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Come abitare il proprio tempo?
Sulle difficoltà di abitare il proprio tempo
 Un problema di posizionamento

 
 
«Non si può tornare semplicemente alla tonalità, non è la via giusta.
Dobbiamo trovare un modo per non tornare indietro
senza proseguire sul cammino dell’avanguardia.»
(Ligeti, conferenza al New England Conservatory, 1993)
 
 
 
La Neue Musik, uno sguardo retrospettivo[1]
 
Lo strutturalismo degli anni quaranta-settanta del secolo scorso è l’ultima propaggine del moderno[2], ‘ultima’ nel senso di strada maestra non certo come fase finale, in quanto perdura ancor oggi, intrecciandosi con altre e più forti tendenze. Varie furono le tipologie strutturalistiche, da quelle antropologiche che hanno il loro padre putativo in Lévi-Strauss, a quelle generative, trasformazionali e altro (Deliége, Eco, Lotman, Mukarovskij, Nattiez…). La priorità data all’analisi,[3] in prospettiva funzionale, semiologia e sociologica, è in genere la costante degli studiosi che hanno tentato la comparazione musica=lingua, guidata da teorie del segno che sono diventate sempre più problematiche. Questo ambito di studi fu determinante per lo strutturalismo musicale, il quale ha avuto sostanzialmente 4 fasi: la prima dal 1946, istituzione dei corsi estivi a Darmstadt, al 1953, quando iniziarono le esperienze personalizzate; la seconda dal 1954 al 1958 anno del seminario di Cage ai Ferienkurse; la terza fino al 1967 anno in cui Stockhausen scrisse Hymnen, dando il via a un processo centrifugo che abbandona la purezza stilistica e l’omogeneità di scrittura weberniana; infine la lunga e meno pregnante quarta fase ch’è quella che perdura fino a oggi e che non è più rappresentativa dello stile strutturalista in senso pieno.

In Italia gli anni importanti per la cultura di stampo formalista sono spostati un po’ più avanti rispetto a quelli europei, raggiungono l’apice dal 1956 al 1963: a Milano si stampa la rivista «Il Verri» che si riallaccia all’illuminismo lombardo, al neo-razionalismo di Geymonat e all’esistenzialismo positivo di Abbagnano; seguono le riviste «Officina»[4], impostata sul marxismo critico, e «Il Menabò», fondata da Vittorini (dopo l’esperienza de «Il Politecnico»). Sempre a Milano si forma un gruppo di poeti e intellettuali che comprende Arbasino, Balestrini, Eco, Manganelli, Pagliarini, Porta; viene fondato il primo studio di fonologia alla RAI grazie a Maderna, Berio e Rognoni, nasce la rassegna di concerti Incontri musicali, affiancati anche da una rivista che porta lo stesso nome (stampata del 1956 al 1960 e che sarebbe dovuta uscire in più lingue). Studi di musica elettronica si formano anche a Roma, nel 1957, con Guaccero e Vlad; a Firenze, nel 1960, con Grossi e Vittorio Gelmetti, di lì a poco prenderà vita la rivista «Ordini», fondata da Guaccero, Macchi ed Evangelisti, poi si formerà l’importante associazione Nuova Consonanza. Anche a Bologna esiste un gruppo di intellettuali di primo piano quali Barilli, Curi, Guglielmi. A Palermo sono attive le Settimane Internazionali di Nuova Musica, fondate da Titone nel 1960 e affiancate dalla rivista «Collage» (1963-70), situazioni a cui partecipano Carapezza e Rognoni. Sempre a Palermo[5] si forma il «Gruppo 63» nel quale Guglielmi, Sanguineti e Barilli incarnano le tre tendenze principali: la prima formalistica e a-ideologica, la seconda concettuale e linguistica, la terza fenomenologia e neopositivista.

