a una metropoli, moltissime strade (stilistiche) e in tutte le direzioni (culturali). La quantità dei percorsi rende assai laborioso l’orientamento e il navigatore spesso non aiuta perché è pieno di tante informazioni che difficilmente si riesce a discernere (solo chi vive in questa grande rete può orientarsi con una relativa facilità).

Come dice Alex Ross «non si può sperare di fornire un resoconto ordinato degli sviluppi della composizione nella seconda fin de siècle. Stili di ogni genere – minimalismo, postminimalismo, musica elettronica, laptop, internet music, nuova complessità, spettralismo, apocalittici collage e meditazioni mistiche dell’Europa orientale e della Russia, appropriazioni del rock, del pop, dell’hip-hop, nuovi esperimenti di musica folkloristica in America latina, Estremo oriente, Africa e Medio oriente – lottano senza che nessuno di essi riesca a conquistare la supremazia.»[10] Questi molteplici percorsi tendono a sfuggire alla nostra comprensione, come la materia oscura, non conosciamo bene come sono fatti perché non li abbiamo vissuti, solo la strada che stiamo percorrendo ci è nota, le altre le vediamo da lontano e alcune ci rimangono del tutte oscure. Ross è tentano da una conclusione pessimistica ossia di vedere la traiettoria complessiva della musica del novecento come un «netto declino» poiché «i compositori classici contemporanei sono sostanzialmente spariti dallo schermo radar della cultura mainstream».

La legittimazione sociale[11] di questa nutrita schiera di compositori è assai difficile, poiché essa appartiene al lato in ombra della musica che viene generalmente diffusa e ascoltata, quella del repertorio classico, certamente la figura di Azio Corghi ha assunto un rilevo assai importante, quella di Salvatore Sciarrino è stata ed è una delle personalità che più ha influito sui giovani compositori, oltre che ad aver ottenuto una avvallo critico internazionale. Anche Fabio Vacchi, soprattutto con la sua produzione teatrale, ha giustamente ottenuto un successo che, nella nicchia della musica contemporanea, è davvero raro. Riconoscimenti prestigiosi hanno ottenuto pure Giorgio Battistelli, Luca Francesconi, Ivan Fedele.

La composizione è stata fino agli anni del secondo dopoguerra un’attività sostanzialmente maschile, assestata secondo i canoni della ratio speculativa, per questo e per le ovvie ragioni sociali la composizione al femminile ha tardato a manifestarsi, il comporre, come per tante altre cose, è stata una conquista; è solo dagli anni settanta in avanti che si riscontra una notevole presenza sia per quantità sia per qualità delle donne compositrice. Fra le tante occorre almeno citare, oltre a quelle già menzionate, Elisabetta Brusa, Chiara Benati, Paola Ciarlantini, Cristina Landuzzi, Roberta Silvestrini, Carla Magnan, Barbara Rettagliati, Simona Simonini, Gabriella Zen, Francesca Terreni…[12] La presenza delle donne in musica è confermata anche da compositrici che provengono da paesi di tutto il mondo, come l’americana Pauline Oliveros, la russa Sofija Gubajdulina, la finlandese Kauja Saariaho, la cinese Chen Yi, la sudcoreana Unsuk Chin, l’azerbaijana Franghiz Ali-Zadeh e molte altre, dalla scrittura interessante in quanto, in maniera meno ideologica dei loro colleghi maschi e con un atteggiamento più naturale, le compositrici riescono a proporre brani in sintonia con le dinamiche del nostro tempo, posizionandosi in spazi liberi[13].

Questa incredibilmente ricca tribù di compositori e compositrici, costituisce la fase terza, dopo di essa si ha l’ultima del secolo scorso, relativa ai compositori nati fra gli anni sessanta e settanta, coloro che quindi hanno studiato con i compositori appena citati durante gli anni ottanta-novanta e hanno iniziato a presentare le loro proposte compositive in questo frangente di secondo millennio. Sono i compositori su cui si addensano le più forti perplessità, in quanto non si sono potuti giovare dell’insegnamento diretto dei grandi maestri ma dei loro allievi, hanno studiato nel periodo dell’ideologica contrapposizione fra moderno e postmoderno (con tutto quello che di ostinato e di poco flessibile il conflitto portava con sé), sono stati inconsapevolmente schiacciati fra un’educazione formalistica e nuove esigenze espressive, si sono spesso mossi in una sorta di via di mezzo che in arte non paga mai e non sono riusciti a produrre opere degne di rilievo, non è un caso che fra i compositori quarantenni nessuno abbia acquisito quell’autorevolezza che invece possedevano i giovani musicisti delle generazioni precedenti (pensiamo a Sciarrino e prima a Berio, Nono e a molti altri che poco più che ventenni già iniziavano un percorso artistico eccezionale).

