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Moderno, postmoderno e ipermoderno
Moderno, Postmoderno, ipermoderno



1976, dal moderno al postmoderno

 
Esaurita la forte spinta propulsiva, nelle crepe dell’avanguardismo si insinuano vicende e pratiche diverse. Anticipazioni di quel che sarà il postmoderno si hanno nella musica di Berio, quando ricorre a forme di canzoni e di danze (come nei nei Folk Songs) e quando supera il tabù del pensiero seriale e utilizza l’ottava e la ripetizione (Sinfonia è un pezzo esemplare del vagabondaggio nella storia della musica). Anche Castiglioni, con modalità del tutto differenti rispetto a quelle di Berio, recupera un senso tonale e l’uso della citazione, anticipando, in maniera intuitiva, molti gesti sonori della generazione successiva. Anche i cambi di rotta, durante gli anni sessanta, di Stockhausen e di Pousseur, in altre parole di autori che avevano elaborato in maniera stringente e radicale il puntillismo sonoro, sono assai indicativi, su tutti l’impurità degli objets sonores trouvés di Hymnen, pezzo che si contrappone, in modo stridente, alla ricercata purezza del post-webernismo. Pure alcuni tratti dello svizzero Klaus Huber, come la narratività, il teatralizzare la citazione, dando a un tema musicale il carattere simbolico di personaggio, rientrano nella retorica del discorso che interesserà al postmodern. Anche la parabola di Dieter Schnebel è assai emblematica, infatti il compositore passa da una sorta di metalinguaggio sperimentale a parafrasi su temi storici nello spirito della post-modernità (come in Beethoven Sonate del 1970).

Anticipi del cosiddetto “molteplice” (di cui tanto si è parlato negli ultimi trent’anni) si hanno nel montaggio di citazioni del tedesco Zimmermann, un assemblaggio che nega il principio di consequenzialità, così come in molti brani degli inglesi Maxwell Davies e Birtwistle. Altri elementi che saranno indicativi per lo stile degli anni successivi si trovano nel minimalismo, ad iniziare dal famigerato pezzo di Terry Riley In C. Lo stesso jazz, da quello di Coltrane al free, fornisce non pochi tesori al bottino che gli ultimi tre decenni ruberanno alla modernità (la figura di Gaslini è, non solo in Italia, indicativa a tal proposito). É la riscossa di Stravinskij prima irriso in nome di una limpidezza linguistica astratta e assoluta. Proprio la rivalutazione del maestro russo è la spia di una mutazione critica.

Anche negli Stati Uniti, sul finire degli anni sessanta, un gruppo di giovani compositori si ribella a ciò che Babbit definiva “le attività complesse delle avanguardie”, fra questi David Del Tredici, Lukas Foss, Georg Crumb, William Bolcom e altri che adottano un’orchestrazione simile a quella straussiana, usano citazioni riprese dalla musica barocca, classica e romantica, fanno tornare in auge la tonalità, scendendo sul terreno comune ai musicisti della vecchia tradizione, con la differenza però che questi ultimi avevano compiuto solo l’esperienza dello stile consolidato, mentre i giovani venivano dall’aver sperimentato gli stili del moderno e questo attraversamento risulta fondamentale non solo per la maggior consapevolezza del proprio pensiero e prassi artistica ma anche per un più scaltro uso degli stilemi storici.

Alla cosiddetta avanguardia strutturalistica e cageana ha risposto ciò che è stato chiamato Postmoderno il quale, proprio come aveva fatto la Neue Musik, riproduce al suo interno tutti quei meccanismi che portano all'omologazione del genere e al consolidamento di alcuni sotto-generi. Il termine postmodern deriva dall’inglese e viene applicato alla critica letteraria fin dal 1971 (col libro di Ihab Hassan, stampato a New York, e intitolato Post-Modern Literature) e contemporaneamente è usato in sociologia e nell’architettura degli anni settanta[1] che ha, come caratteristica saliente, quella dell’utilizzazione pragmatica degli elementi storici, usati in toto e simultaneamente. Il saggio dell’architetto inglese Charles Jencks, The Language of Post-Modern Architecture, dichiara di affidarsi alla citazione di stilemi, quali la colonna, l’arco, il timpano ecc., che il modernismo aveva rifiutato. Seguendo un nomadismo sempre più in superficie, si arriva al gusto del patchwork[2].

Elemento tipico del Postmoderno è la citazione, la quale viene spesso abusata e inserita a sproposito: citazione non vuol dire riproposizione minuta e compita delle tecniche del passato, in un compassato e tranquillizzante omaggio alla tradizione, ma è ripetizione differente, non c’è citazione senza presa di distanza; come dice Derrida, la citazione è un’operazione volta ad aprire il testo e a creare piani diversi. Secondo la terminologia, la radice verbale latina cieo vuol dire “chiamo fuori”, riprendo un elemento e lo porto a me, lo faccio mio, interiormente, contestualizzandolo, seguendo il presente.

