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Testimonianze (parte seconda)
Testimonianze di compositori presenti in Renzo Cresti, Linguaggi della musica e delle arti, Il Molo, Viareggio 2008. Alcune interviste sono parziali per leggerle integralmente prendi il libro.



Umberto Bombardelli, Claudio Josè Boncompagni, Gilberto Bosco, Aldo Brizzi, Elisabetta Brusa, Mario Cesa, Fabio Cifariello Ciardi, Nicola Cisternino, Osvaldo Coluccino, Giampaolo Coral, Luca Cori, Enrico Correggia, Gianvincenzo Cresta




Umberto Bombardelli
In termini generali, mi accorgo di essere istintivamente interessato alle forme di espressione artistica che più mi rimandano a strutture di tipo musicale. Mi sento così attratto dalle arti plastiche (in modo particolare, l'architettura) e dalla pittura (quella meno naturalistica: tribale, medioevale o astratta). Anche il cinema mi attrae molto; non tanto per la sua indubbia valenza spettacolare, ma per l'intelligenza nella concatenazione degli elementi e per i corto-circuiti mentali che caratterizzano in vario grado il cinema d'autore. Venendo alla letteratura, mi piacciono molto le opere dalla vasta e salda architettura (Dostoevskij, Musil, Mann, ...), e quelle dal procedere ''cinematografico'' (Michail Bulgakov, sopra tutti). Anche la poesia mi interessa: Dante, Leopardi e la poesia del Novecento (Caproni, Sanguineti, Testori, Whitman, Eliot, W. Stevens); sempre per i valori architettonici e/o per la concentrazione associativa.
Le poche volte che mi sono trovato a musicare un testo poetico (devo confessare che scrivere per le voci non mi attrae particolarmente, anche se mi riesce abbastanza bene) devo dire che ho sempre cercato di rispettarne il più possibile il senso originale (non amo coloro che ''rivisitando'' un testo lo trasformano in una sorta di specchio nel quale si intravede praticamente solo il Compositore).
Qualche volta mi sono rivolto agli haiku giapponesi, forma poetica che mi colpisce e mi commuove come poche altre. E' il caso di Uni/voice (1998) per sei pianoforti e voce di soprano ad libitum, dove una serie di tre haiku costituisce il testo della parte affidata al soprano, e dei Tre notturni giapponesi (2004) scritti per un ensemble di ragazzi, nei quali una selezione di haiku (tutti relativi al disfacimento delle cose e della vita, contemplato in una serenità stupefacente e consolante) ha determinato il sorgere dentro di me delle varie idee musicali e il sound dei tre brevi componimenti.
Quando invece mi sono trovato davanti ad un testo poetico sacro, mi è subito sembrato naturale giocare sulle iterazioni delle varie sezioni testuali, e di singole parole, per raggiungere una sorta di ''tempo statico'' che potesse creare un clima di contemplazione (devo precisare che non si è trattato di brani destinati alla liturgia). Ho così scritto Et certus sum... (1996) per soprano, coro da camera e orchestra d'archi (il testo è tratto da un'Epistola paolina), e Dictum (1998) per soprano, oboe, violoncello, clavicembalo (testo tratto da L'imitazione di Cristo). In un caso, il testo poetico ha determinato non solamente la sostanza delle idee musicali, ma anche il tragitto formale della composizione. Si tratta di In Gottes Wille (2000). Il brano è basato su un testo poetico di Edith Stein, che raffigura la propria vita (e quella umana, in generale) come una barchetta esposta agli urti e ai pericoli delle onde oceaniche; sia Dio, allora, a tenere saldamente in mano il timone per condurci dove non saremmo altrimenti capaci di arrivare. Questo testo non è mai menzionato nella partitura, neppure nel titolo, e costituisce per me un riferimento molto importante, ma assolutamente privato. Il titolo, invece, nasce da un'associazione mentale con l'Actus Tragicus di Bach e, in esso, con l'uso che egli fa del corale funebre Mit Fried' und Freud' ich fahr' dahin (con pace e con gioia parto da qui) ... in Gottes Wille (secondo la volontà di Dio). Per come recepisco il testo della Stein, la barchetta è in viaggio verso la Morte che, insperabilmente, si rivela essere un approdo di pace e di gioia. Un ultimo brano in cui c'entra la poesia è Visibile, invisibile (2002), ispirato all'omonima poesia di Quasimodo (era una commissione per un convegno milanese della Fondazione Quasimodo). Qui il riferimento al testo è strutturale dato che il brano vuole ''mimare'' lo scomparire e il riapparire del carretto dalle curve della strada.
Un'ultima occasione, che mi ha positivamente stimolato, è stata la commissione di brani organistici ispirati alle opere pittoriche di William Congdon. In quel caso, ho selezionato quattro quadri che mi colpivano particolarmente (uno della produzione newyorchese, uno della prima produzione italiana, uno del periodo greco e uno della produzione ''milanese''). Dall'osservazione insistita dei quadri, volta a immedesimarmi con l'occhio e il cuore dell'Autore, ho ricavato tutte le idee figurali e formali dei 4 Studi su W. Congdon (1999) per organo. Lavoro che mi è veramente piaciuto. Da quanto detto finora, dovrebbe essere abbastanza chiaro il mio approccio al testo poetico: rispetto per il testo e il suo senso, niente giochi di scomposizione sillabica o fonetica, al massimo iterazioni testuali ''barocche''. C'è anche da dire che il mio utilizzo di testi poetici è sempre stato indotto da circostanze esteriori (commissioni), con le eccezioni di Uni/voice e Dictum dove la scelta di un riferimento poetico è stata assolutamente libera.
  