Se fino agli anni ottanta la grande generazione dei maestri ha fatto grande la composizione italiana, dagli anni novanta, con la progressiva scomparsa fisica dei protagonisti, la situazione è peggiorata, la generazione nata fra la fine degli anni quaranta e l’inizio degli anni cinquanta è stata l’ultima che, nel suo complesso, ha prodotto compositori importanti[14], secondo l’ottica della musica contemporanea colta. I maestri italiani avevano una grande preparazione tecnico-formale che non si riscontra più fra i giovani e contemporaneamente avevano intuito (qualcuno anche capito) che la tecnica, le regole, il sistema, erano sì indispensabili ma non bastevoli alla completezza dell’opera che doveva esprimere un’aura che non deriva solo o non tanto dalla maestria e dalla metodologia ma soprattutto dal talento, dalla capacità di rendere eccezionale il regolare, di motivare direzioni strane, di praticare il disordine all’interno della struttura, consapevoli che la complessità porta sempre con sé elementi inconoscibili (il linguisticamente impraticabile). Soprattutto il pensiero doveva essere corroborato dall'esperienza, la vita stessa era l’inizio e la fine del pensare e del fare musica. L'energia vitale, con i suoi collegamenti al vivere sociale, era l'irrinunciabile principio di ogni creatività.

Chi oggi abita la creatività?

Non certo il sapere formale, para-scientifico, che esige l'isolamento dei giochi linguistici, è denotativo quindi è fuori luogo nella cultura ipermoderna che esige investigazioni in movimento e “impure”: autoreferenzialità contro eclettismo, ma attenzione, l’apertura multidisciplinare non è un lasciarsi andare all’empirismo dei dati di fatto ma è una conquista fatta con capacità di scelta critica. Allevi, definito “il nuovo Mozart” (sic!), ha dichiarato la morte del sapere scientifico in musica, sembra una vecchia affermazione del postmoderno ideologico degli anni ottanta, ma il postmoderno non teorizzava la bassa qualità del pensiero e del fare artistico! Una musica popular e di atmosfera non significa affatto una musica banale, tanto più che oggi è scomparsa la distinzione fra arte alta e bassa, però le idee e l'abilità non appartengono né al moderno né al postmoderno né all’oggi sono semplicemente necessarie a ogni operatività artistica.

La cultura mainstream non va comunque disprezzata, non bisogna cadere nell’errore già fatto dagli avanguardisti; al contrario di quello che dice Adorno l’isolamento non è un fatto che salva dalla massificazione, ma è esclusione dai meccanismi della contemporaneità, un rifiuto che taglia fuori; la cultura pop va avvicinata con molta attenzione, in fondo è alla gente che l’arte si deve rivolgere, lo deve ‘semplicemente’ fare con alta qualità. Del resto l’ascolto è sempre impuro ovvero si contamina con il vissuto di chi ascolta, con la sua educazione musicale, con le sue pulsioni, con i rumori dell’ambiente e questa ‘impurità’ la musica deve agganciare.

Sta acquistando sempre più importanza la naturalezza della scrittura, il saper scrivere in modo fluido, l’esprimersi in maniera diretta senza tanti artifici tecnici, il problema è saperlo fare perché, a differenza di quello che possono pensare alcuni musicisti, la naturalezza della scrittura richiede una grande sapienza tecnica, talmente alta da non costituire alcun ostacolo e quindi di permettere alla mano di comporre in modo spontaneo; anche la comunicazione non è un fatto meccanico ossia non basta desiderare di essere comunicativi per esserlo, poiché occorre musicalità, argomenti da dire, novità e ammiccamenti che creano una complicità con l’ascoltatore, cose più facili a dirle che a metterle in pratica senza abbassare la qualità dell’opera, senza banalizzare il prodotto per farlo giungere nel mercato della musica di consumo.
Ogni scrittura ha sempre le sue ragioni, a queste bisogna essere molto sensibili e lasciarsi prendere, cercando di ritrarre il proprio ego per far parlare l’opera. La volontà di scrivere, il piano di studio e di lavoro inciampa nelle ragioni dell’opera, questo avviene a ogni artista: il compositore urta in un suono sconosciuto, il pittore s’imbatte in un colore inaspettato, l’architetto incespica in una prospettiva che non aveva pensato e che apre nuove scenari, a sua insaputa. Si scrive, si compone, si dipinge, si costruiscono palazzi e chiese sempre incontrando un quid che non era programmato ed è questo “qualcosa” che sostanzia il quanto dell'opera.

