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Mario Cesa, del ritmo e del mito
Del ritmo e del mito
 
 

Ho conosciuto Mario Cesa quando fui chiamato ad Avellino per consegnargli un premio, era il 1998, da allora è diventato un caro amico e uno dei miei compositori preferiti: la sua convivialità (che si mischia a un tratto romaticheggiante e vago) è contagiosa, così come la sua personalissima poetica, a mio avviso una delle più originali e vive dell'intero panorama internazionale. Sono sempre felice quando lo incontro, ad Avellino, a casa mia, in giro per l'Italia, felice di condividere con lui tematiche culturali e felice di constatare che vi sono ancora, in un panorama non sempre onesto come quello della vita (musicale) contemporanea, uomini e musicisti con vere e profonde radici.

Ci ha lasciato il 12 giugno 2021, mi ha subito avvertito l'amico Gianvincenzo Cresta e ho provato un grande dolore perché era un uomo unico nella sua bizzarria, verità esistenziale, originalità compositiva.

L'ultima volta che ho avuto il piacere di rivederlo, è stato nella primavera del 2019, quando sono stato al Conservatorio di Avellino. Lui aveva preparato per me una diecina di dischetti dove aveva inciso tutta la sua produzione. Sono stato commosso.
 
Mario Cesa, avellinese classe 1940, aveva già individuato la sua poetica negli anni Settanta, una poetica assolutamente originale che consiste nel metabolizzare la ritualità della musica popolare trasfigurata in una scrittura e in un linguaggio colto. Si sa che, specialmente in Italia, il rapporto fra cultura popolare e musica dotta è (stato) quasi assente, Cesa è uno dei pochi Autori per il quale l'humus della civiltà popolare, antica e sempre presente, ha fecondato il suo pensiero e la prassi compositiva. Dagli anni Settanta il Maestro ha affinato i modi di trasfigurazione, ma non si è allontanato dalla sua poetica.
 
Il confronto della musica di Cesa con le tendenze generali che si sono manifestate nella musica del secondo dopoguerra ci dimostra la personale strada percorsa dal Maestro che inserisce il suo far musica all'interno della cultura antropologica, quella della memoria collettiva legata alla ritualità sacro/profana della festa, che affonda le sue radice nei tempi arcaici, la musica diviene dimora vitale che accoglie le tracce degli uomini. Al contrario della troppa musica accademica che si ascolta in giro (anche con firme importanti), quella di Cesa si chiede sempre il perché e il per cosa viene scritta, non si pone solo il problema formale del come, ma anche quello delle motivazioni e delle finalità. Questo Cesa lo comunica con ciò che Gianvincenzo Cresta (1) chiama permeabilità delle strutture: "in brani come Pellegrinaggio o Feste paesane il fatto reale è contestualmente ispirazione, mezzo e fine poetico, non c'è scollatura fra idea e realizzazione, grazie alla permeabilità delle strutture, ovvero alla continua fusione dei due agenti l'uno poetico e l'altro artigianale".
 
La struttura trasparente è implicita in tutta la musica di Cesa. E' talmente trasparente, come nei 3 pezzi per un concerto, che prende vita direttamente dal gesto. E' un lavoro grafico: Cesa ha sempre fatto ricorso a grafie particolari, continuando anche in tempi recenti, quando le notazioni anomale sono state riportate alla normalizzazione (cfr. scheda su Bussotti). Nel segno/gesto si coglie quel quid anarcoide e quell'aspirazione all'attimo fuggente che conferiscono il dono della freschezza, della libertà legata al tratto estemporaneo. "Tat" è la parola dalla quale Goethe fa precipitare la tragedia di Faust, traducendo il termine logos con Azione. Da questo punto di vista la notazione gestuale esprime appieno sia il carattere della musica sia quello dell'uomo Cesa.
 
Chi si avvicina alla musica di Mario Cesa sarà sorpreso di non trovarvi quegli astratti intellettualismi, così tipici di tanta musica novecentesca, né di trovarvi le noiose banalità di chi ha reagito all'impegno e alla struttura in nome di un neo-romanticismo en rose. Invece scoprirà che il suono ha un cuore che pulsa in sintonia con l'ascoltatore. Il logos di Cesa è un dia-logos, un continuo dialogo con la Terra. Il suono ha una mente, che organizza, e un cuore che batte: la musica di Cesa freme di vita, pulsa di passioni e gronda sudore, ci parla dell'uomo e dei suoi rapporti con la società, per farlo usa la metafora della festa, nella quale l'identità di un popolo si sposa con l'universalità dell'arte (ma si potrebbe anche dire che l'universalità dell'arte si ottiene solo quando questa si sposa con la cultura antropologica).
 