Il Postmodern s’impone prima negli Stati Uniti poi in Europa, il termine è piuttosto ambiguo e dà adito a varianti terminologiche e concettuali (come modernismo tardivo, transmodernità, metamodernità ecc.)[3] e ad accezioni differenti che comunque rimandano a un passaggio e a uno stratificato rapporto fra modernità e post-modernità. Nel tragitto si perdono l’estetica della novità e lo storicismo legato alla concezione lineare del tempo, a favore di un pragmatismo eterogeneo e di una pluralità linguistica e stilistica che ingloba ogni sorta di citazioni (temporali e spaziali), nulla si butta e tutto viene ri-utilizzato. É la rivalsa del piacere, dell’amabilità e della fascinazione sonora, contro il duro impatto dello sperimentalismo, una piacevolezza costruita facendo ricorso agli elementi tradizionali della melodia, della consonanza, dell’armonia tonale, dell’andare e venire dalla storia.

La cifra peculiare di molti compositori postmoderni sta sotto il segno della dimenticanza del passato prossimo, i conti si fanno con i musicisti del tardo ottocento e primo novecento, saltando le avanguardie. Si assiste a un impoverimento della ricerca che fa essere l’arte più immediata, basata su un’ampollosità del raccontare e del descrivere. S’è parlato di “parola innamorata” per la letteratura[4], similarmente potremmo dire per la musica di un suono innamorato del suo autore, di un suono ben pettinato, al quale non interessa instaurare una credibile comunicazione, ma vuole piacere per come si presenta. Il vestito fa il monaco, eccome!

Verso la metà degli anni Settanta la musica sperimentale entra in crisi per implosione e, come per contrasto, un gruppo di musicisti vuole contrapporre a un’estetica formalistica una poetica neo-romantica che rimetta in gioco la soggettività e i sentimenti. Musicalmente questo vuol dire riproporre una musica melodica, appoggiata su un’armonia tonale e conchiusa in una forma preordinata, ricca di molte citazioni. Si attua una retorica del facile, basata sull’emotività e sulla risposta sentimentale che l’ascoltatore dà alla musica.

Sono gli anni ottanta a mettere in opera una rivalutazione generale del concetto di tradizione e molti musicisti se ne giovano per riformulare un concetto di forma che sappia farsi viatico per una ritrovata comunicazione con il pubblico, che era stata messa in discussione dalla  complessità delle speculazioni estetiche e dalle astrattezze del linguaggio. Quanto si sia maldestramente insistito sugli stilemi storici e quanto si sia cinicamente calcolato il recupero del rapporto col pubblico, volgarizzandolo, è, oggi dopo trent’anni, talmente chiaro da poter dichiarare falliti, almeno sotto molti aspetti, i presupposti della prima fase del Postmoderno.

Il 1976 potrebbe essere considerato – simbolicamente - l’anno di nascita della post-modernità in musica: a Darmstadt si esegue la Sonata per violino solo dell’allora giovane von Bose. Le prime affermazioni di questo nuovo stile musicale trovano la loro consacrazione, nel 1979, quando la Rivista «Neue Zeitschrift fur Musik» pubblica un numero dedicato a un movimento che prende il nome di Nuova Semplicità e che ha caratteristiche tecniche molto vicine a quelle del poema sinfonico straussiano. Si tratta di un gruppo di compositori, come Rihm, Trojan, von Bose che proclamano la finis avanguardie, recuperando immagini orfiche e narcisistiche, attraverso l’uso della citazione, dove il temps perdu è quello della soddisfazione, secondo il detto terribile che soltanto i paradisi perduti sono veri paradisi.

Durante gli anni ottanta, certi atteggiamenti stilistici decisamente legati all’affermazione del postmodern si incrociano con quelli di autori che gravitano su poli differenti, per esempio certe opere di Rihm scritte alla fine del decennio (come Achtes Streichquartett) o certe di Louis Andriessen sono sì distanti, ma anche complementari a quelle dell’ultimo Nono o dell’ultimo Boulez o di Ligeti o del Lachenmann di Accanto o del Kagel di Nord-Ovest, di Pärt, di Gorecki, di Sciarrino creando una sorta di koiné ai minimi termini, un esperanto ridotto, un piccolo dizionario di suoni minimali o nascenti, di silenzi e riverberi, di micro-intonazioni e soffi, di leggeri rumori e gesti raccolti, di rinnovata attenzione allo spirituale[5] e allo stile meditativo; si tratta di un lessico musicale ch’è il risultato di un enigmatico incontro fra esperienze differenti che, nel crogiolo delle difformità trovano uno spazio/tempo comune per convergere su alcuni aspetti, figure e fogge, che costituiscono un patrimonio complessivo che può essere preso a punto di riferimento di una nuova e(ste)tica musicale alla quale molti faranno riferimento durante il decennio successivo.