Nello svolgersi delle ore e dei giorni, mentre lavora l’artista s’imbatte nel viso altrui, volti e sguardi che diventano gli insostituibili compagni di viaggio che a volte stanno annidati nel cuore e altre volte esplodono nella mente. Nello scrivere ciò che scrivendo si profila a volte si inciampa in qualche residuo della memoria inconsapevole, recuperando una parte del proprio passato, solo così le possibili citazioni sono profondamente interiorizzate, non sono dunque un modo per svolgere una scrittura al quadrato, ma sono finestre che collegano il dentro con il fuori, la volontà del compositore con quella della (sua) opera.
Qual’è il ruolo della musica nell'epoca della globalizzazione?

Quello di far cooperare i vari linguaggi, in modo che ognuno si apra all’accoglienza dell’altro, divenendo il viatico al dialogo fra uomini di culture differenti. Il pensiero occidentale è l’unico ad aver elaborato un sistema di analisi all’infinito (il concetto di complessità, imperante nel secondo dopoguerra), ma a questo pensiero mancano nuove energie, quelle che sono portate dalle differenze culturali, poiché ogni diversità è un nuovo valore, un elemento propulsivo che deve creare davvero l’arte dei popoli. Il jazz, e soltanto il jazz ch’è nato bastardo, è la sola musica che ha fatto proprie queste tematiche e che ha capito che per tradurre la materia sonora in senso occorre aprire i linguaggi alla trasversalità: è l’ethos del pellegrinaggio, in fondo un ethos ch’è l'essenza stessa della vita del jazz e che oggi più di ieri diviene imprescindibile.
Le culture musicali diverse si connettono fra loro perché all’una manca la verità dell’altra, ma proprio in questa mancanza occorre riconoscere ciò che le accomuna. Le differenze sono un nuovo valore, un elemento propulsivo che deve creare l’arte dei popoli. L’indispensabile capacità di compromesso con la banalità della vita quotidiana è, nella società di massa, un pregio non un difetto, fatta salva, sempre e comunque, la qualità dell’opera. Ma la partecipazione sociale della musica non può configurarsi con quello ch’è stata l’art engagé degli anni sessanta e settanta, perché non può essere inchiodata all’attualità, la musica trasfigura la realtà che si rispecchia nell’immediatezza delle cose, è un qualcosa di particolare che sposa senso comune e utopia[15].

Assumere l’utopia significa avere lo sguardo lungo, uno sguardo che permette di andare al di là del proprio orticello, per poter abbracciare il senso generale, per comprendere la molteplicità, per approdare a una sorta di pensiero ecologico, che depura gli interessi personali per andare incontro a quelli collettivi, e per approdare anche a una sorta di geo-arte, di un’arte che più che storia è geografia, solidale alle culture del mondo e relazionata alle tematiche contemporanee.

Occorre avere l’elasticità e la vivacità di mente e cuore aperto per intraprendere il viaggio eccentrico, umano, culturale e artistico, al di là di ogni omologazione, pensando il “linguaggio” come procedimento plurale, fluttuante e instabile, e pensando a un’anti-metodologia che intende il lavoro come un polo di connessione fra la chiusura formalistica dell’opera e l’aperto variegato del mondo. L’io plurale approda a un’e(ste)tica del dialogo, a un’estetica che si contrae in un’etica della cooperazione, dove il musicista vive davvero il mondo dei suoni, partecipando alle gioie di un’umanità rappacificata nel segno di una musica ch’è testimonianza dell’abitare i suoni.

È possibile oggi articolare un’estetica? O l’estetica non può che riferirsi all’etica?