Claudio Josè Boncompagni
Il mio repertorio compositivo è ricco di lavori di ambito teatrale e poetico. Le ultime realizzazioni prevedono inoltre utilizzi di materiali fotografici elaborati da me in modo multimediale, in stretta correlazione con la musica. Molte delle realizzazioni (una ventina per il teatro, altre con testi sacri, poesia del 900' e contemporanea) sono una unica partitura dove gli elementi letterari, gestuali e musicali sono riportati come una polifonia, con utilizzo di segni appositi per gli interpreti. Costituendo questo corpus gran parte del mio repertorio (in tutto un centinaio di composizioni) mi considero un compositore che, anche se molto diversamente dai compositori di opere per il palcoscenico, è grandemente attratto, influenzato dagli ambiti della poesia, della pittura, della danza, del teatro esterni al fattore musicale. Ho partecipato a varie manifestazioni e convegni sull'interdisciplinarietà e sull'unione delle arti, e rimango ancora colpito e mortificato da un'assenza ed un disinteresse e disinformazione sui frutti che tali collaborazioni hanno originato finora, essendo il nostro panorama pittorico, musicale e poetico assolutamente scollato o semmai ad uno stadio primitivo (unione di musiche diverse, per lo più famose con poesie meno famose, in un binomio ripetitivo e didascalico) oppure riconosciuto come messa in scena, nei canoni più o meno stereotipati dell'opera lirica e moderna. Il campo di esplorazione linguistica attraverso le varie forme di linguaggio è invece prolifico e infinito, ben poco ha a che vedere con l'idea di una crisi linguistica. Questa deriva dalla ripetitività delle forme musicali e compositive proposte, che hanno una idea ristretta della musica, come esecuzione di brani molto simili nell'insieme di strumenti e voci, e sempre troppo chiusi. Là dove alcune mie realizzazioni in unione alla voce recitante o al teatro, all'installazione, sono state accolte, e per molte stagioni replicate, si incontra pubblico interessato, critica, riconoscimento che la musica contemporanea è più che mai viva e la proposta varia ed efficace.
La poesia da sempre influenza la struttura formale della composizione, nella poesia del 900' e contemporanea quando è anche poesia sonora il suono è un origine del tutto, del verso poetico che si fa suono, ed il compositore ha un materiale di base per espandere ed avvolgere, creare scenografie fra la figura e lo sfondo, l'interazione (si pensi alle realizzazioni di Nono) a tal proposito citerei il lavoro Incontri su testi di Dino Campana, un ideale vagabondaggio fra luoghi, moti dell'animo, raffigurazioni oniriche, dove la parola del poeta viene ricercata nello stadio in cui essa è generata, si fa suono, si fa struttura significante. Gli strumenti non sono utilizzati in un idea di gruppo, ma come singole voci o più voci compenetratesi, in un idea di polifonia ambientale, eco e rimando, prolungamento lirico ed espressivo dal verso detto o cantato. Il lavoro di compenetrazione della fonetica e del significante culmina nel lavoro Creazione per scrittura vocale registrata, voce recitante e 5 strumenti, del 2002, un successo della stagione invernale “Zauberteatro” in collaborazione con la Diocesi di Firenze, Il comune e il Museo della Specola, eseguito per l'inaugurazione della nuova sala degli scheletri. L'ambientazione qui suggeriva una riflessione sul primo stadio della creazione, sull'albore della terra, degli animali e dell'uomo. La seconda esecuzione fu eseguita due volte nella serata perché nella prima non vi fu modo di contenere il pubblico nella pur grandissima sala, e lo stesso fu suddiviso per le due esecuzioni. L'influsso della poesia e del teatro hanno altresì generato molti brani strumentali che prendono forma dalle trame o su figure del teatro classico quali l'Oberon del Sogno di una notte di mezza Estate o l'Amleto di Shakespeare (Oberon's Plane per quartetto di Clarinetti e The Court of Hamlet per 4 ottoni); il sempre presente Dino Campana (Parafrasi di Incontri, Quasi una Danza per violino solo). In Sonata Dante, per clarinetto basso, soprano e piccolo (unico esecutore) è raccolto tutto il cammino delle Cantiche dell'Alighieri (tre movimenti per l'Inferno, Purgatorio, Paradiso) in un commento interattivo al recitante, che ha costituito uno spettacolo per molti estati fiorentine ed una tournée in Germania per la società Dante.
Il campo figurativo e della scultura mi ha ispirato brani strumentali quali I vetri di Chihuly, per ensemble, II premio al concorso “G. F. Ghedini”, le sculture di vetro ricche di colore riflettente e cangiante, inseriti in luoghi insoliti quali anche i fondali di piscina, da qui una interazione con l'acqua, o mosse dal vento, mi hanno fortemente colpito per l'idea di plasmaticità e interazione con l'ambiente, di installazione, sebbene le stesse prevedano talvolta usi pragmatici (Chihuly è Americano). Un altro brano si ispira al Murales di Pôso intervento dell'Artista Pôso in una chiesa del comprensorio Mugellano, per gruppo da camera. Su una serie di pubblicità di Depèro si crea la Fanfara per il Nuovo Museo scritta per l'inaugurazione del Museo MART di Rovereto, pubblicata in cd dal solista Ivano Ascari. Il progetto completo consta di 4 tavole con citazioni delle pubblicità – le elaborazioni sono composte in una tecnica molto simile a quella di Warhol (ovvero in replica in diverse tonalità) elaborate al computer in modo autonomo ed inserite nella partitura e proiettate su un fondo, mentre un esecutore con la tromba rende vivo il suono sia con lo strumento sia con la voce sia con azione di oggetti, i momenti delle pubblicità del Futurista in modo giocoso e ironico.