In Italia il dibattito sulla musica postmoderna inizia negli anni 1980-81, in questo periodo vengono organizzate diverse manifestazioni dedicate alla musica dei giovani compositori di allora: nell’autunno del 1980 a Reggio Emilia, nella primavera del 1981 a Venezia e nell’estate di questo stesso anno a Certaldo[6]. Un contributo viene fornito dai primi numeri della rivista «Musica/Realtà» che propone interviste a coloro che si auto-battezzano “neo-romantici”, si può citare, a titolo esemplificativo della posizione ideologica, ciò che scrive Marco Tutino: «noi neo-romantici nutriamo un’avversione atavica e giurata per il linguaggio preciso e scientifico […] O sentimenti! O passioni! […] L’unica maniera di essere capiti è strettamente legata all’unica maniera di essere graditi.» Fa da spalla a questa posizione Carlo Galante che vede nella piacevolezza il modo «per ritrovare un rapporto positivo con il pubblico», mentre Giampaolo Testoni vuole «riacquistare il senso e l’aspirazione alla bellezza». A parte che la problematica sulla bellezza è annosa e complessa, il rifarsi alla piacevolezza è tipico del pensiero debole, nell’ottica ludica non si riesce neanche a esprimere il piacere – il sostantivo che indica un’essenza – ma solo la piacevolezza, l’avverbio che alleggerisce. Socrate diceva che «difficili sono le cose belle», difficili perché non risolvono facilmente nel banale e nella piacevolezza. Il vecchio cane Argos, disteso sul letame, è bello perché riconosce subito il padrone. Il bello ha la stessa radice di buono - bellu(m) è un diminutivo di bonus - ma l’abbinamento del bello col buono non appartiene solo al pensiero greco e a quello del cristianesimo medioevale, è proprio anche del senso comune che dice infatti “bella azione” o “bel gesto” (Giovanni chiama Gesù “il bel pastore”). Il bello richiama dunque un atto di cor-responsabilità, un co-operare, un agire per l’altro. Nulla di tutto questo traspare nel richiamo alla bellezza degli autori neo-romantici che confondono la bellezza con la piacevolezza e la musica viene intesa nei suoi aspetti epidermici, per cui la composizione diventa un prodotto ben confezionato.

I rampanti musicisti neo-romantici, nella Milano che negli anni ottanta viene chiamata “da bere”, sono tutti presi dal tentativo di inserirsi nei circuiti commerciali, di questa fase poco è rimasto perché troppi furono i brani scritti à la manière de, troppo esplicita la ricostruzione delle atmosfere fin de siècle, troppo insistita la citazione che diventa uno standard espressivo banale, troppo compiaciuto il gusto retrò e troppo carezzevoli le melodie en rose. Solo coloro che riuscirono a mediare la galanteria di una musica troppo accondiscendente con l’insopprimibile esigenza alla ricerca e alla tensione interiore, furono i musicisti che si salvarono dal naufragare dolcemente nel mare delle banalità.

Il compositore neo-romantico è un musicista non del mondo ma della mondanità, furbo e cinico, intende la molteplicità in senso quantitativo e si lascia prendere dal luccichio delle cose, non essendo capace di approfondire produce una musica easy, da arredo metropolitano, che sta ai bisogni interiori dell’uomo come il supermercato sta alla fame del mondo. Produce uno stile che si sintonizza facilmente sull’effimero, una musica che ha una linea, indossa un abito, ma non ha valori, è come svuotata, gioca non sulla leggerezza dell’essere ma sulla sua banalizzazione. Per i  compositori neo-romantici il mare magnum dell’eterogeneità contemporanea è un terminus ad quem, come in certa fusion che fa suoi i termini della globalizzazione, presentando brandelli di musiche in una semplice carrellata di suoni sentiti e non vissuti, fagocitando tutto e realizzando un pastiche, un mosaico di pietruzze colorate che strizzano l’occhio ora al jazz ora all’etnica, creando un continuum sonoro che ricorda la musica degli spot pubblicitari[7]. Alla prassi delle citazioni e della contaminazione manca la consapevolezza dell’erranza, quella coscienza del viaggio che fa diventare la musica vera e partecipata (un caso di consapevolezza del viaggio attraverso culture diverse è la musica totale di Giorgio Gaslini, un esempio di sintesi vissuta fra stili classici, africani, jazzistici, contemporanei).

In molta fusion, così come nella new age, si nota una mancanza di vissuto e un’ambiguità di fondo sia a livello culturale sia a livello sociale, con imbarazzanti cadute di stile e altrettanti capitomboli nel commerciale. Si verifica ciò che Ivan Della Mea denuncia per le tante tendenze neo-folk che sono fuori dal contesto socio-culturale, infatti molti musicisti sanno suonare uno strumento legato alle tradizioni popolari, chitarra, percussioni, fisarmonica, organetto, ma lo fanno senza supporto critico con le dinamiche ambientali e culturali che hanno dato vita a quei suoni. Anche la spiritualità diventa leggera, si preferisce un fumoso rincorrere religioni orientali (realizzando una sorta di joga made in Europe) piuttosto che riflettere sul cristianesimo oppure, come ha denunciato il papa, a un “cristianesimo fai da te” ovvero l’essenza spirituale diventa un orpello, un optional, una spolveratina di astratta e grossolana religiosità che ben si adatta alle atmosfere en rose che così tanto rilassano i poveri di spirito.

