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Luigi Dallapiccola, la via italiana alla dodecafonia
La vita italiana alla dodecafonia
 
 
 
Ho scoperto, grazie alle dirette testimonianze di coloro che parteciparono alla "Schola fiorentina" che Luigi Dallapiccola (Pisino d'Istria 1904 - Firenze 1975) fu il punto di riferimento dei compositori fiorentini del dopoguerra (soprattutto Arrigo Benvenuti mi parlava spesso del rapporto che sussisteva - negli anni Cinquanta - fra gli allora giovani compositori fiorentini e Dallapiccola).
 
La mia ritrosia nei confronti del primo Novecento, un periodo che non amo (adesso inizio ad amare meno anche la metà del Novecento, appassionandomi in maniera pressoché esclusiva alla stretta contemporaneità) è stata una delle ragioni che non mi ha fatto avvicinare a Dallapiccola, un'altra è la sua seriosità e i suoi legami con la cultura mitteleuropea che mi pare incarnare il lato peggiore dell'impostazione idealistico-razionale di cui sono insofferente e che mi annoia.
 
Questo non mi impedisce di apprezzare non solo la portata storica della produzione di Dallapiccola, ma anche il suo intrinseco valore morale e linguistico. Me ne sono occupato solo sporadicamente e di recente, come nel 2004, anniversario della nascita, quando ho organizzato una serie di Incontri al mio Conservatorio di Lucca proprio su Dallapiccola, come nel caso della stesura dell'Ipertesto della Storia della musica, La Vita della Musica (che ha un'ampia sezione dedicata alla musica del Novecento italiano), infine, il grosso lavoro su Firenze e la musica italiana del secondo Novecento, è stato un'occasione ulteriore per ripensare al Maestro istriano.

L’infanzia di Luigi Dallapiccola (Pisino d’Istria 1904-Firenze 1975) si svolse all’interno dei confini austro-ungarici, come prima Busoni, i riferimenti al carattere e allo stile della sua musica vanno ricercati nella cultura viennese, anche se dall’Istria, dov’è nato, si trasferì a Firenze, dove insegnò pianoforte complementare al Conservatorio, dal 1934 al 1967, e dove si ritrovò ad essere il punto di riferimento della Schola fiorentina. Dallapiccola legò l’Italia all’Europa agganciandosi direttamente alle esperienze linguistiche della Scuola di Vienna, ma calandole nella realtà italiana, il che significa accettare il discorso dodecafonico, ma non ripeterlo manieristicamente come sistema, anzi vivificarlo con elementi contingenti e particolari. È l’eterna ambizione umanistica alla totalità, che in Italia - da sempre - è universo espressivo e melodico.
 
Verso il 1930, riviste italiane e straniere affermarono senza batter ciglio che “la Germania aveva un solo grande musicista: Paul Hindemith”. […] In Italia non ci furono divieti veri e propri, tutt’al più qualche esteta (critico-compositore, si capisce) accuso pubblicamente l’uno o l’altro dei compositori cosiddetti d’avanguardia di internazionalismo, il che, nel linguaggio corrente di allora, significava antifascista o, più esattamente, comunista. […] Da noi, attuale era considerato il barocco musicale. […] Nel 1935, a Praga, al XIII Festival della Società Internazionale Musica Contemporanea, ebbi la ventura di udire il Concerto op. 24 di Anton Webern, che applaudii perché in esso mi apparve la morale altissima del compositore, non perché l’avessi compreso in quanto musica. […] Nello stesso Festival, sentii per la prima volta le Variazioni op. 31 di Schönberg.[1]
 
Dopo una serie di lavori inediti per voce (1925-30), compresi in un ambito neo-modale (come Per la sera della Befana del 1928), Dallapiccola si accostò a forme neo classiche (Partita del 1932) che soddisfano il suo gusto per la purificazione sonora, ottenuta attraverso un tessuto polifonico trasparente. La Partita è la prima opera di vaste proporzioni (nella stesso anno pure Petrassi scrisse una Partita) e utilizza un linguaggio di base modale, ma con inserimenti cromatici, spesso sotto forma di tremoli, un tic che sarà ricorrente. Si tratta di atteggiamenti neo-madrigalistici assai comuni, in quegli anni, nell’ambiente italiano, una modalità polifonica che, proprio come nella polifonia italiana rinascimentale, mette in evidenza la melodia quale veicolo espressivo, un’impostazione comunicativa alla quale Dallapiccola, come del resto quasi tutti i compositori italiani, rimarranno fedeli.