Da ricordare che nel 1958 Gadda edita Quer pasticciaccio, nel 1961 esce l’antologia I Nuovissimi e l’anno seguente Eco pubblica Opera aperta, lavori che influenzano tutta la cultura dell’epoca.
Nel secondo dopoguerra il rigorismo formale poteva essere legittimato sul piano tecnico dalle possibilità linguistiche lasciate aperte dalle ultime opere di Schoenberg e dalla produzione di Webern; sul piano ideologico poteva essere giustificato dal tentare di reagire razionalmente alle atroci assurdità della guerra appena conclusasi; mentre sul piano culturale poteva essere motivato dal riallacciare l’universalismo post-weberniano alle epistemologie normative, nate qualche anno prima e che sulla metà del secolo si stavano irrigidendo in atteggiamenti schematici (fisica relativistica e quantistica, nuova genetica, teoria dell’informazione etc.). Il desiderio di ordine si manifesta sempre dopo i periodi bellici, è un giustificato bisogno di serenità e di costruire la pace: riequilibrare, in un assetto logico e funzionale, la dysharmonia mundi. Questo avviene col neo-classicismo che si afferma dopo la prima guerra mondiale e avviene anche nel secondo dopoguerra, tanto più dopo l’Entartet Musik (cui sono assimilati Schoenberg, Weill, Hindemith, K?enek, Eiseler e altri artisti sgraditi alla dittatura). Soprattutto in Germania la nuova ideologia dell’avanguardia vuole ripartire da zero, dichiarandosi fedele a un rappel à l’ordre che nulla concede al di fuori della sua logica stringente.

La cosiddetta Neue Musik è caratterizzata da un’ostinata avversione a tutto ciò che può turbare l’asettico universalismo sonoro, l’elemento contrario è inserito programmaticamente e quindi nullificato (come avviene col rumore o con l’alea). La serie s’identifica con l’idea unificatrice, un ulteriore omaggio della cultura tedesca alla memoria totalizzante di Hegel. L’unicum cromatico è incaricato, per mezzo delle trasformazioni successive, di tutta l’organizzazione del brano, il quale deve derivare dalla serie-madre ch’è l’essenza generatrice. Si riconsideri le prassi compositive di cui si serve Boulez, quelle legate alla tecnica ad espansione (Seconda sonata, Marteau) e quelle basate sulla tecnica panseriale (Polyphonie X, Structure I), si tratta comunque, pur nella loro diversità, di prassi compositive intese come formule chimiche: del numero, della struttura e della tecnologia[6] non si può affermare la verità, ma solo l’utilità, sono aspetti che non possono assurgere ad arbiter veritatis come pretendeva il pensiero razionalistico[7]. Sembrava che la poetica del quotidiano, come quella predicata dai cageani, avesse potuto polverizzare l’elitarismo della purezza linguistica portando a quella “smilitarizzazione del linguaggio” di cui ha parlato Brown. Ma gran parte della potenza del discorso cageano deriva proprio dalla contra-posizione, ha quindi bisogno del suo polo positivo per deflagare. Uscire da questa impasse è possibile solo facendola esplodere (attraverso nuove emergenze) o implodere (tramite contraddizioni interne) oppure situandosi a latere, come hanno fatto i musicisti più sensibili dalla fine degli anni settanta in poi.

I musicisti che a Darmstadt proclamavano “l’anno zero” erano il prodotto più tipico della vecchia storia (della musica) europea. Alcune date segnano il percorso: nel 1946 iniziano i Corsi estivi e il primo festival che presenta tutta quella musica che fu considerata “degenerata” dal nazismo. Grazie all’intraprendente assessore comunale Steinecke e alla presenza di Messiaen e Leibowitz, Darmstadt diviene una vera e propria “scuola”, instaurando un modello che si è perpetuato fino a oggi, anche se perdendo la forza iniziale. Il richiamo è forte, tanto che molti giovani musicisti di allora sono presenti: Boulez, Stockhausen, Pousseur, Ligeti, Xenakis (per non dire di Cage che rappresentava l’altra faccia della medaglia), gli italiani Maderna, Nono (per un momento anche Berio) e successivamente Togni, Clementi, Donatoni. Il 1948 è l’anno della prima opera che utilizza il serialismo integrale, Three compositions di Milton Babbitt, brano che precede di poco il Mode de valeurs e d’intensités di Messiaen (composto a Darmstadt nel 1949). Nel 1952 viene dato alle stampe l’articolo di Boulez Schoenberg è morto, al quale segue, quattro anni dopo, quello di Pousseur Da Schoenberg a Webern: questi due testi codificano la preminenza del pensiero e della prassi di Webern rispetto a quella (del primo) Schoenberg. Gli anni cinquanta, in nome di una concezione evoluzionistica del linguaggio, e con l’attrazione verso la purezza dello stile, svelano l’aspetto più aridamente dottrinario dell’asse Darmstadt-Parigi, con la clarté francese riaffermante, in chiave di formalismo positivista, il concetto sferico di opera.