Gilberto Bosco
Con la letteratura ho un rapporto intenso e plurimo. Ho musicato, negli anni, testi di molti Autori, assai diversi tra loro (Cesare Pavese, Pier Paolo Pasolini, Christopher Smart, Luis de Argote y Gongora, Gaspara Stampa, Arthur Rimbaud, Emanuel Schikaneder, Robert von Eichendorf, Leon Halevy, Gianfranco Zàccaro, Umberto Saba, Antonio Tabucchi, Emilio Jona, Arthur Tennyson, Bertolt Brecht, Giacomo Leopardi; oltre a qualche testo anonimo, o al lavoro con la librettista della mia unica Opera, Sandra Reberschak). E ho progettato (spesso scrivendo pagine e pagine di musica, talvolta mai riutilizzata) lavori su testi di Charles Baudelaire, di Italo Calvino, di Eugenio Montale, di Robert Luis Stevenson e di alcuni degli autori citati sopra. Con ciascuno di questi testi (e questo è il primo livello del rapporto) ho convissuto lunghi anni, ho progetti di riduzione teatrali annotate in fogli sparsi oppure nei meandri della memoria, ho appunti e frammenti su fogli infilati nei libri, ho bozze di sequenze strutturali e formali infilate tra i miei appunti musicali e, per gli anni più recenti, nascoste in qualche file del computer. Mi domando cosa penserà un amico o un allievo, trovando foglietti infilati nei libri, guardando le righe verticali o i segni trasversali a margine di tanti testi della mia biblioteca (sarà opportuno li cancelli, un qualche giorno!). Ma altri Autori mi hanno stimolato a collegarmi, senza dichiararlo, ai loro temi profondi. E altri testi mi hanno insegnato cose diverse da quelle di cui parlavano: citerò qui soltanto un caso, e lo cito perché non l'ho mai ricordato pur dovendogli molto, quello di Roland Barthes. Infine, molte volte mi sono imbattuto in testi, spesso di assoluta contemporaneità, che toccavano, in pieno o di lato, momenti del mio essere o della mia esperienza compositiva; ma tanto ne ho ricavato stimoli quanto, forse per un mal riposto pudore, non ne ho esplicitato mai nulla. E non interromperò questa tradizione.
La pittura mi ha influenzato molto. Intanto perché ho amici pittori, e spesso ho parlato con loro (più che con colleghi musicisti) di problemi legati alla composizione; ricevendone stimoli e suggerimenti che mi sono sembrati generalmente più acuti di quelli che i miei amici musicisti riuscivano a trasmettermi: ma questo può anche essere un limite della mia ricettività. Dai pittori ho, credo, imparato una "disponibilità" di fronte all'evento, di fronte al manifestarsi di un'opera, di fronte alla sua fisicità, che non ho mai trovato nelle esperienze musicali: di nuovo, solo un mio problema?
L'architettura è il campo che più mi ha intrigato. Credo - lo credo da quando ho iniziato a pensare che la mia vita sarebbe stata quella del compositore - che i due campi artistici (musica e architettura) siano legati insieme, ho tenuto lezioni su elementi in comune, ho usato meccanismi mentali (per la composizione) dopo averli discussi con amici architetti (o interessati all'architettura), ho visitato luoghi ed edifici anche solo per ricavarne stimoli "trasversali". Troppo, per questo solo testo; ma comunque, un rapporto fondamentale
Anche se con i testi poetici ho l'abitudine di convivere a lungo, spesso l'inizio della composizione è in parte irrazionale, inseguendo la sonorità e i suggerimenti puramente musicali di alcune parole (contorno qui un famoso testo di Arnold Schoenberg). Spesso il lavoro si sostanzia, in seguito, in una complicata strategia in cui accenti (sdruccioli, tronchi...), vocali aperte e non, madrigalismi vari entrano in una sorta di polifonia mentale, addensando o rarefacendo momenti diversi della composizione. Ciò che fa la voce o il coro provoca poi dei livelli diversi di echi, secondo l'organico strumentale del brano, spesso quasi delle provocazioni, o dei falsi madrigalismi, o dei giochi (molti probabilmente del tutto privati, validi solo per me) di finte o vere citazioni o allusioni. In due lavori recenti (l'Opera da camera Il gioco delle sorti, andata in scena al Piccolo Regio di Torino anni fa, la Cantata terza su testo di Leopardi per Settembre Musica 2005) ho utilizzato insieme una o più voci parlate e una o più voci cantate, creando qualcosa di simile al tradizionale "concertato", mimando effetti corali, cercando rimbalzi e una prospettiva per così dire "radiofonica" tra i livelli vocali. Un'esperienza che forse si concluderà qui (ho un progetto per voci parlate, coro cantato e strumenti: ma la sua complessità e intricati problemi di diritto d'autore lo faranno probabilmente scivolare tra i progetti non realizzati).
 
Aldo Brizzi
Qual'è il tuo rapporto in generale con la letteratura, con la pittura e con altre forme artistiche? Erotico
Come l'arte e in particolare la poesia entra nella tua musica? Penetration is more than introduction
Compositivamente come ti comporti quando usi un testo? Senza preservativo
 
Elisabetta Brusa
Ho sempre avuto una predilizione per le arti figurative, in particolare per la pittura. Fin da bambina mio padre mi accompagnava ai musei, in special modo al Louvre durante i 3 giorni trascorsi a Parigi in occasione dei regolari viaggi del periodo natalizio da Milano a Londra. Dalle braccia di mio padre alle prime scorrazzate nelle sale fra l'Autoritratto del Durer, Il Sarto del Moroni, l'Erasmus di Holbein, La Belle Ferronière di Leonardo, l'Uomo con Guanto di Tiziano, Il Vecchio con Giovane Ragazzo del Ghirlandaio, Il Codottiero di Antonello da Messina, Baldassarre Castiglione di Raffaello, Sigismondo Malatesta di Piero della Francesca… per non dimenticare la Monna Lisa. Conoscevo a memoria le sale e i nomi dei quadri e dei pittori che mi beavo di memorizzare meglio di anno in anno. Ero istintivamente affascinata dai ritratti davanti ai quali mi soffermavo a lungo e conservo tutt'ora quest'attrazione che mi conquista quando mi capita di visitare i musei di tutto il mondo. A quel tempo mai avrei pensato che tutto questo avrebbe giovato all'ispirazione delle mie composizioni, così come è stato per la letteratura, e solo più tardi avrei compreso il filo comune che unisce tutte le arti. I molteplici aspetti della pittura e della letteratura hanno sempre avuto un immenso influsso sulla mia ispirazione, anche se mi rammarico di non aver avuto lo stesso apporto dalla poesia, a causa dell'ermetismo che sovente l'accompagna. Ho dedicato maggior tempo alla pittura perché la trovavo più immediata e non mi richiedeva il tempo e la concentrazione che inevitabilmente dovevo dedicare all'assimilazione di un capolavoro letterario per la sua intrinseca necessità di elaborazione. Ciònonostante vi sono stati periodi durante i quali la mia mente è stata catturata dalla maestria degli autori nello scrutare nel profondo dell'anima dei personaggi e delle condizioni umane, non tanto da generiche raffigurazioni di situazioni e luoghi.
Il percorso più arduo è stata la ricerca di un metodo comune per la comprensione della personalità e delle caratteristiche dei singoli artisti attraverso un personale sforzo finalizzato alla conoscenza delle loro opere e delle singole inclinazioni alla rappresentazione dell'uomo. E' questo uno dei motivi che mi ha spinto alla composizione di lavori ispirati a personaggi quali Florestan e Merlino. Anche gli animali, in letteratura e pittura, sono stati frequentemente umanizzati e alcune loro “somiglianze” al carattere umano sono presenti in alcune mie composizioni come Favole, La Triade e Messidor. Tutta la mia musica riflette caratteri e emozioni proprie della natura umana, in particolar modo la Marcia Funebre, le due Sinfonie per grande orchestra, Requiescat e Adagio. Non scrivendo come altri compositori musica “oggettiva” tutte riflettono il mio carattere, i momenti particolari che hanno segnato la mia vita e presumibilmente rivelano l'inconscia necessità interiore di fondere le mie esperienze musicali con ciò che più mi ha attratto e tutt'ora attrae delle altre arti.
 