In Divertimento in 4 esercizi (1934) Dallapiccola dimostra di preferire un organico assai ristretto e formato da solisti: secondo l’esempio del Pierrot Lunaire di Schönberg, cinque strumenti dialogano intimamente seguendo lo schema della suite. La voce non declama in modo monocorde come nelle opere precedenti (ad esempio nella Lirica del Kalewala del 1930), ma vi è un espandersi lirico ad ampi, ma morbidi intervalli, di forte impronta drammatica, come in Berg. Nel 1935 Dallapiccola terminò la seconda serie dei Cori di Michelangelo (la prima serie, meno significativa, era stata composta due anni prima), v’è qui un’essenzialità di scrittura di assoluto rigore, basata sulla pentafonia e su armonie ottenute per sovrapposizioni di quarte. Una terza serie dei Cori venne composta nel 1936, qui Dallapiccola approfondisce il trattamento dell’accordo per quarte, prima di tipo diatonico, ora cromatico per effetto di alternanze fra quarte giuste ed eccedenti.

Dallapiccola appartiene alla numerosa schiera dei compositori-pianisti, questo strumento lo riguardò quotidianamente sia dal punto di vista didattico sia come esecutore (specie in duo col violinista Materassi), ma lo interessò assai meno come autore, infatti, se si escludono le giovanili Fiuri de Tapo e Caligo del 1926 occorre attendere il 1935 per trovare un’altra opera pianistica, Musica per tre pianoforti, pezzo che ricorre al modo percussivo di suonare lo strumento, un uso che a Dallapiccola non viene da Bartòk e da Stravinskij, ma piuttosto dallo studio di Musorgskij: il suono è inteso come unità autonoma, il discorso polifonico, di tipo neo-modale con inserimenti cromatici, deve essere spazializzato piazzando i tre pianoforti a distanza l’uno dall’altro. Nel 1939 Dallapiccola scrisse il Piccolo Concerto per Muriel Meuvreux, dalla curiosa caratteristica di essere nato per un piccolo esecutore (Muriel è difatti una bambina). Per completare la panoramica pianistica basterà citare la Sonatina canonica su i Capricci di Paganini (1943) e il Quaderno musicale di Annalibera (1952), quest’ultimo molto interessante per la mancanza di ogni dialettica musicale, incentrato sugli agglomerati armonici e sui registri timbrici, in un raffinato gioco di rifrazioni.

Il linguaggio sostanzialmente modale iniziò a contaminarsi col cromatismo nelle Tre laudi (1937) ed è proprio attraverso questa progressiva contaminazione che Dallapiccola giunse alla dodecafonia. L’attuazione conforme al metodo dodecafonico risale alle Liriche greche, composte dal 1942 al 1945.[2] La dodecafonia viene vista come una regola (sociale) che disciplina la libertà creativa (individuale). Il metodo di Schönberg viene ammorbidito in un’inflessione più duttile; pur conservando la lucidità d’impostazione, il realismo latino non viene meno e con esso l’attaccamento a una quotidianità ben poco idealizzata; prende corpo così la protesta contro il fascismo nei Canti di prigionia (1941), Dallapiccola stava attendendo alla sua prima opera teatrale, Volo di notte, quando iniziò a circolare la voce che il fascismo volesse dare il via a una campagna razzista e antisemita; in quel periodo la dodecafonia attraeva il giovane maestro ma ne aveva una conoscenza parziale, gli parve che una serie dodecafonica potesse servire come tema principale, poi maturò l’idea di unire i singoli brani della composizione non solo con un tema di 12 suoni ma anche con un frammento del Dies irae, infatti, i Canti di prigionia tecnicamente fanno ricorso a una continua dialettica fra metodo dodecafonico e plasticità della linea melodica, con la predilezione per la scrittura corale. La protesta sociale si esprime anche nell’opera in un atto Volo di notte (1939), dalla vocalità ardua ma drammaticamente comunicativa. Poco dopo, Dallapiccola mette mano alla disperata ricerca di libertà de Il Prigioniero (1948), dove la tematica espressionista dell’angoscia coincide con l’adozione della tecnica delle dodici note, all’interno delle quali si inseriscono movenze diatoniche e momenti di canto, spiragli di una (possibile?) nuova dignità umana. Dodecafonia come rigore, rigore come scelta di vita.