È da sottolineare l’importanza che hanno gli interpreti che sono riusciti a interloquire con i compositori, in alcuni casi assumendo il ruolo del co-autore. Come per le ricerche tecniche compositive, anche per quelle relative all’esecuzione negli anni recenti si è bloccato lo sperimentalismo e si tende a un uso più calibrato delle particolarità strumentali sempre tese alla scorrevolezza del fraseggio e alla ricerca del bel suono.
Bisogna dimostrare di essere veramente usciti dal novecento abbandonando tutte le vecchie norme, generi e stili, tecniche e forme, oltrepassandole[8]. Questo abbandono non coincide col disimpegno, come per gli artisti della yuppie-generation, che non viaggiano più e che hanno tradotto la frenesia on the road nell’integrazione della società del guadagno: «più che muoverci facciamo la tana» - scrive David Levitt nel suo celebre saggio Our Lost Generation - «vogliamo far carriera, belle case, impegni appaganti, buoni amici di entrambi i sessi. Vogliamo la Gold Cart dell'American Express». La prima fase del minimalismo aveva come riferimenti geografico-culturali le praterie del centro degli Stati Uniti (che erano ancora il simbolo dell’uomo libero) e gli spazi enormi dei grattacieli delle città delle coste. Gli anni successivi cancellano del tutto l’illusione della libertà: «il sogno americano è finito, l’utopia è realizzata ossia la punta massima del benessere economico è riuscita a soffocare l’individuo»[9]. Si confessa Andy Warhol nei suoi Diari: «sono andato in chiesa e ho pregato dio di avere molto denaro». Oggi le praterie del west, quei vasti spazi liberi descritti da Copland, appaiono color seppia, il minimalismo originario della west coast, quello di La Monte Young, ha lasciato il posto a quello newyorchese dove la vita stessa è diventata minimale e gli stessi procedimenti compositivi si sono assai commercializzati, come in Eno e in Glass, per questo Nyman, nel suo libro Experimental Music, ha definito il minimalismo una sottocategoria della musica intesa come processo.

Al contrario dell’arrivismo e del qualunquismo, oltrepassare le vecchie norme linguistiche ed estetiche, rimanendo fedeli a un rigore di pensiero e di etica, significa assumersi la massima responsabilità nei confronti del proprio operare, della propria opera e del contesto sociale in cui essa viene a inserirsi; in altre parole occorre porre molta attenzione al proprio esserci, al viaggio che dobbiamo compiere fra terra e mondo.

Secondo Lyotard il temine “post” rimanda a un’analisi, a un approfondimento del moderno; questa lettura preferisce il termine iper-moderno, col quale la molteplicità perde il segno negativo della superficialità e ne acquista uno positivo d’indagine e verifica, secondo questa prospettiva la prassi della citazione viene nobilitata a osservazione della storia (citare diventa quindi un viaggio esperiente). La seconda fase del Postmoderno, quella che ha meno bisogno della contro-posizione ideologica al moderno e che si afferma fra la fine del secolo scorso e questo primo decennio del duemila, perdendo la ludica vaporosità iniziale e acquistando peso e maggiore tensione, acquisisce anche una naturalezza di pensiero e prassi che – per chi è in grado di affidarsi a una tecnica sopraffina – porta a uno spigliato operare e a un’opera solidamente leggera.

Come e cosa scrivere nell’età ipermoderna?
Questa è la domanda di base. Il soliloquio della musica di ricerca non è più ammissibile, la ricerca non deve venir meno ma deve perdere la durezza dell’artificio e farsi ricerca dello scambio di idee e di energie vitali. Il postmoderno aveva sopravalutato la superficie preferendola all’essenza, al “puro umano” direbbe Wagner, amava l’estensione più che la sostanza, la chiacchiera più del colloquio, la tecnologia come gioco più che come mezzo progettuale, il tutto soggiacente alla logica del mercato in una massificazione dei corpi e delle anime. Nel rifiutare tutto questo non ha senso sbandierare vecchie ideologie legate al moderno, è fra le coordinate socio-culturali dell’oggi che occorre trovare il punctum, la scintilla, il “suono giusto” (per dirla con Monteverdi), la vitalità della scrittura. Se il moderno oggi non è altro che una delle tante strade possibili, anche il postmoderno s’incrocia con altri percorsi diversificati, generando un traffico di idee e (f)atti, di coordinate e dinamiche che vanno interpretate e assimilate solo così si può abitare il clima culturale della nostra epoca cercando di mettere a frutto il patrimonio di conoscenze, lontane e contemporanee, verso una musica che all’inizio del terzo millennio deve ancora mostrare i tratti tipici del proprio carattere.
  
Ipermoderno[10]: dalla storia alla geografia
 
Non v’è dubbio che oggi il concetto di superficie abbia assunto un valore del tutto diverso da quello di qualche anno fa quando era sinonimo di superficialità, approssimazione, dilettantismo, stupidità. I significati e il senso dei (f)atti sono distribuiti in estensione e si spostano velocemente in un’area vasta. Insieme alla superficie, pure lo spostamento e la velocità hanno conquistato i primi posti nella nuova scala di valori, nella quale il concetto di profondità perde posizioni.