Nel 1953, anno dei festeggiamenti per il settantesimo anniversario della nascita di Webern, i lavori di Boulez, Stockhausen e Nono iniziano a prendere delle fisionomie particolari e sempre più personali. Comincia un processo centrifugo che si distacca dalla purezza cristallina del post-webernismo. Stockhausen è il primo a intraprendere vie nuove: tecnica dei gruppi, stereofonia, musica elettronica e altre tecniche sperimentali. Nono pone il problema di fornire un valore semantico alle asettiche strutture, abbinandole a testi e a immagini realistiche. In ogni caso l’asse centrale su cui ruota tutto il decennio è quella che vede la tecnica e la tecnologia come fonte d’ispirazione: la cibernetica e la teoria dell’informazione vengono insegnate da Mayer-Eppler al giovane Stockhausen che se ne ricorderà quando metterà a punto i grappoli di suoni statisticamente variabili in Gesang der Junglinge. Il compositore americano, di origine russa, Joseph Schillinger, nel suo System of Musical Composition del 1946, utilizza sistemi matematici; la serie di Fibonacci viene adoperata da Nono ne Il canto sospeso (1956); inoltre il calcolo delle probabilità e la nozione di massa sono usate da Xenakis, per esempio in Pithoprakta del 1956: questi sono solo alcuni esempi eclatanti di ciò che è il furore tecnologico e scientifico di stampo franco-tedesco, che si placa nei compositori italiani presenti a Darmstadt, mentre viene rifiutato in toto da quelli che rimangono all’interno del tradizionale modo d’intendere e di produrre l’opera, dai post-veristi ai neo-classici: da questi compositori l’abbinamento fra scienza e umanesimo è visto nell’ottica dell’espressività melodica ed è il secondo termine a prevalere sul primo, anche con il ricorso alla musica applicata (il teatro di Chailly o quello di Rota per esempio). Per i compositori più tradizionali è pertinente la critica lanciata da Heidegger di mancanza di radicalità del pensiero umanistico.

La morfologia dominante, almeno fino a tutti gli anni settanta del secolo scorso, deriva dall’impostazione strutturalistica e tende a ricostruire il linguaggio partendo dalla microstruttura e passando, per gradi consequenziali, a livelli costitutivi superiori. Questi passaggi non sono facili da ascoltare e spesso neanche da capire (leggendo la partitura), tanto da far affermare a Nicolas Ruwert, nel suo Contradictions du langage serial[8], apparso nel 1959 in epoca cruciale, che vi è un’incongruenza nel rapporto fra la complessità del livello progettuale e le articolazioni indifferenziate che portano a negare l’ascolto, infatti se il sistema garantisce coerenza nel governo di tutti gli elementi che lo compongono, non dà altrettanto garanzie dal punto di vista percettivo. Per questa ragione, nello stesso momento in cui i compositori seriali affermano l’anno zero della storia della musica e iniziano i Ferienkurse di Darmstadt, cominciano pure i primi processi centrifughi. I grandi compositori (che sono grandi proprio perché attraversano le problematiche prima e meglio di altri), come Stockhausen, Boulez, Maderna, Nono e Berio si posero l’interrogativo di come dare un senso sonoro al loro operare, compiendo delle scelte all’interno del sistema compositivo in funzione dell’ascolto, inserendo quindi il libero arbitrio dell’orecchio che «dava aria al sistema» come disse Boulez, scelte che devono rendere udibili i percorsi e le fasi del tempo/spazio musicale: per esempio la nozione di formante in Boulez o la contrapposizione fra masse e punti in Stockhausen o l’inserimento di elementi significanti in Nono, aspetti che formano una segnaletica d’ascolto che costituisce una sorta di filo rosso a cui l’ascoltatore può attaccarsi. Progressivamente si passa dal concetto di materia (magmatica e indifferenziata) a quello di oggetto (riconoscibile) e da una teoria incentrata su un puro conoscere sperimentale a una poetica della forma e della percezione (riportando l’estetica al suo significato originario di percezione, dal greco aisthetes=che percepisce, recuperando il piano del sensibile).