Il termine etica rimanda al concetto di soggiorno, è un concetto di luogo, di radicamento e di valori. Nel nostro luogo bisogna far posto agli altri, la nostra dimora deve essere aperta al viso altrui. Essere dis-posti ad ascoltare gli altrui valori e a dialogare con le altrui provenienze: domandare per imparare. Si tratta di mettere in pratica un’etica del cor-rispondere[16].

L’estetica non può che tramutarsi in etica, non solo per ragioni di partecipazione e di solidarietà, ma perché l’estetica ha perduto ogni sua alta configurazione. Da quando le grandi narrazioni del mondo sono state sbriciolate dalla molteplicità e dalla velocità dei fatti l’estetica s’è ridotta a una semplice riflessione sui (f)atti dell’arte, a considerazioni a posteriori, a classificazioni e descrizioni, ha perso del tutto il suo ruolo guida, non può più indirizzare, in quanto ogni direzione può essere valida, ogni impostazione può essere quella giusta, perché ogni operare può riferirsi, con coerenza e precisione, a principi e a finalità estetiche le più svariate, divergenti e perfino opposte; quindi l’estetica assume i connotati del nihilismo. Non è l’epoca della morte dell’arte, come si potrebbe dire riprendendo suggestioni hegeliane, ma sono gli anni del tramonto dell’estetica, la quale si salva solo se si avvicina all’eticità. Il tradizionale studio del bello sembra disperso nell’infinità delle prospettive e delle proposte, prima irriso dagli austeri guardiani delle ideologie degli anni delle avanguardie e poi forzato ad essere accoppiato alla fuggevole piacevolezza della moda.

La bellezza, che rimane l’essenza dell’estetica, può salvarsi se assume lo spessore della vita, il suo sublime fantastico e drammatico, se quindi diventa un bello che dona senso, come il saio del frate, il fiore del deserto, il gesto pietoso verso l’ammalato, il vento che porta via le polveri, la carità verso il povero, l’acqua del ruscello, come l’arcobaleno della pace che si alza sulla terra che canta un musica di speranza, come la rugiada del mattino che intona una melodia sospesa in gocce.

Odo Marquard sostiene che l’estetica nasce quale compensazione per la perdita del trascendente in età moderna, trasformando il “giorno feriale” (Weber) in un rinnovato incanto, rimettendo in gioco quelle facoltà sensibili che l’età della tecnica e della scienza ha umiliato. Un’estetica funzionale è sempre esistita, dalle antiche civiltà a oggi (musica funzionale al rito religioso, alla rappresentanza del palazzo, alle marce militari, alle ideologie politiche o alla didattica pedagogica, alla danza…), è che – oggi come nel passato – i vari poteri e discipline forti hanno spesso sottomesso il (f)atto artistico alle loro convenienze e finalità, giocando su una sorta di connaturata mitezza, delicatezza, affabilità, affettuosità, amorevolezza, disponibilità, generosità e bontà, doti che la vera arte possiede intrinsecamente, qualità che spesso vengono travolte e messe al servizio di un pensiero/fare forte e perfin violento. L’arte viene spesso usata anche per il suo status non definito (Petrarca diceva nescio quid) che, di volta in volta, si lascia trascinare in teorie, filosofie, ideologie ecc. che, senza rispetto, si pongono come un militare di fronte a un monaco. Infine la semplicità/complessità dell’arte crea non pochi problemi all’estetica la quale, sbrigativamente, aggira le tematiche a raggiera per ridurle in ambiti culturali normalizzati, in campi sociali dove ogni istituzione agisce pro domo sua. Un’estetica che si avvicina all’etica ci salva da tutto ciò.

L’Arte (quella con la maiuscola) sostituisce la storia come magistra vitae?
In parte sì e in parte no: la storia è troppo compromessa con gli istinti bassi dell’uomo, il quale, ogni volta, ripete guerre e orrori, provoca fame e dolori, perché non si purifica mai. Inoltre ha lasciato il passo alla geografia nella preminenza della scala di valori. L’arte dovrebbe essere meno legata ai grandi interessi politici-economici e, anzi, per sua natura, vive in un suo specifico spazio/tempo sui generis, ai confini con quello pragmatico delle attività produttive, più impegnato ad andare in profondità e a sondare l'intimità dell'uomo. Tuttavia neanche l’arte può assumere il compito di essere maestra di vita, in quanto riproduce in piccolo gli stessi meccanismi affaristici del mondo politico. Non possiamo quindi affidarle, in generale, un gesto salvitico, possiamo però individuare al suo interno i movimenti buoni e belli, a questi sì possiamo concedere lo status di alto esempio di corrette impostazioni di vita, in tal senso il recupero, scevro da ogni ideologia e inteso in senso ecologico, del concetto di bellezza è fondamentale (fondamento di nuovi modelli comportamentali, essenziali, sostanziali, primari).