Che il senso degli avvenimenti fosse mobile, non fissabile una volta per tutte, lo si era appreso da molto tempo, ma credevamo comunque alla ricerca di una profondità del senso, invece questi anni recenti ci insegnano che la profondità è un’illusione ottica, una semplice metafora spaziale e morale che si basa sul desiderio di collocare il senso in un luogo privilegiato, segreto, come si fa con i tesori più preziosi;[11] di questo atteggiamento se n’è occupata la psicanalisi, qui basta constatare come oggi non sia più necessaria la discesa nel profondo semplicemente perché è la superficie che crea senso. Per capire noi stessi dobbiamo prima capire il mondo e per capirlo bisogna uscire all’aperto, spostarsi, viaggiare, inciampare. La nostra interiorità e i nostri valori non devono certo dissolversi ma devono essere pensati in altra posizione, più esposti all’aperto del mondo.

La storia è sempre stata vista come un elemento profondo, addirittura come maestra di vita, mentre altro non è che una narrazione di eventi ricostruita secondo varie prospettive che sono quelle del vincitore (il greco historìa è un derivato da istor che significa colui che ha vinto). Le vicende storiche ci comunicano ancora qualcosa solo se riescono a inserirsi nel tragitto che ci porta alla pura contemporaneità, se ci fanno riflette non sulla presunta ‘verità’ degli accadimenti ma sulla nostra condizione di uomini d’inizio terzo millennio, se riescono a posizionarsi negli itinerari che stiamo percorrendo.

La storia non dobbiamo immaginarcela come una serie infinita di fasi in continua evoluzione, di cui la seguente è migliore della precedente; la visione idealistica che vedeva la storia come un costante divenire va sostituita con quella che conosce la storia come si conosce la geografia, quindi non un formarsi di un incessante progresso, ma una tappa che conserva e consuma, che ottimizza o peggiora, che ogni aspetto trasforma in senso circolare, come se ogni elemento venisse inserito in una spirale che lo trasfigura, svilendolo o impreziosendolo. La storia è dunque una fetta di tempo che si raggomitola e che nel suo svolgersi si srotola e subito si riavvolge, in un continuo andare e venire di sollecitazioni.

Più che la storiografia ci è utile la cartografia: immaginiamo una carta stradale con le sue strade principali e secondarie che possono essere percorse in tutte le direzioni, verso i quattro punti cardinali. Ogni zona ha le sue vie più o meno importanti, come ogni epoca storica ha le sue coordinate di maggiore o minore importanza, le quali mutano velocemente, così una via di comunicazione di grande interesse può diventare un percorso secondario, oppure un tragitto marginale può divenire un asse fondamentale. È questa una problematica similare a quella delle relazioni fra globalizzazione e localismo ossia vi è una mutevole e continua interdipendenza fra elementi rilevanti che perdono d’interesse e argomenti trascurabili che diventano apprezzabili, fra dati universali e particolari, in un perenne scontro/incontro di forze. Il localismo porta a un atteggiamento provinciale e a un pensiero chiuso e gretto, la globalizzazione porta a un fare omologato e al pensiero unico, quindi le coppie chiusura-apertura, omologazione-diversità, universalità-particolarità, massa-individuo, sistema produttivo globalizzato-economia di settore, così come strada principale-via secondaria, percorso importante-tragitto marginale oppure passato-presente, presente-futuro sono coppie complementari e non antagonistiche, vale a dire i conti vanno fatti con entrambi i poli, sia che vengano considerati al negativo o al positivo. Chi non riesce a tematizzare l’interdipendenza di queste coppie e il loro reciproco collegamento rimane escluso dall’abitare il proprio spazio/tempo.

La geografia non ci insegna solo una diversa visione della storia, ma ci porta nel vivo del dibattuto culturale odierno, non è un caso che si sia parlato in termini geografici delle tendenze musicali di New York – downtown, uptown, midtown – e che un genere sia diventato quasi sinonimo della musica d’oggi: world music che sposta geograficamente i rimandi stilistici dalla mitteleuropa ai paesi latini e a quelli emergenti.

Nel Moderno le strade principali riguardavano la ricerca tecnico-formale, chi non le ha percorse si è trovato in una posizione marginale perché la storia e la geografia vanno attraversate con passione nella loro totalità, solo l’attraversamento dell’intera rete consente di vivere appieno il proprio tempo/spazio, di avere consapevolezza del territorio e di conoscere a fondo l’ambiente in cui si vive. Nell’ipermoderno le strade principali riguardano la comunicazione, la strada della ricerca non è ovviamente sparita, ma è diventata una deviazione rispetto all’asse principale. Come nel periodo storico precedente occorre attraversare le coordinate dell’ipermoderno e quelle fondamentali con maggior attenzione rispetto a quelle marginali, poiché è durante il percorso delle strade principali che si incontrano gli incroci che consentono una piena percorribilità, snodi che sciolgano significati e danno più visibilità.

Non è facile vivere il proprio spazio/tempo con consapevolezza e con naturalezza, chi si è incamminato in una certa direzione fa fatica a cambiarla e tende a conservare i paesaggi (interiori) e i valori e(ste)tici che erano tipici del vecchio percorso. Occorrono antenne sensibilissime per captare i cambiamenti perché avvengono con una velocità tale che può mettere in difficoltà chi non ha la mente pronta e prensile. Chi per carattere o per educazione ricevuta o per atteggiamenti ideologici cammina su una sola strada e giace nelle proprie convinzioni è colui che resta privo d’orizzonte e si perde nei labirinti dell’attualità. I compositori che non hanno metabolizzato il cambiamento epocale del passaggio fra moderno e postmoderno e ipermoderno e non riescono a metabolizzare i continui micro-mutamenti che avvengono in ogni presente rappresentano la zavorra alla spinta del cambiamento, sono i conservatori più o meno coscienti di esserlo, coloro che sono sempre stati chiamati ‘accademici’ non per i titoli onorifici ma per la vana esibizione del proprio esercizio.