Il 1958 è l’anno dei seminari di Cage ai Ferienkurse che sono possibili all’interno dello spirito neo-illuministico di Darmstadt, grazie al “tradimento di Boulez” (come si deduce dal carteggio Maderna-Steinecke) che non si presenta a tenere le sue lezioni, Maderna chiede a Stockhausen di sostituire Boulez, ma questi rifiuta, allora chiede a Cage: «ho chiesto telefonicamente a Stockhausen se vuole collaborare» – scrive Steinecke il 10 Agosto 1958 a Maderna – «ha rifiutato, non ha tempo! Così mi sono convinto che si possono programmare 5 seminari del tutto originali di John Cage, poiché lui è qui e ha poco da fare» (!). Da questo momento inizia una sorta di liberazione del suono dalla struttura, utilizzando, per uscire dalle strette maglie costruite dal pensiero forte, un non-pensiero, l’abbandonarsi all’(ac)cadere degli eventi sonori non predeterminati, tramite il ricorso alla casualità, un lasciarsi andare al flusso dei suoni che va alla ricerca di verità nascoste, assai più del concetto razionalistico il quale non sa seguire il Fatum, ma tenta di inglobarlo nei rassicuranti procedimenti della logica apofantica. Il gesto, diretto e inconscio (come nei surrealisti), è il tramite fra il mondo dei suoni e l’opera dell’uomo, ciò che collega la musica alla vita e alla natura delle cose.

Negli anni sessanta la contra-posizione d’ispirazione cageana percorre una strada parallela e a volte intrecciata a quella dello strutturalismo, strada che porta a diverse diramazioni fra cui quella della concezione dell’opera aperta e del minimalismo. L’oriente, con i suoi small sounds e con l’attrazione verso il fatum, già molto amato da Debussy, inizia a influenzare la cultura occidentale e in special modo quella statunitense della California, dov’è nato Cage.

Lo spostamento dell’asse della riflessione musicale da un’analisi autoreferenziale a considerazioni più generali, recuperando anche il coinvolgimento del pubblico, è un altro aspetto causato dall’intervento di Cage e dei cageani, i quali misero in crisi – oggi si può dire definitivamente – il carattere teleologico della musica dei compositori strutturalistici che avevano fatto della teoria il loro a priori sul quale costruire la comunità scientifica. Al carattere sperimentale si associò una coscienza elitaria che aveva la presunzione di appartenere a un gruppo che avrebbe scritto la nuova storia della musica.

La pretesa formalistica che l’opera non esprime alcunché al di fuori della propria struttura, la tautologia che l’opera è l’opera non vale in quanto A non è solo A, ma è anche più di A ossia nel predicato viene detto di più di quanto viene espresso nel soggetto[9]. Si deve considerare che il valore conoscitivo è sempre maggiore della conoscenza, è un valore che sa più di quanto pensi di sapere. Il pensiero artistico è un filosofare oltre, un conoscere ulteriore, in quanto l’arte è un segno stra-ordinario che rinvia a una pluralità di dimensioni che creano un rapporto arte/mondo del tutto particolare, è una sorta di (f)atto che assomiglia a quello rituale della religio (nel suo significato originario di “legare insieme” ossia di rapportare l’uomo a ciò che oltrepassa il suo esserci). Il musicista compie un’esperienza che lo trascende e lo responsabilizza, il suo operare avviene in un tempo/spazio prossimo a quello mistico e il suo è un gesto d’empietà che redime dalla quotidianità. Misticismo ha parentela con mistero (dal greco mustérion), potremmo dunque dire che la musica ci porta nella prossimità di quel mistero che ciascuno di noi è per se stesso, mistero linguisticamente impraticabile.

I grandi temi sono stati spesso sopraffatti dall’esuberanza del metodo e della tecnica vittoriosa che hanno ridotto lo spazio umano: «l’uomo è così chiamato perché nato dalla terra» (Quintiliano, riferendosi al latino humum). La musica delle avanguardie e neo-tali non ha mai avuto pubblico, perché sdegnosamente ha rifiutato di affrontare l’uomo nella sua nudità. L’opera è frigida se non è fecondata dall'experire, se non si apre alla trascendenza del proprio testo, di un testo che sappia essere rivelativo, che sappia co-esistere, col-loquiare, co-operare.

Nell’apologia del significante si perde il contatto con l’altro, la possibilità di accoglierlo, di recepirlo-per-me. Heidegger, indagando sull’origine dell’opera d’arte, giunge al concetto di opera come origine, inaugurante un mondo nuovo, non solo come segno o come strumento di comunicazione, ma come scoperta delle radici. L’apologia della forma disattende anche al vero senso del termine greco logos che non significa solo pensiero, ragione, calcolo, ma anche discorso, rapporto. Allora il logos, la parola con cui ci esprimiamo, è innanzi tutto dia-logos, vale a dire un pensiero attraverso. Attraverso il suono.