La festa è un'allegoria della società, delle sue lotte e dei suoi incontri, immagini traslate sempre presenti nella musica di Cesa, a volte in modo esplicito, altre sottinteso. La cerimonia trasfigura il reale e crea i possibili, sia etici, sia musicali (dai rumori naturali del pianto e del riso ai canti e alle musiche vere e proprie), in tal senso la festa è una vera archeologia della sonorità e dell'emotività umana. Cesa ha della musica un'idea che la lega alla natura (dell'uomo), a un ambiente pregno di umori, realizzando una sorta di work in regress, che vuole riportare i suoni alle radici antropologiche primordiali, come accade per il pittore Claudio Costache si rifà a forme ataviche, sorgive e allegoriche (come appunto in Cesa la Festa). Il rapporto con la tradizione è conditio sine qua non. La continuità in evoluzione è la chiave della reale comunicazione, base solida per volare, scoprire, capire ed esprimere, tale trasformazione a forma di spirale ha come perno la ritualità.
 
"La musica, per essere tale, deve comunicare, evocare, farsi memoria storica, ritualizzarsi" - dice Cesa a Claudia Iandolo - "il popolo, nella maschera della festa, esorcizza il dolore di sempre" (2). Per seguire questo programma Cesa, utilizzando una scrittura spesso non convenzionale e ricorrendo ai quarti di toni, punta al risultato generale, al senso finale dell'opera, alla macrostruttura che dà il significato complessivo, relazionato anche a temi extra-musicali. E' dal senso che si va verso i segni ed è la significazione globale che guida gli interpreti a realizzare le sfumature tecnico-espressive.
 
La vena ironica e anarcoide (che, per certi versi, ricorda quella di Arrigo Benvenuti), un sound concreto e mediterraneo, fanno della musica di Cesa un (f)atto antropologico e piacevolissimo. Si veda Sapori d'antiche terre, ispirato dalle passeggiate nei luoghi dove maturano i vitigni del Greco e del Fiano, musicalmente i filari vengono tradotti nel fluire formale del brano che si dispone come una sorta di concerto grosso, dove l'andare e il venire del concertino rappresenta l'avvicinarsi e l'allontanarsi dalle vigne, luoghi di piacere e di duro lavoro. In latino c'è correlazione fra "cultura" e "coltivare": cultura è, in primis, l'arte del coltivare la terra e l'agricoltura è la prima delle arti, quella su cui dovrebbero basarsi tutte le altre. Fin dalle Georgiche di Virgilio la natura funge da archetipo di conoscenza per l'uomo, la vita e l'arte.
 
La musica di Cesa è l'"essere-nel-mondo" di Heidegger, che si caratterizza dal prendersi cura dell'Altro, della gente, del popolo, del prossimo, del vicino. E' un "essere-l'uno-con-l'altro", un avere, qui, insieme agli altri, le cose, condividerle nello stesso momento e nello spazio comune, auspicando l'"essere-l'uno-per-l'altro". La musica di Cesa parla davvero un Noi collettivo. E' nella collettività che si forma l'esserci e nel sociale si delimita e si articola. E' una musica del "si", di ciò che si sente, che si dice, che si ascolta: da questo apparente anonimato del "si", dalla quotidianità, prende forma il "noi" e, infine l'"io" (non vale l'egoistico percorso inverso, che parte romanticamente dall'io per determinare l'altro e il collettivo).
 
Il raffronto con Nono pone Cesa su un piano originale, in quanto la scrittura del Nono engagé rimaneva d'impronta post-weberniana, affiancata a elementi semantici (come una poesia di Pavese o la proiezione di diapositive sulla guerra) utilizzati come segnaletica espressiva, mentre di tutt'altro stampo è l'impostazione e ben altri i risultati espressivi di Cesa. Sono quelli non della cronaca socio-politica, ma della cultura antropologica, della memoria collettiva legata alla ritualità sacra e profana a un tempo della festa, che affonda le sue radici nei tempi arcaici, espressività legata inscindibilmente alle motivazioni profonde di un uomo/musicista inserito dentro la collettività, che non la guarda da fuori e la giudica, ma la partecipa, la penetra, la vive dal profondo.
 