Mario Cesa
Quale è il rapporto con la letteratura, con la pittura e con altre forme artistiche? E' un rapporto di stimolo, di riflessione e di compiacimento creativo quando scorgo identità e non identità poetiche. Come l'arte e in particolare la poesia entra nella tua musica? Può essere un pretesto, un vago input, ma sono per l'autonomia dell'arte dei suoni. Compositivamente come ti comporti quando usi un testo? Non uso testi. La musica è in sé, tutte le arti sono in sé. In generale l'uso di più arti per un progetto creativo denotano solo debolezza e interdipendenza delle stesse.
 
Paola Ciarlantini
Il mio rapporto con la letteratura è sempre stato forte ed intenso, sin dall'infanzia, anzi, credo di possedere una vocazione artistica duplice, poiché letteratura e musica si segmentano dentro di me, dialogano e s'intrecciano in modo subliminale, traendo forza e stimolo l'una dall'altra, fino a che non sento l'esigenza di scrivere, di “creare” in qualche modo, per dar sfogo a questa sollecitazione. Non è un caso che nella dimensione quotidiana insegni Materie letterarie in una scuola superiore, ed alla SSIS, dove si formano futuri insegnanti. La parola scritta realizza la mia dimensione apollinea, la composizione musicale quella dionisiaca, convivo da sempre con questo dualismo; una volta mi sembrava un problema, oggi l'ho accettato come aspetto caratterizzante del mio essere persona ed artista. Con la pittura e le altre arti ho un rapporto di curiosità, di desiderio di esplorazione e di comprensione. Il mio approccio è inizialmente emotivo, ma poi cerco anche di studiare, di penetrare in modo critico quel determinato artista o quella specifica temperie culturale. Nel periodo degli studi sono stata fortunata, in particolare al Liceo classico ho ricevuto una cultura di taglio storicistico ma anche, diremmo oggi, “ermeneutica”, cioè mi è stato insegnato a cogliere collegamenti tra espressioni artistico-culturali apparentemente lontanissime, in riferimento al coevo contesto storico. Per me collegare e scoprire inediti elementi di connessione è quindi normale, per forma mentis; anche come insegnante amo spaziare dalla musica alla letteratura, dalla storia dell'arte alla storia del teatro e del cinema etc., cercando di insegnare ai miei studenti a sapersi muovere in modo critico ed autonomo, senza farsi irretire dal sapere standardizzato. Forse da questa formazione nasce il mio eclettismo che, in fin dei conti, è curiosità culturale. Però, con alcuni artisti ho un rapporto privilegiato, quasi fisico: Caravaggio mi colpisce sempre come un pugno allo stomaco, Toulouse-Lautrec mi disarma per la sua totale assenza di retorica e per la feroce registrazione della realtà, Van Gogh mi esalta per la sua passione coloristica.
Da adolescente scrivevo poesie, talvolta lo faccio ancora oggi in particolari situazioni interiori. A 18 anni ero indecisa se dedicarmi a tempo pieno alla musica o alla poesia, poi andai, piena di timore reverenziale, ad un convegno di poeti professionisti che si teneva a Macerata, mi ricordo che era ospite Dario Bellezza e a un certo punto si parlò di Pasolini, cominciarono a litigare tra loro, ad insultarsi, restai attonita, la mia decisione a favore della musica l'avevo già presa, ma quest'episodio la rafforzò. Ho avuto ed ho tanti amici di penna, nella mia adolescenza recanatese un po' solitaria l'arrivo di una lettera di un amico lontano era un evento che mi colorava la giornata! Scrivendo una lettera, se ho con l'interlocutore un rapporto importante, talvolta riesco come ad andare in trance e far uscire allo scoperto tutto ciò che mi ribolle dentro, in un flusso ininterrotto che quasi s'impadronisce di me. La parola scritta è per me sinonimo di rapporto col Prossimo e col Mondo, di viaggio interiore, di emozione. Tutto questo, sommato all'amore autentico per la lettura (la mia giornata ideale è ancora quella passata interamente a letto a leggere!) entra nella mia creatività musicale, s'impasta con essa. Per cui, il mio rapporto con il testo non è mai asettico, razionale. Quando devo comporre un brano basato su una poesia, è da essa che parto. La esploro, la leggo, ci vivo insieme per settimane, come fosse un compagno segreto. Poi, cerco di estrapolare la musica che racchiude, il suo ritmo interno, fatto di pulsazioni e di pause, leggendola e rileggendola, lasciandola e poi riprendendola. Nono ed altri, come il mio amico Claudio Ambrosini, in fase preparatoria usano colori diversi, io non potrei, frammento invece il testo a matita con cesure, legature, accenti, annotazioni musicali scritte a margine. Bellini diceva che la musica è già nel testo, ed aveva ragione. Naturalmente, l'Autore devo sentirlo vicino, riuscire a entrare in contatto empatico con lui, per questo la ricerca del testo giusto può essere molto lunga. Ed altrettanto lunga è l'incubazione creativa, il periodo in cui con quel testo scelto io vivo e dialogo. E' stato così per Portraits (1987) dalla Spoon River Anthology di Masters: sono entrata davvero dentro la storia delle tre protagoniste, l'ho rivissuta mentre esse stesse me la narravano. Così per L'ultimo canto di Saffo, da Leopardi (1997), in cui sono stata pervasa dall'infelicità esistenziale di Saffo e del poeta e, come un attore che entra nel personaggio e per qualche tempo non riesce a distaccarsene, sono stata male. Ho composto quel brano, anche in pieno giorno, con un filo di luce, solo dopo mi sono accorta che volevo stare io stessa quasi al buio, per rispetto a Saffo e Leopardi, per comunicare più intensamente con quel testo. Così è avvenuto per L'incendiario (1996), in quel caso cercando di entrare nelle radici della forza polemica e della protesta civile di Palazzeschi, che in quel periodo, politicamente e culturalmente parlando, era anche la mia.
Quando uso un testo lo rispetto. Profondamente, con umiltà, con attenzione, conscia del dono grande che il poeta in quel momento mi sta facendo entrando nella mia musica e, oserei aggiungere, nella mia vita. La mia preoccupazione principale è quella di riuscire ad intuire la cifra interiore da cui esso è scaturito e di non stravolgerla. Sono io al servizio del testo, non il contrario, la mia posizione è, in un certo senso, monteverdiana. Quando ho musicato Leopardi, e si trattava di una sfida enorme e difficile, ho scelto Saffo proprio perché avrei potuto valorizzarne la dimensione di monologo teatrale, sottesa al componimento. Leopardi è perfetto in sé, non possiamo “aggiungere” la nostra musica a qualcosa che, creativamente parlando, è un universo conchiuso. Questo non significa che allora si debbano scegliere poeti meno validi, voglio dire che il compositore ha il dovere e la necessità di trovare una sua via per dialogare con il testo, rispettandone l'ispirazione, la metrica, il “respiro”. Non si può giustapporre il nostro linguaggio a quello di un altro artista, non si può agire per addizione, ma per sintesi, per corto circuito, anche emotivo. Per questo, i miei pezzi per voce basati su liriche sono tanto diversi tra loro: in In un punto del tempo (1986) dedicato al mio Maestro prematuramente scomparso Antonio Bacchelli e basato su una silloge da me predisposta di poesie di Mario Luzi sul tema della caducità della vita, la musica entra in punta di piedi e così come si è rivelata, si dissolve nel silenzio, umile di fronte all'interiorità luminosa, direi mistica, del poeta; la musicalità de L'incendiario è invece sopra le righe, chi parla è un poeta giovanissimo che pretende di cambiare il mondo, ci dà un violento e salutare scrollone, chiama gli intellettuali a raccolta e urla loro di assolvere il loro mandato di denuncia, allo scopo di rivificare con nuova linfa una società ormai incancrenita dalle convenzioni e dall'utilitarismo spicciolo. Mi sono divertita ad assecondarlo, con le percussioni dell'amica Kiki Dellisanti, cui il pezzo è dedicato! Credo che il processo creativo che stabilisco con il testo arrivi, in qualche modo, anche al pubblico, e il silenzio assoluto con cui i miei brani per voce (ma non solo) sono in genere ascoltati mi ripaga di ogni fatica. Il pubblico è per me un altro importante referente, mi chiedo sempre, componendo, quale sia il modo via via più efficace per fargli arrivare quel determinato testo. Lo stesso atteggiamento, di esplorazione empatica in ambito di poetica e di ricerca ai fini del saper porgere al pubblico in ambito creativo caratterizza il mio rapporto con sollecitazioni provenienti da altre arti, come la pittura e, recentemente, il cinema, campo nel quale sto vivendo un bel sodalizio artistico con l'amico regista Andrea Anconetani.
Un' ultima annotazione riguarda il mio modo di organizzare ciò che deve essere musicato: volte sento l'esigenza io stessa di predisporre il cammino, e lego i testi poetici per affinità, o contrasto, o secondo un tema a me caro. Ho iniziato a farlo con Duds of emerald (1984) da Emily Dickinson, per voce sola femminile, ed il percorso mi ha affascinato. Così, l'ho fatto spesso in brani successivi. A volte scrivo io stessa i testi, come per Il contastorie (1985), dove propongo tre fiabe, Il soldatino di stagno, Pollicino e La bella addormentata nel bosco, secondo un esperimento ritmico: la voce recitante è declamata sulla musica, cioè la parte è tutta scritta e solfeggiabile, ma la bravura dell'interprete consiste nel proporre al pubblico il testo in modo del tutto naturale. Recentemente sono tornata al mio antico amore per la fiaba riscrivendo i testi di Pinocchio per un bellissimo lavoro compositivo dedicato ai bambini della mia amica Sara Torquati. Ci stiamo ancora lavorando, mi piace questo stare dietro le quinte e lavorare su un testo per un altro compositore, è un'esperienza molto stimolante. Il mio sogno nel cassetto è scrivere un'Opera su un libretto mio, sono da anni alla ricerca del soggetto ideale. Anche come musicologa sto attualmente lavorando sui libretti dell'Ottocento, bisogna imparare dai grandi Maestri! Spero tanto che il mio rapporto con la poesia e la parola scritta in generale riesca a sfociare, un giorno, in questo senso.
 