Nel dopoguerra, Dallapiccola studiò e assimilò lo stile weberniano, ovviamente non come stavano facendo i giovani compositori che si riunivano a Darmstadt ma piegandolo a una poetica narrativa e religiosa. Scrive la sacra rappresentazione Job (1950), dove la scrittura vocale, segnatamente quella corale, è di impervia difficoltà per ricorso ai grandi salti di tipo weberniano; è la prima volta che Dallapiccola fa ricorso a questo tipo di scrittura. Dopo i Goethe Lieder (1953) e i Canti di liberazione (1955), in cui si radicalizza la tecnica seriale ed esili linee melodiche si risolvono in momenti timbrici, Dallapiccola procedette a un’estrema riduzione e concentrazione degli elementi strutturali, mettendo a punto forme terse e nette, rarefatte nel tessuto sonoro e taglienti nella loro timbrica, espressivamente interrogative sul destino dell’umanità, come nell’opera Ulisse (1962), uniforme nei suoi nuclei dodecafonici e adamantini, dove le brevi frasi melodiche restano indipendenti dal tessuto armonico; il pagano Ulisse diventa una figura portatrice di fede cristiana. Il ricorso alla voce caratterizza anche altre composizioni orchestrali del dopoguerra, come il suggestivo An Mathilde (1951) nel quale la poesia di Heine è cantata dolorosamente da una voce sfuggente sopra un’armonia rarefatta, o come in Preghiere (1962) o in Commiato (1972).

Per la musica orchestrale vanno almeno citate la gentile Piccola musica notturna (1954) basata su una scrittura puntillistica con richiami tonali ed estremamente soffice nei giochi timbrici, e il Concerto per la notte di Natale (1956) composto con un linguaggio più confidente e discorsivo. Se Petrassi si avvicinò all’impostazione para-classica, Dallapiccola fu vicino alla linea ermetica. A questa etica si ricollegò l’arte impegnata di Nono; all’umanesimo dallapiccoliano si rifecero pure Maderna e Bussotti (e in generale la cosiddetta Schola Fiorentina); all’impostazione seriale si riallacciò Togni.[3] Le ragioni di Dallapiccola furono quelle di aderire a un rigore etico che si espresse in forme disciplinate, un’intransigenza stilistica che non compromise l’aflatto lirico, inteso come speranza di un’umanità rasserenata.
 


[1] Luigi Dallapiccola, Sulla strada della dodecafonia, in «Aut-Aut» n. 1, 1951.
[2] È questo un periodo in cui il maestro si rivolse alla cultura greca, come nel balletto Marsia, nelle Liriche greche, nei Sei Carmi di Alceo e nelle Due liriche di Ancreonte.
[3] Renzo Cresti, La Vita della Musica, ipertesto di Storia della Musica, Feeria, Panzano in Chianti 2008. E da Enciclopedia Italiana dei Compositori Contemporanei, a cura di Renzo Cresti, III vol., 10 Cd, Pagano, Napoli 1999-2000. 
Cfr. Renzo Cresti, La Vita della Musica, ipertesto di Storia della Musica, Feeria, Panzano in Chianti 2008. E da Enciclopedia Italiana dei Compositori Contemporanei, a cura di Renzo Cresti, III vol., 10 Cd, Pagano, Napoli 1999-2000.



http://www.vieusseux.fi.it/biblio/fondi/dallapiccola.html

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