Oggi siamo pieni di opere ben fatte, che danno un senso di falso, di ricercato: la storia (della musica) è piena di opere siffatte, che non provocano alcuna emozione, che deludano o lasciano indifferenti, perché manca loro il viaggio, quello geografico-culturale e quello interiore. Non è vero che il pubblico non sia ricettivo, il fatto è che gli sono state propinate per troppo tempo cose astruse, mentre l’ascoltatore, quando è in presenza di una testimonianza vera, di una musica vissuta, sa apprezzarla e sa collegarsi emotivamente a quell’opera, avviene infatti il miracolo dello scambio del flusso di energie.
Molti compositori operano senza la fatica di un continuo mettersi alla prova su terreni differenti, senza lo sforzo di ricercare un pensiero poetico ed e(ste)tico originale, senza l’ossessione del puro umano, affidandosi invece alla leggerezza dell’esposizione scontata della propria maniera. L’apologia del pragmatismo costituzionalmente non ha futuro, vive nell’immediato e tenta di ottenere risultati sfruttando tutto ciò che può sfruttare, cercando di parlare a un pubblico più vasto possibile, convincendolo della bontà del prodotto. Ma la musica può far ben altro!

La musica non è una vera e propria forma di linguaggio.

La musica non è un linguaggio vero e proprio, non solo per la sua asemanticità, ma anche per la sua fisiologia, per il suo modo di essere altro, costituzionalmente differente dal linguaggio verbale; la prospettiva linguistica – così cara alle metodiche del moderno – non è che una delle possibili angolature. La musica è una riduzione rispetto al linguaggio concreto e concettuale delle parole, ma proprio questa riduzione consente un’apertura, un’amplificazione degli aspetti emotivi. La musica è anche un’eccedenza, in quanto riesce a cogliere degli aspetti che il linguaggio comune non può nemmeno avvicinare. La musica è meno rispetto alla cultura in genere e alla filosofia in particolare, ma questo meno si rivela essere un di più che inaugura un spazio/tempo sospeso e stra-ordinario, lo spazio comune sparisce e diventa interiorizzato, il tempo si fa estatico e rivelativo di suggestioni che sono praticabili solo attraverso il suono.
Il compositore non può scrivere per se stesso, se non tradendo il suo essere cor-responsabile al mondo, ma non può neanche pensare di scrivere per le masse, perché questo significherebbe commercializzare il suo prodotto, allora a chi deve pensare di rivolgersi il compositore mentre scrive?

Bisogna scrivere per coloro che possiedono il segreto di leggere fra le righe e che sanno riflettere su ciò che hanno letto, anche molto tempo dopo aver chiuso il libro. Coloro che vogliono pensare per il solo gusto di pensare senza secondi fini, così per mantenersi in forma, come si fa con una salubre passeggiata. Ovviamente per scrivere bisogna saperlo fare e per farlo bene occorrono doti naturali e tanto, tanto esercizio, come un artigiano è necessario stare chinati a cesellare suoni e frasi per giorni e giorni, per mesi, per tutta la vita. Per scrivere il cuore e lo spirito non bastano, bisogna studiare con attenzione, con intelligenza e aggiornamento, con la consapevolezza che i risultati si esprimono poi attraverso la scrittura, la quale ha le proprie ragioni, una forza tutta sua. É solo grazie a un affinamento della scrittura che si può sondare la circolazione delle idee, rimanendo al di qua delle codificazioni: non si tratta però di fare la pagina bella, anzi il calligrafismo viaggia sempre in superficie, si tratta di abitare nella scrittura, perché questa sia una forma veritiera di comunicazione, che collega l’ambito di lavoro specialistico al sano senso comune, testimoniando anche l’essere uomo.