Fabio Cifariello Ciardi
Gli incontri della mia musica con le altre arti sono sempre un'occasione per una sfida affatto diversa da quelle proprie della musica strumentale, qualsiasi sia il contesto del lavoro. Per la musica applicata la sfida è la solita: cercare l'integrazione con l'immagine o la parola vestendo i panni del servitore, prestando servizio a chi occupa, comunque, l'orizzonte primario della ricezione. Negli incontri della musica d'arte con parole o immagini invece, la mia ricerca vorrebbe tendere verso un contrappunto che è anche un “rubarsi la scena” continuo e vicendevole, un altalenante e instabile interscambio nel ruolo di oggetto privilegiato della fruizione.
Quando da spettatore mi sembra di ritrovare un simile vibrante equilibrio in lavori di altri, ho la sensazione di un esperienza estetica altra: ognuna delle arti coinvolte finisce per eccitare anche dei sensi ‘sbagliati', e in momenti per giunta inaspettati o apparentemente inopportuni. Sarà perché ogni esperienza estetica è in fondo polisensoriale, ma in quei casi il contrappunto diventa un cortocircuito, una sorta di esplosione che determina un nuovo e strano riallineamento dei sensi. Sento fortemente il bisogno degli attimi in cui ciò accade o può accadere, come compositore e come fruitore; forse è lì che ci si apre alla rivelazione e non più solo alla sensazione di comprendere.
 