Vi è un’evidente incapacità del sapere accademico, più dottrinale che consapevole della cultura viva, a leggere con partecipazione e con ampiezze di vedute i (f)atti in movimento come quelli contemporanei: si tratta di un nozionismo specialistico che fa ricorso a una fissità ermeneutica legata a schemi preordinati i quali prendono autorevolezza proprio dalla loro fissazione, in pratica si legittimano da soli[12]. Ma ogni sapere, ogni metodologia, ogni sistema, ogni regola nasce e muore come tutte le cose. I metodi eruditi sono storicizzati, fermi alla musica post-seriale, sostanzialmente di stampo para-strutturale, appena aggiornati con qualche ammiccamento al sound Postmodern. Purtroppo il nostro sistema scolastico è attardato su posizioni tipiche del moderno, la musica nei conservatori e nelle università[13], per quello che può valere, viene insegnata e pratica con metodologie anni ’70, del tutto insufficienti a interloquire con le nuove emergenze che fanno scendere l’analisi tecnica (a qualsiasi metodologia si riferisca) e lo studio razionale e fanno salire l’ascolto e l’indagine intuitiva. Non è un caso che il conservatorio e ancor più l’università abbiano perduto ogni riconoscimento culturale e legittimazione sociale, i loro insegnanti, per la maggior parte, sono inadeguati a comunicare cultura viva e aggiornata.

L’analisi è importante ma bisogna tener presente che non è il particolare che fa il capolavoro ma il suo insieme, il quale non è affatto la somma dei particolari ma un quid in più e comprende anche gli umori, le inclinazioni, le fantasie, gli stati d’animo del compositore e dell’ascoltatore. Le metodiche formatesi durante il moderno hanno una mera funzione descrittiva e statistica, applicabile all’esercizio dello studente come all’opera eccellente. Jung dice che quando si osservano le pietre di una cattedrale non si ha un’idea della maestosità dell’architettura e che quindi si compie un lavoro più da geometra che da artista o da amante dell’arte; gli fa eco Adorno quando scrive che più ci si concentra sulla microstruttura è più l’opera diventa astratta, perdendo il valore dell’unità stilistica ch’è forma e messaggio, tecnica ed espressione inscindibilmente unite. Le vecchie metodiche raccolgono solo dati che al massimo possono spiegare certe scelte del piano di lavoro, ma non la differenza fra un compitino e un grande atto artistico. Occorre abbandonare la morfologia del sistema e le metodologie formalistiche per passare alla percezione globale della forma e al senso sonoro dell’insieme.

«Pare sempre più necessario alzare lo sguardo dalla partitura per osservare attorno a sé e aprire le orecchie ad ascoltare quelle stesse note calati nei panni di un comune ascoltatore.[14]» Fin dalla fine degli anni settanta questa esigenza stava sempre più emergendo[15] e stava spostando l’interesse dal significante al significato, dagli aspetti squisitamente linguistici a quelli percettivi, ma non solo, questi aspetti non dovevano essere considerati dal punto di vista analitico, compositivo, musicologico, ma immedesimandosi nelle orecchie, nella mente e nel cuore di un ascoltare medio. Vi sono stati vari tentativi di rivalutare l’ascolto (come quello del cosiddetto spettralismo) di cui si è interessata la psicologia della musica, ma tutti sono stati realizzati con un’ermeneutica colta, che guarda il ‘fenomeno musica’ dall’alto di un sapere scrupoloso e para-scientifico; mettersi dalla parte della massa era considerato indegno, ma dagli anni ottanta in avanti chi non ha percorso questa strada si è trovato inevitabilmente fuori dalle grandi traiettorie delle nuove emergenze, dei recenti intrecci relazionali e comunicativi.

Ciò che ha acquisito sempre maggior interesse è il livello superficiale della composizione, non le sue strutture profonde, sintattiche, morfologiche, ma le sue caratteristiche semantiche e pragmatiche ovvero come funzionano all’ascolto in uno specifico contesto. Si è visto che metabolizzare questo è stato molto difficile per gli accademici siano essi compositori o interpreti o musicologi o docenti o banali pappagalli.