L'energia che la musica di Cesa sprigiona sta tutta racchiusa nel gesto iniziale dal quale sgorga il flusso vitale della musica. E' un gesto deciso dal quale precipitano suoni altrettanto decisi: Tubulcan, il mitico inventore della musica, era un fabbro e batteva forte sull'incudine! Per esemplificare analizziamo brevemente alcune composizioni, iniziamo dai i 3 pezzi del 1989. L'Andante iniziale prende il via con un accordo tenuto al pianoforte, con una sola nota che viene ripetuta, e suoni strappati agli altri strumenti (violino, viola, violoncello e contrabbasso) conferiscono un andamento grave, scandendo un ritmo da marcia funebre. Alcune sezioni devono essere ripetute 7 volte e la ripetizione conferisce un che di inesorabile, come l'avvicinarsi della morte (sempre presente nella festa). All'improvviso appare un Veloce (il ritmo viene regolato su carta quadrettata) che presenta una lunga e drammatica serie di note discendenti (intonate oltreché dagli archi anche da corno, clarinetto basso, trombone e sassofono), con tremoli, frullati e glissati (tipici "effetti" ai quali Cesa ricorre costantemente) che poi si spostano verso l'acuto, creando un caotico e frenetico momento ossessivo, dopo il quale si presenta un Lento dai toni densi e profondi, con note oscillanti, vibrate e glissate, che inizia con sax, contrabbasso e pianoforte e prosegue con l'inserimento progressivo di tutti gli strumenti che conducono a un nuovo momento fragoroso, dove le particolarità di emissione sonora sono molteplici e creano uno spettro timbrico mutevolissimo: la bravura tecnica e soprattutto la partecipazione emotiva degli interpreti è qui decisiva. Il cluster ben simboleggia il caos interiore. La festa è funebre. A nulla vale la ripresa di energia, a nervi scoperti, l'urlo emesso dai fiati che entrano a distanza di semitono, il dolore (s)finisce. Il lamento si spegne nel silenzio. La festa è stata tragicamente celebrata.
 
Le storie di sempre è una composizione scritta a cavallo fra il 1996 e il 1997; si tratta di un lavoro maturo, di grande forza, dal gesto sicuro e di sicuro impatto. L'organico è indicato in "30 timbri e 78 tessiture strumentali" che creano un caleidoscopio di colori e un tappeto sonoro intrecciato fitto fitto, ma soprattutto danno origine a una libera gestualità che rimanda agli infiniti gesti della festa, l'evento che (ac)cade sul continuum della vita, sulle storie di sempre. Densi accordi al pianoforte e all'arpa, sui quali entrano, uno alla volta e divisi, gli archi, realizzano subito il caotico clima espressivo del brano: è un caos primordiale, non mistico ma archetipico, tecnicamente formato dalla intrecciata filigrana delle 78 tessiture strumentali, da oscillazioni su bicordi, glissati, frullati (anche di tutti i fiati contemporaneamente), cluster etc. Una certa durezza e spigolosità nulla hanno di studiato e intellettuale, ma si tratta di una robustezza popolana che deriva dall'immediatezza del gesto. Il caos è quello della festa, dell'uomo insieme agli altri, un caotico eppur regolato intreccio di rapporti, un "amministrato sociale" direbbe Adorno, dove le voci del singolo faticano a uscire. Musicalmente tutto questo viene reso da un andamento mosso e fluido, violentemente ritmico e spesso non definito a livello intervallare. Dall'incontro/scontro, a volte fin brutale, dei 30 timbri escono delle isole espressive felici, dolcemente melanconiche o ironiche. Pagine puntillistiche o accordali (per esempio di tutti gli archi assieme) si alternano, con dinamiche variegate; anche i tempi alternano l'andamento veloce con alcune sezioni lente, dov'è possibile individuare meglio le parti e l'intervallistica: l'andare più lentamente consente il soffermarsi dell'orecchio sui particolari. E' proprio la contrapposizione degli elementi che rende vivo questo pezzo, straboccante di energia, sembra di assistere a una festa arcaica, dove Dioniso e Apollo ballano insieme. Un pericolo: una musica del genere richiede interpreti motivati, pena uno svilimento delle tensioni vitali: come tutta la musica grafica e/o gestuale lega il suo essere, nel bene e nel male, all'esecuzione.
 