Occorre abitare la scrittura con un atto d’amore, che lega con passione la presenza nel mondo posizionandosi fra l’esodo nelle strade del mondo e l’avvento della scoperta del proprio compito (di uomo e d’artista). Oltre alle capacità tecniche e alla musicalità, alla naturalezza della scrittura e alla plausibilità del messaggio, una delle discriminanti per la critica alla musica di oggi potrebbe proprio essere quella etica ossia il percepire la giustezza di fondo dell’operare e l’autenticità dell’atto artistico. L’opera è-nel-mondo, geograficamente situata, il sostituire la storia con la geografia significa privilegiare l’esserci, quale presenza vitale intramondana; la storia si fa topologia e si avvicina alla natura; ogni autentica forma d’arte sorge da un vivo e scambievole rapporto dell’uomo con la natura. Il compositore esteriorizza la sua esistenza in forme e ogni forma è estrinsecazione dei suoi pensieri. La forma ritrovata nella musica di oggi, dopo la crisi dei decenni legati allo sperimentalismo, non può certo essere quella delle antiche prassi, si tratta di dar corpo a una plasticità che sia viatico intelligente dell’espressività, una sorta di forma naturale, come quella di un albero che non possiede equilibri e simmetrie studiate a tavolino, ma possiede molto di più, perché sono nate da uno stato di necessità, al fondo del quale si intravede il volto della grande madre o del puro umano, l’essere tale e quale è, l’essere che ha luogo, che nel suo divenire diventa ciò che è.
Il tema della relazione fra le proprie radici, la terra (Hestia nella mitologia) e l'aperto del mondo (Hermes)[17] si con-fonde con quelli della comprensione e dell'accoglienza, tipiche qualità dell’amore. La natura ci insegna l’eterno ritorno dell’uguale. L’eterno ritorno è la forza che porta l’uomo a divenire parte del tutto, in cui vita e morte appartengono alla stessa dimensione, dove bene e male sono inseriti nella ciclicità del mondo e ci consegnano al destino. In ogni destino c’è una metamorfosi attesa. La visione panica del mondo è la possibilità di andare, è utopia del viaggio: andare là dove altro ci può essere. Andare con la speranza nel cuore. Ma «dove stiamo, dunque, andando?» - si chiede Novalis - «sempre verso casa».
Passati gli anni dello sperimentalismo e dell’estetica del negativo, del concetto di complessità e di quello di babele linguistica, ma trascorsi anche gli anni della contro-posizione ideologica del postmoderno, della leggerezza dell’essere e del pensiero debole, dell’amore per la superficie luccicante e per l’attrazione verso il mercato, oggi la musica non può che tentare di ripristinare il rapporto positivo con il pubblico, basato non sulle vecchie metodologie analitiche né su una vacua espressività di chi vuol essere preventivamente comunicativo! ma su un’esigenza vera di comunicare il vissuto, basata su una scrittura ben costruita e scorrevole, riconquistando il senso della bellezza, che non è quella legata al prodotto ben confezionato e piacevole, ma è una bellezza profonda che dona senso, umile, discreta.

È appena passata un’auto
altre due, altre tre.
Non credo che mi lasceranno finire la mia storia.
Sperando di lasciarmi tutto questo alle spalle, ecco
il mio nome


Da Renzo Cresti, Fare musica oggi, Del Bucchia, Viareggio 2011.