Nicola Cisternino
In fondo tutte le arti o forme espressive necessarie all'uomo, sono modalità estrinseche o manifestazioni di una necessità fondamentale, quella di riuscire a farne immagini, suoni, forme ed espressioni che permettano di dare forma nello spazio e nel tempo al pensiero, ai sogni, al non visto. Sono Vie, tutte le forme artistiche ed espressive, dei tracciati grazie ai quali l'uomo trascende la sua esistenza per coltivare la conoscenza. La Musica è certamente una Via privilegiata, avvolgente, un Via molto larga che è in grado di comprendere anche molte altre espressioni… ed è, metaforicamente, soprattutto una Via non pienamente tracciata, una sorta di solco, di segno accennato, grazie al quale si sa che è possibile andare. La Via non è la strada, non sono i contorni, i confini, le possibili conformazioni della linea, dal viottolo al tratturo polveroso, alla comoda strada asfaltata: la Via … è il camminare, l'andare che è proprio ciò che ognuno coltiva con il proprio cammino. Caminantes hay caminos hay que caminar citava la celebre iscrizione sulle pietre di un chiostro trecentesco di Toledo che folgorò letteralmente Nono negli anni Ottanta. Se la Musica dunque è una Via della conoscenza – come Scelsi amava dire – le altre arti lo sono altrettanto. Nel mio caso, nel mio cammino sulla Via del suono e della musica, sono soprattutto le forme che si svelano attraverso lo sguardo, che riguardano cioè soprattutto l'occhio e l'immagine, i linguaggi con i quali mi confronto continuamente. Mi sembra che si possa dire che il suono è una sorta di vuoto d'aria che costituisce il tempo (l'invisibile) di un pieno che è lo spazio, i volumi, le architetture (il visibile); è una manifestazione intrinseca l'una dell'altra. L'aria, in quanto suono, frequenza modulata, modella il nostro spazio, volume, habitat nel quale nasciamo, viviamo e moriamo; habitat nel quale si sviluppano le relazioni (quelle dei corpi, delle masse) ma anche le idee, i pensieri. In quanto uomini siamo in grado di porci in ascolto stando su quella soglia, a tratti impercettibile e silenziosa, a tratti immensa e rumorosa, che delimita il pieno del visibile dal vuoto dell'invisibile. Ma questo vuoto è incommensurabile e soprattutto ascoltabile.
“L'arte cambia perché cambia il nostro concetto sul modo in cui opera la natura” dirà John Cage a Perugia in uno dei suoi illuminanti interventi, poche settimane prima di morire, citando Ananda Coomaraswamy; è quel cambiamento, quella trasformazione, o meglio ancora quella trasmutazione che permetterebbe all'uomo- caminantes che si pone in cammino (in ascolto) di entrare nelle più recondite profondità della Natura; in fondo nel cercare suoni – così come Cage cercava funghi – siamo aperti all'inatteso, colti dallo stupore e dalla meraviglia allorquando riconosciamo un suono (una voce… quella materna si dirà o, quella di Dio, chissà!). In fondo è una sorta di necessità pre-linguistica che ci muove in maniera quasi sciamanica o da rabdomante alla ricerca di una forma (anche un suono lo è); e la ricerca di una forma, che è la ricerca di una relazione, di una connessione con l'esperienza (percettiva nella sua globalità linguistica, dall'orecchio all'occhio, al tatto e così di seguito…).
Se mi è immediatamente prossima la ricerca di quel centro-cuore del suono scelsiano, lo è altrettanto l'anacoretica ricerca della forma di Brancusi, con la sua straordinaria capacità e dedizione di levigare all'infinito la materia (non certo per renderla esteticamente più bella e lucente) quanto soprattutto per accarezzarla, quel levigare con le proprie mani alla ricerca di quel contatto – il Mana sciamanico (o anima della forma) - come nel caso della sua straordinaria scultura pour les aveugles giovanile, prima opera tattile della storia delle forme.
Il Brancusi del Mistero (“l'arte fa nascere le idee, non le riproduce. Questo vuol dire che un'opera d'arte vera nasce intuitivamente senza una ragione sconosciuta prima, perché l'arte è la ragione stessa e non si può spiegare a priori ”) e del Silenzio (assoluta la sua Tavola del silenzio, assieme alla Colonna senza fine, a Tirgu-Jiu), quel silenzio-polvere-immobilità (non statuaria) delle opere di Morandi, o del tintinnio filiforme di un Melotti, o ancora le profondità abissali dei monocromi di Yves Klein o delle superfici infinite, al di la delle loro dimensioni di un Rothko. Un mondo che osserva gli uomini attraverso le forme della quotidianità che tanto richiamano quelle poetiche a punti (ma quanti ammassi siderali fra un punto-stella e l'altro) weberniane ma ancor più - e ciò non sembri un azzardo- a quelle isolane di Nono. Dunque se l'arte ha il compito di far nascere le idee, ancor più riesce a far nascere suoni e non certo per pura associazione o soltanto per relazioni sinestesiche. E' molto più probabile che quegli uomini – perché certamente era un fenomeno sociale e corale – che disegnavano animali e scene di caccia nelle grotte primitive realizzassero il tutto a ritmo di voci e canti come del resto ancora oggi ci raccontano le culture aborigene dell'Australia – e qui il fatto assume anche dimensioni letterarie – con Le vie dei canti del Tempo del Sogno, come Chatwin ha magicamente raccontato nel suo omonimo libro che è alla base di un ciclo di mie composizioni, alcune realizzate all'Upic di Parigi alla fine degli anni novanta (Xoomij per voce di basso e nastro e A-na-i-li-su per gocce d'acqua e membrane). Dice Bruce Chatwin: "gli aborigeni credono che una terra non cantata sia una terra morta: se i canti vengono dimenticati, infatti, la terra ne morirà. Permettere che questo accada é il peggiore di tutti i delitti possibili." Se dunque quegli uomini graffitavano le caverne con il canto, è molto probabile che non si tratta di ricucire rapporti lontani, tra il suono, l'immagine e il gesto ecc… quanto di riscoprire a priori quanto fosse unito prima di essere scisso (l'idea di cultura per noi occidentali è definita in quanto separazione, divisione e spezzettamento-specializzazione magari per scoprire poi alla fine che di tutti questi pezzi bisognerà farne un rattoppo... che c'entri simbolicamente qualcosa quel mostro-drago che sarà spezzettato ad apertura dello Zauberflöte mozartiano?)
Quanto alla poesia, resta una grande questione poiché il problema della parola-phoné è per me un grande rebus, nel suo possibile uso musicale. E' come se la poesia bastasse a se stessa tanto quanto la musica, il suono. Per questo, quasi biologicamente, non sono affatto interessato alla rappresentazione o a qualsivoglia esperienza di messa in scena della poesia attraverso la musica o, ancora peggio, a farne di ciò scena e/o teatro. Il cinema fa tutto ciò molto meglio. Per me un testo è dunque soprattutto un pre-testo, nel senso che sta prima (la lettura è l'unico esercizio che esercito regolarmente), intorno, dentro alla musica. E' soprattutto l'esperienza della lettura che mi interessa più che l'uso di un testo. Del resto non riesco a comporre suoni e/o a impastare materie - ed ormai è un po' di anni che credo di averlo capito - se non ciò che mi è strettamente necessario, che si manifesta alle mie orecchie-occhi (I Graffiti e le Preghiere), che si rivela a me stesso.
 