La tematica dei Moduli è parallela a quella della festa e dell'attrazione verso la cultura popolare. Fin dal 1979, Cesa scrive un Modulo per pianoforte su ispirazione pop, ne seguiranno altri nel 1972, poi nel 1976 gli strani Micromodulalritmoldia per flauto e pianoforte, quindi i Micromodularia del 1978, i Danz-Moduli (1983), i Moduli A-B-A (1984), Moduli folk (1985) e altri, fino ai recenti Moduli itineranti e Mikromoduli del 2000 e a Modulo per disklavier, scritto per ed eseguito alla Biennale di Venezia del 2001. Nuove sono le sonorità legate al discklavier, intatta la forza energetica e la concezione poetica. Tre sono i righi musicali, uno per la parte in automatico e due per l'esecutore, il quale deve munirsi di due pezzi di metallo che, quando indicato, utilizzerà con la mano destra per imitare l'effetto sega sulla corda, mentre con la sinistra per richiamare i colpi di un martello. Due tipi di cluster (uno che parte dal Re e arriva al Sol e l'altro che inizia un semitono sopra per arrivare al SOLdiesis) completano il ricorso a momenti rumoristici, davvero molto coinvolgenti. Il ripetersi insistito di sezioni ritmico-intervallari conferisce al pezzo un certo sapore minimal che però è solo esteriore, magari accentuato dalla timbrica post-Modern del discklavier, la sostanza del brano è costituita dal gesto compositivo tipico di Cesa, quello dell'incontro fra parti che derivano dalla gestualità: i segmenti isolati che devono essere ripetuti, come i punti sonori che riempiono, uguali/differenti, le battute, sono sempre le voci della collettività, ora più meccaniche perché più meccanici sono i rapporti interpersonali, in un'(in)civiltà dove la festa viene surrogata in falsi rapporti fra individui sempre più omologati. La musica di Cesa assume così anche il valore di resistenza culturale contro l'avanzamento del banale.
 
Sulla scia di Modulo nascono, con gesto ampio e istintivo, i Murales, 6 brani per disklavier o per più pianoforti che alternano andamenti recitati e veloci; l'ironia costituisce la forza di questo lavoro, insieme a un po' di sarcasmo e a molto dinamismo, e insieme alla consueta partecipazione emotiva. Procedimenti, tecniche, ri-definizioni e concetti scaturiscono dalla ritualità ispirativa. Sono lavori paradossali, deformi eppur composti, tragicomici e a un tempo fieri della loro schiettezza, grotteschi e seri, bizzarri e un po' capricciosi, fatti di tre dosi di intelligenza e una di lasciarsi andare. Questo è Cesa.

Nel volume L'arte innocente Pierluigi Basso scrive della musica di Cesa che è "all'insegna dell'apertura, della libera cittadinanza di tutti i materiali. /.../ I passaggi musicali non seguono mai una logica del montaggio, ma piuttosto delle torsioni/inversioni". Moreno Andreatta scrive che Cesa cerca di "riprodurre il disordine tipico di ogni sistema caotico al fine di poterne controllare la macro e la micro forma. /.../ A differenza di Mencherini non sembra però interessato a spingere la riflessione verso le cause prime di questi fenomeni caotici". Paola Ciarlantini tenta di fornire alcune parole-chiave per la lettura dell'opera di Cesa: "arte come petracciata - Ritualità ispirativa - Istinto - Intuito - Progettualità creativa solo individuale - Progettualità organizzativa anche collettiva - Il presente e il passato come modelli e miti da abbatere o ridimensionare nella continuità". Fiorella Sassanelli scrive che Mario Cesa "è completamente immerso in questo mondo, proprio nel momento in cui ricorre ai riti popolari per dirci, in musica, delle emozioni umane. /.../ Il repertorio popolare è trasfigurato, come il suo approccio al reale. /.../ Come se la musica si divertisse a indagare gli interstizi, giocando a perdersi, magari per provare una gioia più grande nel momento del ritrovamento di se stessa." 


NOTE
1) Gianvincenzo Cresta, Mario Cesa, le possibilità del molteplice, Rugginenti, Milano 2001.
 2) Claudia Iandolo, Scheda su Mario Cesa, in Autoanalisi dei Compositori Italiani Contemporanei, a cura di Renzo Cresti, Pagano, Napoli 1992. 
 
  

Da Renzo Cresti, L'Arte innocente, con Cdrom, Rugginenti, Milano 2004.


 
http://www.mediateca.marche.it/teche_musicali/musicisti_compositori/14%20-%20Mario%20Cesa.pdf







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