[1] Fra i compositori della prima generazione vanno almeno citati Giacinto Scelsi, Barbara Giuranna, Franco Margola, Roberto Lupi, Giovanni Salviucci, Nino Rota, Mario Peragallo, Bruno Bettinelli, mentre per la seconda generazione, accanto a quelli analizzati da Bortolotto, occorre ricordare Luciano Chailly, Ennio Morricone, Teresa Procaccini, Irma Ravinale e se non altro i compositori della Schola fiorentina: Bruno Bartolozzi, Alvaro Company, Arrigo Benvenuti, Carlo Prosperi e ancora Valentino Bucchi, Piero Luigi Zangelmi, Ugalberto De Angelis, Romano Pezzati, Franco Cioci, Antonino Riccardo Luciani, Ruggero Lolini, Lelio Camilleri, Pietro Rigacci e altri. Per una panoramica su pressoché tutti i compositori italiani cfr. Enciclopedia Italiana dei Compositori Contemporanei, a cura di R. Cresti, 3 voll. e 10 compact-disc, Pagano, Napoli 1999-2000.
[2] Le analisi accademiche producono lo sgradevole effetto di un rigor mortis, in quanto sono costrette a immobilizzare l’oggetto studiato, a estrapolarlo dalla circolazione delle idee e dei fatti che lo hanno prodotto e a considerarlo alla stregua di una un cosa; privilegiando la staticità al divenire ci si facilita il compito ma si falsificano i risultati. Nelle analisi delle opere d’arte, come di qualsiasi avvenimento, avviene un fenomeno simile a quello che in fisica riguarda gli attrattori strani ossia quegli aspetti dinamici che sono di per sé non analizzabili in quanto mutano di continuo, se ne può solo fornire una visione d’insieme.
[3] Cfr. R. Cresti, Gaetano Giani Luporini, musica fra utopia e tradizione, Lim Antiqua, Lucca 2005.
[4] Cfr. R. Cresti, L’arte innocente, con cdrom, Rugginenti, Milano 2004, schede critiche su Giampaolo Coral, Mario Cesa, Fernando Mencherini, Gianfranco Pernaiachi, Nicola Cisternino, Biagio Putignano, Gianvincenzo Cresta.
[5] Cfr. la collana “Il cammeo blu”, diretta da R. Cresti, di Guido Miano, editore in Milano, dove sono stati pubblicati saggi su: Rocco Abate, Silvia Bianchera, Claudio Boncompagni, Gabriella Cecchi, Paola Ciarlantini, Fulvio Delli Pizzi, Mario Ruffini, Andrea Talmelli, Corrado Vitale (vol. 1, 1995); Roberto Beccaceci, Angelo Bellisario, Matilde Capuis, Mauro Castellano, Stefano Da Ros, Oronzo Persano, Andrea Pidoto, Davide Remigio, Enrico Renna, Matteo Segafreddo (vol. 2, 1997); Umberto Bombardelli, Pierlaberto Cattaneo, Fernando Mencherini, Carlo Pedini, Biagio Putignano, Igor Sciavolino, Roberta Silvestrini, Marco Stassi (vol. 3, 2000). Inoltre volumi monografici su Niccolò Castiglioni (1991), Luciano Chailly (1994), Piero Luigi Zangelmi (1994), Franco Margola (1995, 1997), Gianfranco Pernaiachi (1995), Giorgio Gaslini (1996), Paolo Ricci (1996), Giancarlo Facchinetti (1996), Biancamaria Furgeri (1997), Danilo Lorenzini (1997).
[6] Cfr. la rivista «Il Pasquino musicale», diretta da R. Cresti e D. Bertoldi, pubblicata dal 1991 al 1993 a Sezze Romano, con schede critiche su autori quali Pippo Molino e Massimo Gianfreda (marzo 1992), Rocco Abate e Claudio Boncompagni (aprile 1992), Gabriella Cecchi e Mario Garuti (maggio 1992), Nicola Cisternino e Corrado Pasquotti (giugno 1992), Arduino Gottardo e Claudio Scannavini (settembre 1992), Aldo Brizzi e Angelo Bellisario (novembre 1992), Ada Gentile (dicembre 1992) e altro.
[7] Cfr. R. Cresti, La struttura felice di Corrado Pasquotti, in rivista «Musica Attuale» n. 6, Bologna 1994. La rivista, pubblicata dalle edizioni Agenda di Bologna, ha pubblicato articoli e partiture su diversi compositori, fra i quali Claudio Scannavini, Marco Montaguti, Riccardo Piacentini, Nicola Cisternino, Arduino Gottardo, Giovanni Bonato, Marco Molteni, Fiorenza Figlioli, Cristina Landuzzi, Roberta Silvestrini, Giancarlo Cardini, Andrea Talmelli e altri.
[8] A parte i compositori che sono presenti nelle interviste e i già citati, dobbiamo ancora dedicare almeno una menzione a Giuseppe Soccio, Gilberto Cappelli, Alberto Caprioli, Luigi Verdi, Fabrizio Fanticini, Paolo Perezzani, Bernardino Beggio, Roberto Rusconi, Heinrich Hunterhofer, Gianni Possio, Diego Minciacchi, Riccardo Riccardi, Mauro Cardi, Riccardo Vaglini, Luciano Bellini, Paolo Arcà, Marco Tutino, Francesco Carluccio, Carlo Galante, Luca Mosca, Paolo Ugoletti, Giampaolo Testoni, Marco Betta, Sergio Rendine, Fabrizio De Rossi Re, Corrado Vitale, Marco Di Bari, Davide Remigio e altri ancora sarebbero da ricordare (ma non vogliamo fare un elenco telefonico!), nominati volutamente alla rinfusa per far capire come non sia possibile una classificazione e che ognuno dei compositori citati possieda una sua personalità umana e artistica, alla quale bisognerebbe dedicare molte pagine.