In questi anni, oltre alla “scoperta” della musica americana, si attuano degli interscambi con altri circuiti specialistici, da Musica Viva di Monaco al Domaine Musical di Parigi, dalla Biennale di Venezia alla RAI di Milano, dal festival di Donaueschinger al Festival d’Autunno di Varsavia (la risposta del Patto di Varsavia ai festival occidentali)[10]. Dal 1962 al 1973, la guida dell’Internationales Musikinstitut Darmstadt viene assunta da Ernst Thomas, questo periodo è caratterizzato dal cambio generazionale dei compositori presenti, dalla protesta studentesca e dalla fine dell’ultima grande illusione del novecento, quella del ricominciare daccapo, con una ratio rigorosa e pura.

Le esperienze delle avanguardie degli anni cinquanta-sessanta rappresentano una sorta di passaggio “attraverso lo specchio”, nel quale il flusso di coscienza si ritrova in situazioni inaspettate, in paesaggi apparentemente strani dove le cose paiono o sono casuali, è  conoscenza ulteriore ch’è bene provare sia a livello storico che individuale, chi non l’ha attraversata ha proceduto in maniera più povera.
 


Da Renzo Cresti, Fare musica oggi, Del Bucchia, Viareggio 2011.


[1] Ricordiamo che con il termine Neue Musik s’intende tutto quell’insieme di avvenimenti che riguardano la composizione e l’interpretazione della musica e che presero a formarsi nel secondo dopoguerra del secolo scorso. Lo sguardo retrospettivo non può avere il significato di ricostruire una presunta verità storica, ma di re-interpretarla con l’ottica attuale. Del resto proprio lo storicismo è una delle discipline che ha patito un forte ridimensionamento negli anni recenti. Come ci insegna Proust è il presente che richiama in vita il passato, che altrimenti se ne starebbe nell’oscurità del non-vissuto; la storia viene così ad assumere un senso nuovo, riconoscibile nello scarto fra le varie interpretazioni fatte in anni differenti. Il raccontare oggi la storia di ciò che venne battezzata Nuova Musica (racconto che viene svolto con partecipazione ai fatti della contemporaneità) non può che essere diverso da quello che se ne poteva fare anni addietro. Tentiamo dunque di mettere in atto un pensiero critico attuale per valutare, con le dinamiche culturali del 2010, ciò ch’è avvenuto nel mondo della musica durante il trentennio 1946-1976.
[2] Ricorriamo alle categorie ermeneutiche del moderno e del postmoderno non per fare delle classificazioni, ma con metodologia aperta, per intenderci subito su alcuni concetti chiave e non certo per volontà di schematismo. È risaputo che sia il moderno che il postmoderno sono epoche complesse e stratificate, per eventuali chiarificazioni cfr. i vari libri citati nelle note seguenti. Il 1976 è ovviamente una data simbolica che comunque serve, didatticamente, per demarcare un’epoca di confine dove elementi nuovi si stavano accavallando alla cultura precedente.
[3] Le metodologie analitiche sono proprie quelle che sono rimaste le più attardate nei cambiamenti che si sono succeduti negli anni ottanta e novanta, quando la cultura ha rifiutato il meccanismo della scomposizione e della ricomposizione e ha sempre più richiesto una veloce visione d’insieme funzionale alla ricezione.
[4] Sulle pagine di questa rivista, in pieno clima sperimentale, Pasolini lancia l’accusa di «apoliticismo e di misticismo tecnico», riscontrando nella nuova coppia strutturalismo e art engagé caratteristiche similari a quella di ermetismo e neo-realismo.
[5] A Palermo, occasione di vivaci discussioni è la presenza di Moravia che dà voce a quelle critiche che faranno progressivamente morire l’acceso sperimentalismo ossia l’eccesso di teoria e di formalismo. Montale, in un articolo su «Il Tempo» scriveva: «questi poeti sono piccoli mostri, infarciti di citazioni: conoscono venti, trenta riviste, ma sono poveri di intelligenza. Riescono a guadagnare vendendo la propria disperazione», cfr. R. Cresti, I linguaggi delle arti e della musica. L’e(ste)tica della bellezza, Il Molo, Viareggio 2007.