Osvaldo Coluccino
Spero che la dichiarazione non suoni troppo affettata: vivo di pane e arte. Certo – uscendo dall'iperbole – ammetto di vivere anche di alcune altre cose, di affetto di gatti ad esempio. Il fatto che io abbia frequentato come “esercizio” sia pittura che musica che poesia (per quest'ultimo caso procurandomi dei calli da cartavetrarmi il viso a ogni paventato struscìo di compiacimento) lo giustifico come necessità di tangere umilmente i segreti di alcuni Maestri. Giotto, Masaccio, Piero, Giorgione, Caravaggio, Vermeer, Cézanne, Morandi, solo per estrarne impudentemente un primo mazzetto (un secondo potrebbe essere Brueghel, Velázquez, Rembrandt, Goya, Bacon), non mi lasciano un giorno in pace; La dolce vita, Otto e mezzo … tornano di sovente a chiamarmi; per la musica voglio rammentarmi qui solo del Beethoven degli ultimi quartetti e delle ultime sonate per pianoforte, poi di Webern, Varèse, Nono. Sento l'espressione artistica di spessore, in qualunque ambito essa attinga e con qualunque linguaggio o tecnica essa proceda, sempre una cosa sola, conduttrice di un unico postulato, fuori da ogni egemonia ideologizzante o religiosa o storicistica, e piuttosto (per appoggiarmi a Deleuze) come valore pre-individuale. Di detta peculiarità ne riparleremo, o ne riparleranno Rimbaud e Mallarmé.
L'arte entra nella mia musica in modo trasversale, pseudo-subliminale. Evito l'esplicito riferimento, come pegno, a opere che hanno inciso fertilmente sulla mia percezione. Succede così che la suggestione ricevuta, per via di carnale frequentazione, lavori su un altro piano e vada ad infondere in modo più radicale il “personale laboratorio creativo”. Mia riconoscenza che, in questo modo, secondo i miei sibillini parametri, dovrebbe valere doppio. Cioè a dire: direttamente ed esclusivamente col mio contributo artistico mi adopero nel tentativo di far sentire ineffabilmente i miei ascendenti pur da diversi campi e il mio amore e debito per essi.
Quando uso un testo, a monte c'è l'idea poetica (l'habitat, l'alone…), la vado a snidare in una più o meno stagionata silloge. In secondo luogo nasce la musica in blanda autonomia giacché un po' bagnata dall'“atmosfera” del testo, musica con spazi ritmici occupati da provvisori vocalizzi (ideali o campionati). In ultimo, io lavoro ad adattare alle note le sillabe; più propriamente direi, oggi, le singole lettere, per via di capitale frammentazione di un pezzo in origine pur sintatticamente e semanticamente impeccabile. Il testo da me prescelto ha sempre una natura iper musicale; ma, tengo a sottolineare, di una “musica del senso”, ossia che contribuisca a far risuonare a più livelli, musica di un significante che tracimi dall'illusione della costipata comprensione razionale o della ricostituzione in un ordine consolatorio.
 
Giampaolo Coral
La letteratura e la pittura hanno avuto un ruolo importantissimo nella mia produzione musicale. Alcuni testi letti da giovanissimo come la biografia di Van Gogh di Irving Stone o quella su Beethoven e Tolstoi di Romain Rolland, credo siano il rizoma psicologico del mio fare artistico. Piu tardi ho scoperto alcuni “mistici” e “ermetici” (Jakob Böhme, Emanuel Swedenborg, Michael Maier….) che mi hanno aperto un mondo di saggezza che ancora oggi cerco di approfondire.
La figura di Gregorio, descritto da Thomas Mann nel L'Eletto, e quella di Adrian Leverkühn, per esempio, mi hanno insegnato molte cose e sono sempre presenti nel mio percorso compositivo. Anche l'esperienza che ho avuto per dieci anni nel teatro di prosa (assolutamente nulla sul piano musicale in quanto solo artigianato, si trattava infatti, nella maggior parte dei casi, di ricostruire delle musiche secondo l'epoca della rappresentazione) mi ha arricchito sul piano culturale, mi ha permesso di conoscere approfonditamente il teatro di Pasolini, Hofmannsthal, Büchner, Kleist, Wedekin, Goldoni, Havel e tanti altri.
Devo dire che il rapporto con il testo è stato molte volte assai conflittuale specie nel periodo in cui cercavo di risolvere alcuni problemi personali, come ha detto Franco Donatoni, sulla difficoltà del comporre, sul “come” e “perché” fare, sulla distinzione tra musica “pura” e “impura” e sul rapporto tra Soggetto e Oggetto.
Sino ad oggi non credo di essere riuscito a trovare una soluzione generale, forse ho anche abbandonato il problema e lascio che ciò che mi viene suggerito venga scritto in (quasi) piena libertà.
Molti quadri (di Paul Klee, di Arnold Böcklin, di Marc Chagall, di Alfred Kubin) e, in anni recenti, alcune ricerche sul processo veglia-sonno-sogno (Gérard de Nerval-René Daumal) mi hanno letteralmente dettato la composizione musicale.
Contrariamente ai libri di letteratura, che leggo ogni giorno, con la poesia ho un contatto molto egoistico. Tutto è condizionato dal mio stato d'animo. Allora cerco di trovare conforto in autori che presumo abbiano avuto una visione del mondo vicino alla mia (Georg Trakl, William Blake, Fernando Pessoa...).
  