La tecnica è condizione indispensabile per creare un’opera d’arte che deve dar ragione del suo costituirsi, del suo come, ma anche e soprattutto del suo cosa e del suo perché (non in maniera letterale ma vissuta). Il moderno sia nella sua versione strutturalistica sia nel versante opposto dell’opera aperta e aleatoria ha prodotto un’opera dicente il dire, ma l’opera d’arte dev’essere ‘semplicemente’ un dire argomentato, un ponte che viene gettato per comunicare. Attenzione: comunicare significa entrare in comunità, nella comunità degli ascoltatori, è differente dall’esprimersi che ha un significato individuale[16]. Molti compositori si esprimono – ammesso che sappiano cosa dire e perché – ovvero dicono la loro, ma si parlano addosso in quanto non hanno un vero auditorio, esternano le loro cose ad amici e parenti, alla risibile cerchia degli addetti ai lavori. Questa esecrabile sorta di compositori ha (avuto) la tragica responsabilità del distacco che si è perpetuato fra la musica contemporanea[17] e il pubblico e sono sopravvissuti grazie a un giro di manifestazioni sovvenzionate spesso con i soli soldi pubblici (senza quasi mai mettersi alla prova di un pubblico pagante).

 Questi compositori dovrebbero fare come il protagonista che dà il titolo all’opera di Pfitzer Palestrina il quale si domanda “a che scopo?” Se scrivono per se stessi o per esternare un mero esercizio tecnico-formale ogni discorso si chiude nell’autoreferenzialità e al massimo se ne apre uno psicanalitico, se invece vogliono comunicare hanno completamente sbagliato strada e devono riposizionarsi, perché la via intrapresa li porta, per usare un’espressione di Boulez, ai “confini con le terre fertili.” Il deserto si trova spesso proprio nei luoghi istituzionali, come le università e i conservatori, ma attenzione il posto fiorito e florido non si trova nei luccicanti foyer o sugli schermi televisivi e cinematografici o sulle pagine dei mass-media, è un luogo della mente dove storia e geografia s’intrecciano a esigenze etiche vissute, le sole che si possono far garanti di rispondere alla domanda “a che scopo?”, allo scopo di dialogare con gli altri, in un vero scambio di energie e di idee, di passioni e di progetti, seguendo il saggio il quale dice che l’arte non è fine a se stessa ma ci è data per fare la vita più bella e più consapevole[18]. Il viaggio più importante non è dunque quello che ci porta da un sito all’altro ma quello che apre la mente e il cuore e che ci porta verso un luogo che sulle mappe non è segnato, dove abita la creatività..
           


Da Renzo Cresti, Fare musica oggi, Del Bucchia, Viareggio 2011.