[6] Niente più della storia della musica elettronica pura è esemplificativo dell’autoreferenzialità, ma anche la musica concreta, che col suo contatto diretto con la quotidianità parrebbe sempre vitale, ha prodotto prove deludenti (almeno fino al 1958-59, quando nello studio parigino di Schaeffer arrivarono compositori come Xenakis, Luc Ferrari, Phillipot). É Stockhausen, soprattutto da Mikrofonie I in avanti, che si pone il problema di ravvivare la musica elettronica (nel doppio senso di renderla più interessante nei concerti dal vivo e di esprimerla in maniera meno astratta e più vivace). Diverso è il discorso sullo studio di fonologia della RAI di Milano, perché sia Maderna sia Berio sia Rognoni, avevano chiara, già all’inizio degli anni cinquanta, la problematica su come sganciare l’elettronica da un’impostazione da laboratorio chimico. Il loro successore Angelo Paccagnini, lo “scontento cosmico” (come ebbe a definirlo Mila), fu uomo impegnato e nostalgico di un mondo migliore mai conosciuto (e forse mai esistito), non a caso ha formato musicisti come Riccardo Sinigaglia, Gaetano Liguori, Riccardo Bianchini e altri che di quell’umanesimo aperto e solidale ne sono ancora oggi dei valenti continuatori.
[7] Secondo Cardew, l’universo totalitario dello strutturalismo vuol far passare l’ordine delle cose come “oggettivo” (ma l’inconfutabilità non si assimila alla verità) per meglio dominare il mondo, secondo questa visione le leggi astratte dell’a priori tecnologico e scientifico, esaltate dai giovani maestri di Darmstadt, sono lo specchio di un totalitarismo culturale.
[8] N. Ruwert, Contraddizioni del linguaggio seriale, in Linguaggio, musica, poesia, Einaudi, Torino 1972, pp. 5-6: «Mi sembra che ogni ascoltatore attento dovrebbe essere colpito da una contraddizione che è insita in una gran parte della musica seriale post-weberniana. Questa musica, assai complessa in via di principio, nel progetto del compositore, appare semplicistica all’ascolto. […] Si annuncia con titoli severi (Polyphonies, Structures, Contrepoints) che fanno presumere una elaborazione strenua. Gli autori si richiamano volentieri a una tradizione di complessità e di rigore, quella dei mottetti isoritmici di Machault e Dufay, quella dell’Arte della fuga, degli ultimi quartetti di Beethoven, di Jeux, delle Etudes pour piano. Nei numerosi commenti con cui accompagnano i loro lavori, essi insistono sui problemi del linguaggio e di struttura, sottolineano la loro volontà di rigore. […] Si ha un bell’ascoltarla e riascoltarla, si ha un bell’essere familiarizzati con il linguaggio di Webern e quello di Debussy, è difficile scorgervi altra cosa che una serie di deflagrazioni sonore, una successione di istanti che si vogliono inauditi ma che arrivano soltanto ad annullarsi fra loro. […] Essa non manca di una certa emozione primitiva, e di una certa bellezza puramente naturale: le sonorità sono  sovente assai belle, prese in se stesse. Ma, valida come sfondo sonoro, come decorazione, questa musica fallisce nella creazione di un discorso autonomo.»
[9] Il compositore, per trovare l’equilibrio fra l’autoreferenzialità dell’opera e il suo aprirsi a una forma di comunicazione, deve instaurare una dialettica tra posizione ed evento, dialettica interna, in quanto la posizione, l’esserci dell’opera, è già evento, fatto accaduto nel mondo. L’atto del comporre è evento di una fissazione che si apre, consentendo all’opera, a un tempo, di essere e divenire, di stare in sé e di relazionarsi al collettivo, allo sguardo che ti sta di fronte. É, in altre parole, ciò che possiamo chiamare la struttura che canta. Il termine posizione rimanda all’istante, come etimo latino di in-stans, stasi in, nella quale l’uomo può scoprirsi nella sua identità che però, a ogni istante, è l’inizio di un rapporto. Se esistenza ed esistente procedono parallelamente, allora l’opera mette in movimento, fin da subito, una relazione con ciò che la eccede, realizzando una epifania del visage altrui.
[10] Si affacciano alla ribalta i compositori dei paesi dell’est, notoriamente attardati sul piano estetico e tecnico-formale dall’imposizione del realismo sociale; fra i più importanti possiamo ricordare Ligeti, Penderecki, Górecki, Lutos?awski, Scnittke, Gubajdulina, Pärt e altri.


 




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