Luca Cori
Penso che, più che di un rapporto culturale, nel mio caso io debba parlare di una impossibilità di separazione della musica dalle altre arti. Voglio dire che fin dai primi anni di attività compositiva mi sono reso conto che in qualche modo la distillazione di un'idea, di una struttura, di un processo, di un materiale o di un percorso formale dipendevano in molti casi da suggestioni derivanti direttamente dalla letteratura o dalle arti figurative: queste suggestioni hanno finito sempre per dar vita ad uno almeno degli elementi costitutivi di quella che sarebbe diventata un'opera musicale.
Per questa ragione non saprei dire se esista una musica “pura”, costituita cioè di elementi solo e solamente riconducibili ad un pensiero di tipo musicale; almeno, non nel mio mondo compositivo. Parlando poi di libertà, sono convinto che si possa essere liberi solo ricercando in ogni momento (ossia, per ogni opera che scriviamo) la schiavitù migliore che la nostra condizione di quel momento richiede. Questo vale anche e soprattutto per i riferimenti di cui abbiamo bisogno per produrre, la natura dei quali può non aver nulla a che vedere con ciò che essi produrranno: smettendo di essere riferimenti figurativi, letterari, etc., diventano strutture, processi, materiali o percorsi formali e quindi la loro metabolizzazione all'interno di un meccanismo puramente musicale ne rende indifferente il mondo di origine.
Ho sempre percepito la poesia come una possibilità di fare musica con le parole: è stato quindi automatico per me desiderare frequentemente di usare un testo per le mie composizioni. Il testo (come anche l'idea visiva) è prima di ogni altra cosa un discriminante formale, cioè qualcosa da cui dipende in maniera cruciale la struttura del mio pezzo; in seguito, se la situazione lo permette, ne posso anche derivare altri elementi, procedendo per così dire dal centro alla superficie: dai processi e materiali fino alle più istantanee scritture (i cosiddetti madrigalismi) in modo da utilizzare ogni livello del testo prescelto per formare i corrispondenti livelli dell'opera musicale. La cosa che considero irrinunciabile – senza la quale non avrebbe senso per me scrivere musica con un testo – è la completa metabolizzazione del testo tramite la sua trasformazione in strutture musicali. Solo allora considero effettivamente realizzata quest'unità e solo allora diventa necessario comporla; non sono mai riuscito a lavorare senza questa funzionalizzazione del testo rispetto alla musica, la quale comporta la conseguente funzionalizzazione della musica rispetto al testo.
Detto questo, vi sono infinite varianti all'interno di questo atteggiamento compositivo: ne citerò qualcuna in relazione ai lavori in cui le ho usate. Gli ultimi due lavori, Lyr e Tanzakkord, sono stati realizzati all'interno del progetto Poiéin di Milanocosa. /.../
Lyr (per voce e pianoforte, 2005), su testi di Rita Filomeni, è stato progettato fin dall'inizio in stretta colaborazione con la poetessa: man mano che ne andavo precisando la struttura, grazie ad elementi come la retrogradazione e la sezione aurea, ero in grado di chiedere determinati requisiti ai testi che nel frattempo lei andava scrivendo. Ci siamo così incontrati ad un punto comune: per la poetessa la fine del lavoro, per me l'inizio della stesura vera e propria del pezzo (anche questo, un riflesso del “retrogrado” contenuto nella struttura).
Tanzakkord (per soprano, clarinetto, violoncello e pianoforte, 2006), su testi di Laura Cantelmo, è stato invece un lavoro di decostruzione; gli elementi fondamentali di questi testi sono una tendenza a “velare” di continuo i contenuti espressivi e una grande varietà ritmica. Così, la metabolizzazione musicale di queste componenti è avvenuta tramite la “velatura”, ossia la ricerca di come determinati elementi musicali potessero essere percepiti attraverso altri elementi coesistenti – e tramite il continuo riferimento alla danza, intesa naturalmente come idea di movimento armonico totale.
 
Enrico Correggia
Per il mio rapporto in generale con la letteratura, con la pittura e con altre forme artistiche posso dire che ho una assoluta necessità di incontrarmi continuamente anche con le altre arti, specie con la pittura e la letteratura. Non posso pensare che un musicista non abbia rapporti soprattutto con la letteratura, essenziale supporto alla inventiva musicale. Inoltre, le due forme cameristiche che più amo sono il Quartetto d'archi e il Lied. Trovo che la poesia abbia ispirato molte tra le più belle pagine anche della musica contemporanea, per non parlare dell'ottocentesca produzione di Lieder. Prova del mio amore per la poesia è l'annuale concerto che come Direttore artistico del Festival Antidogma propongo con Lieder richiesti a compositori di tutto il mondo su un poeta particolare, il tutto in collaborazione con il Goethe Institut Turin. Abbiamo ormai più di 50 Lieder scritti per noi su poesie di Hölderlin, Rilke, Goethe, Heine, Bachmann, Brecht e altri. In occasione di questo concerto chiediamo anche ad artisti di presentare installazioni visive nell'ambito del locale del concerto, installazioni che abbiano attinenza al tema musicale. Ho anche voluto un concerto dedicato a Marcel Proust, di cui sono uno dei pochi ad aver letto tutta la Recherche. Personalmente non perdo alcuna possibilità di visitare mostre in ogni parte del mondo.
La poesia entra quasi sempre nella mia produzione. Ultimamente ho scritto solo brani per voce o per ensemble vocale. Ho scritto Musik für das Ende der Tage: Requiem sul ciclo Vision and Prayer di Dylan Thomas. In questi ultimi anni ho scritto brani su testi di William Blake, Rainer Maria Rilke, Ossian, Baudelaire e scriverò una Cantata per coro, baritono e orchestra su testo di Hölderlin e i Nachtliebelieder su testi di poeti tedeschi. Quelli che amo maggiormente sono Hölderlin e Rilke.
Quando scrivo su un testo mi lascio suggestionare completamente dal senso delle parole che metto in musica. Penso che sia ora di tornare al passato almeno per questo atteggiamento: la musica deve, secondo me, interpretare nel modo più significativo possibile l'atmosfera e la dimensione poetica. Spesso nella musica contemporanea, a volte per puro spirito provocatorio, ci si è disinteressati del tutto del testo usato, scrivendo musica che nulla ha a che vedere con il significato delle parole, o addirittura che esprime una dimensione contraria. Trovo ciò assolutamente gratuito e banale.
 
Gianvincenzo Cresta
Mi affascina scrivere musica pensando ad un testo; ho composto diverse partiture legate alla parola, a quella poetica soprattutto e ogni volta è un'esperienza nuova e sempre profonda. La parola mi viene incontro con tutta se stessa, per come è capace di evocare, suggerire, aprire sensi in più direzioni, anche opposte. Solitamente mi avvicino ad un testo lasciandomi cogliere soprattutto emotivamente e poi avvio un duplice processo di analisi: un primo approccio analitico riguarda l'individuazione di una vettorialità semantica, di tutti quegli aspetti strutturali che fanno da ossatura; un secondo approccio riguarda la parola singola e le immagini che da essa si dipanano. In alcuni casi opero una scomposizione del testo per ri-comporlo mutato in una fase successiva.
Dagli esiti della prima istanza analitica derivo il percorso formale che così nasce dal testo, è il testo stesso, mentre dal secondo approccio derivo la texture, l'interna drammaturgia del brano, ma anche il colore generale. La lettura interiore del testo mi suggerisce una dimensione temporale, si tratta di porsi in ascolto del tempo disegnato dalle parole e di tradurre ciò in una temporalità musicale. /.../



Cfr. in questa sezione il saggio L'e(ste)tica





Renzo Cresti - sito ufficiale