[1] L’architettura degli anni settanta è molto indicativa: sempre meno legata ai grandi racconti e sempre più all’utilizzo del computer nella progettazione, un’utilizzazione che delega a programmi pre-formati la risoluzione meccanica del progetto, cosa che porta a una sorta di accademia globale, nella quale la ricerca della personificazione lascia il posto a un’accozzaglia di stilemi i più disparati, cosa che fa dire ad Arthur Danto che l’arte è finita, intendendo, in realtà, la fine dell’estetica, poiché non vi sono più regole vincolanti a indicare cosa debba essere un’opera d’arte, da qui l’esigenza che l’estetica si contragga in etica.
[2] Il kitsch si ritrova in architettura e nel design (affidato a meccanismi computerizzati), in pittura e nella scultura-installazioni, fino a prodotti che ricordano gli storici pasticci dell’opera veneziana seicentesca, come il recente fenomeno degli Spoken world americani (ma anche londinesi e parigini), insulsi alfieri della paccottiglia più sfrenata che mischia rap e opera lirica, siglette televisive e citazioni dalla Beat Generation, con la quale però nulla hanno da condividere. Storia e attualità si confondono, in una nevrosi dell’immediato che porta a consumare rapidamente idee ed esperienze. Nulla di più lontano dalla saggezza, dalla lentezza di un pensiero in profondità, indagato senza alcuna concessione.
[3] La transavanguardia è fenomeno pittorico e italiano: nasce a Taormina (nel 1979, mostra Opere fatte ad arte), a Milano (1979, Il nuovo contesto), a Venezia (1980, Biennale), a Bologna (1980, I nuovi-nuovi), a Roma (1982, Avanguardia Transavanguardia), a Genova, Ravenna e a Modena (nella Galleria di Emilio Mazzoli): i pittori sono Sandro Chia, Enzo Cucchi, Francesco Clemente, Nicola De Maria e Mimmo Paladino, questo gruppo-nongruppo costituirà un punto di riferimento per tutti gli anni ottanta, non solo per la pittura ma per gli ambienti culturali in genere. La prima fase viene definita della transavanguardia calda e sconfina in Europa e poi in America (imponendo un modello italiano, come non avveniva dai tempi del Rinascimento). Una seconda fase, quella della transavanguardia fredda, prende quindi il sopravvento, lavorando sempre sulla citazione, però non più su modelli para-espressionistici, ma su riferimenti concettuali e costruttivistici. Queste esperienze negano ogni utopia, ogni possibile, ci vogliono dire che non esiste un altrove, ma che c’è solo il dato di fatto della storia dell’arte, la quale può essere (s)montata e re-interpretata in mille modi (anche fantasiosi e stuzzicanti) e costituisce il solo nostro orizzonte. In questa impostazione si nasconde però un pericolo perché l’adeguamento e il pragmatismo hanno sempre portato all’accademismo.
[4] Come dimostrano le antologie Il pubblico della poesia, curata nel 1971 da Berardinelli e Cordelli, La parola innamorata pubblicata nel 1978 da Pontiggia e da Di Mauro, Poesia italiana degli anni Settanta, a cura di Porta, uscita nel 1979, Lo sparviero sul pugno di Lanuzza del 1987: in molti dei testi pubblicati si nota la presa di distanza dallo sperimentalismo per approdare a quelle Poesie scritte col lapis dell’allora giovane Moretti (alle quali si aggiunse “da cancellare con la gomma”).  Altro che neo-romantici, questi col vero romanticismo nulla hanno a che fare, ribellione e dolore, sofferenze e ansie, pessimismo e ossessioni non le troviamo proprio, sono state sostituite da una placida accettazione dell’esistente.
[5] Si usa questa parola con un’accezione laica e nel suo significato più ampio e generico, del resto per ogni compositore citato acquista un senso diverso.
[6] Il festival «Luglio Musica» di Certaldo fu da me diretto dal 1981 al 1984, da qui passarono la stragrande maggioranza degli allora giovani compositori; contemporaneamente diressi anche, insieme ad Aldo Brizzi, il festival «Proposte musicali» di Acqui Terme, dove si svolse una nutrita e animatissima tavola rotonda sul tema affiorante del neo-romanticismo.
[7] Prassi pluristilistiche si erano avute anche negli anni sessanta, ma in chiave caustica o di protesta (soprattutto attorno al ’68) o comunque che prendevano le distanze dal fare comune, mentre nel postmoderno l’importante è proprio il riferimento alla koiné in quanto suono già sentito, è la stucchevole utilizzazione dell’esistente che deve farsi garante di un ascolto senza problemi (socialmente regressivo in quanto non fa pensare, non pone domande).
[8] Nella sua conferenza al New England Conservatory del 10 marzo del 1993, Ligeti così si esprimeva: «Scrivere melodie, anche melodie atonali, era assolutamente tabù. Ritmi periodici e pulsazioni regolari erano impossibili. La musica doveva essere a priori. Funzionò finché fu una novità, poi divenne vieta. Ma non si può tornare semplicemente alla tonalità, non è la via giusta. Dobbiamo trovare un modo per non tornare indietro senza proseguire sul cammino dell’avanguardia. Sono in una prigione: un muro è l’avanguardia, l’altra è il passato, e io voglio fuggire.»
[9] C. Calabrese, Il minimalismo, rivista «Pietraserena» nn. 34/35, Signa, aprile 1998. Negli anni ottanta, non solo in america, ma in tutto il mondo industrializzato, si afferma la yuppie-generation o no-generation o video-generation.
[10] Riprendendo le considerazioni di Lyotard utilizziamo il termine ipermoderno per indicare il superamento, la trasfigurazione della contrapposizione fra moderno e postmoderno, in questo scavalcamento e metamorfosi si perdono i tratti ideologici e si acquista un libero pragmatismo.
[11] A. Baricco, Il nostro futuro salvato dai barbari, in La repubblica, 26 agosto 2010, pp. 30: «L’errore non era tanto credere in un senso ultimo, quanto relegarlo in profondità. […] Il senso si stava spostando ad abitare la superficie delle evidenze e delle cose. Non spariva si spostava.»
[12] Su queste problematiche cfr. R. Cresti, L’arte innocente, con cdrom, Rugginenti, Milano 2004.
[13] Non è un caso che fra le prime 100 università al mondo, per qualità dell’insegnamento, non vi sia alcuna università italiana (la prima è la Statale di Milano al 136° posto!). Fra l’insegnamento della musica e la società si verifica un distacco simile a quello che avviene in generale fra le discipline scientifiche e il mondo del lavoro, purtroppo l’impostazione generale e il corpo docente del sistema scolastico è troppo spesso impreparato ad affrontare con prontezza e agilità le esigenza culturali che sempre si rinnovano, impreparazione grave perché si riversa sui giovani i quali vengono preparati, di decennio in decennio, allo stesso modo.
[14] M. Beghelli, La retorica del rituale nel melodramma ottocentesco, Istituto nazionale di studi verdiani, Parma 2003, p. 16.
[15] C. Geertz, Art as a cultural system, in Modern language notes, XCI/6, 1976, tradotto in italiano L’arte come sistema culturale, in Antropologia interpretativa, il Mulino, Bologna  1988, p. 151: «Occorre volgere i poteri semiotici della teoria semiotica – sia di Peirce, Saussure, Lévi-Strauss o Goodman – da un’investigazione dei segni in astratto ad una investigazione degli stessi nel loro habitat naturale: il mondo comune in cui gli uomini guardano, nominano, ascoltano e fanno.»
[16] Cfr. R. Cresti, Abitare la creatività, in «Codice 602», rivista dell’Istituto Superiore di Studi Musicali “L. Boccherini” di Lucca, n. 5, Lucca, novembre 2009.
[17] Cfr. R. Cresti, Il concetto di musica contemporanea, in Contemporaneo, Ernesto Paleani Editore, Cagli 2006.
[18] La bellezza non salverà di certo il mondo, ma ci aiuta a riflettere e a prendere le distanze dalle brutture che ci circondano, dalle mostruosità imposte dall’inciviltà, dalla disarmonia del mondo.



Alla memoria di Stefano Scodanibbio

 





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