[9] Cfr. R. Cresti, Verso il 2000, Il Grandevetro, Pisa 1990, primo resoconto organico sulla terza generazione di compositori, con oltre 100 schede critiche. Citare i nomi di alcuni compositori accanto ad alcune tendenze non può che avere un mero valore esemplificativo e didattico, in quanto assai più complessa è la problematica stilistica rispetto a quella di una indicazione generica.
[10] A. Ross, Il resto è rumore, Bompiani, Milano 2009, p. 813.
[11] L’esigenza di legittimazione purtroppo fa credere all’homunculus di essere chissà chi solo perché un suo pezzo viene eseguito, magari da un amico in un luogo di provincia! Davanti a pochi intimi! La non legittimazione sociale quale musicista fa poi scattare situazioni di compensazione nella ricerca di un ruolo istituzionale o nel riversare le proprie frustrazioni sugli studenti; chiunque frequenti il mondo della musica contemporanea sa bene quanta pazienza occorra per sopportare i vaniloqui di coloro che si credano compositori! La legittimazione avviene solo in due modi, attraverso il riconoscimento generalizzato della musicologia specializzata e l’inserimento nel grande circuito dei teatri e di manifestazioni musicali a carattere internazionale.
[12] Per le problematiche storiche relative alla presenza femminile nella musica e per una riflessione sulle compositrici attuali cfr. R. Cresti, La Vita della Musica, Feeria, Panzano in Chianti 2008.
[13] Il nostro studio si è voluto limitare alla situazione italiana sia per i compositori sia per le varie situazioni culturali, se avessimo analizzato anche la situazione francese, per esempio, avremmo dovuto soffermarci sullo spettralismo; se avessimo analizzato il contesto tedesco avremmo dovuto svolgere riflessioni un po’ diverse su come e quanto si diffonde la musica; se avessimo insistito sui compositori americani avremmo parlato di Adams e così via.
[14] Cfr.Autoanalisi dei Compositori Italiani Contemporanei, a cura di R. Cresti, Pagano, Napoli 1992.
[15] Anni fa Umberto Eco divideva gli intellettuali in apocalittici e integrati, i primi sono pressoché scomparsi mentre i secondi sono proliferati, anche se sono inquadrati in maniera disorganica. L’intellettuale come l’artista svolge un’attività pubblica accompagnata dalla ragione critica, ma non è più organico alla società come lo è stato fino a qualche decennio or sono perché nell’epoca del web non può inserirsi in un luogo preciso, non può avere una posizione certa, ma deve porsi all’interno di un intreccio di informazioni senza fine, subendo una metamorfosi del modo di relazionarsi con la collettività, non più diretto ma virtuale.
[16] Ecco perché il musicista non può starsene rintanato nel suo studio dove non può rapportarsi che a se stesso, in un soliloquio proteso alla ricerca della sua presenta ‘verità’ interiore.
[17] Sul piedistallo della grande statua di Zeus, a Olimpia, Fidia ha voluto rappresentare 12 divinità, raggruppate a due a due; Hestia, l’essenza della casa e del focolare, è messa insieme a Hermes, dio viaggiatore sempre in movimento che rappresenta il contatto fra elementi diversi. L’accompagnamento di questo dio errante con la domestica Hestia sta a significare la complementarietà di movimento e stasi, di moto centrifugo e centripeto, di aperto e chiuso. L’omphalos di Delfi è considerato il trono di Hestia, pietra ovoidale, il suo spazio va in profondità e il suo tempo è a spirale, mentre quello di Hermes va in estensione, è spazio dilatato. Se il linguaggio dei suoni è una sorta di utopia del linguaggio vero e proprio, allora si configura come possibilità autentica che si presenta come vocazione e destino e se è una vocazione non può che compiersi in un contesto pre-compreso (Hestia) e questo contesto non può che essere il mondo dei suoni che sta a monte dell’organizzazione in linguaggio (Hermes). La musica va intesa dunque come uno spazio aperto (Hermes) che diventa spazio interiore (Hestia).
[18] Parodia del testo del ciclo del 1945 Barstow di Partch.


 



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