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Luciano Berio, musica onnivora
Musica onnivora
 
 

“e qui comincia il tuo desiderio,
che è il delirio del mio desiderio:
la musica è il desiderio dei desideri”
(E. Sanguineti, per la Sequenza per flauto)
 
  
Il 27 Maggio 2003 è morto Luciano Berio, era è nato a Oneglia nel 1925, faceva dunque parte di quella importante schiera di compositori che, nati negli anni Venti, si erano affermati durante gli anni Cinquanta: “noi siamo la generazione dell’immediato dopoguerra” – dice il grande amico di Berio, Pierre Boulez – “a posteriori si rendono visibili due conseguenze: trascendere le categorie familiari e, dopo sei anni di guerra, desiderio di conoscere. Cosa resta del punto dui partenza? Il ricordo di un’esperienza comune, un identico senso di necessità”. Quel bisogno interiore che portò la generazione del Venti a superare il “troppo conosciuto e a scoprire il nostro linguaggio”, dice ancora Boulez, in “uno slancio vitale per rimanere in una traiettoria in movimento”(1), impeto che non abbandonerà mai i protagonisti di quella straordinaria stagione artistica. Con Berio scompare uno degli ultimi compositori della generazione dei Maestri: da non molto sono morti Petrassi, Bettinelli, Clementi è rimasto solo Bussotti, fra i maestri, a rappresentare la straordinaria stagione della musica italiana che ebbe inizio nel secondo Dopoguerra.

"Il suo destino di musicista gli fu chiaro fin da quando era ragazzo e l'ha seguito conservando fino all'ultimo la capacità di sorprendersi e di sorprendere, di non dare niente di scontato, neanche i successi che crescevano ovunque", così la seconda moglie Talia Pecker parla di Berio nel primo decennale della morte: "Non era aggressivo, ma molto determinato. Non sopportava la stupidità, la falsità e le moine". Nel servizio che Leonetta Bentivoglio ha realizzato per "La Repubblica" (del 26 maggio 2013) si dice che la villa di Radicondoli costituiva il luogo prediletto del ritorno del musicista cosmopolita e in quella temuta produceva un vino di cui andava fiero.

Proprio alla fine della guerra, nel 1945, Berio entrò al Conservatorio di Milano, dove studiò con Ghedini, dimostrando subito una notevole capacità di assimilazione dei vari modelli tecnico-stilistici e un’altrettanto rilevante attitudine a coglierne le virtualità di trasformazione. L’incontro, poi il matrimonio (1950), con Cathy Barberian e una borsa di studio per andare negli Stati Uniti a studiare con Dallapiccola lo rese esperto nella lingua inglese la quale costituirà la strada maestra verso lo studio della fonetica e della linguistica. Straordinario approdo a questa problematica è Thema (omaggio a Joyce) del 1958: “la scrittura di Joyce non è un compimento su qualcosa: è quel qualcosa”, diceva Beckett, così Berio, per cogliere quel qualcosa, fa convergere musica e parola a un livello primordiale, facendo coincidere, per esempio, le omatopee “Imperththn thnthnthn” con i trilli, “Chips, picking chips” agli staccati, le parole “A sail! A veil awawa upun the waves” ai glissati e così via. Da questa impostazione, che carica di significati il fonema, nasceranno anche altri progetti, fra cui Visage (1961), per suoni elettronici e la voce della Barberian (Cathy fu la prima moglie), come era anche Thema, quindi A-Ronne (1975, che affronta anche l’argomento del teatro nella parola, documentario radiofonico su testi di Sanguineti (grande amico e collaboratore di Berio), fino alle composizioni più recenti quali There is no tune (1994) e Shofar (1995).
 
Attraverso la linguistica e l’antropologia strutturale, Berio si avvicinò allo Strutturalismo di Darmstadt, una metodologia compositiva che poneva, in quegli anni, un’attenzione fideistica al dirsi, alla realizzazione di un'opera dicente il dire, che parla solo di se stessa, del come è realizzata, esaurendosi nella propria progettualità, senza relazionare il proprio segno all'uomo, senza aprire lo spazio stringente del logos allo spazio collettivo dell'ethos. Berio comprese, fin da subito, che la progettualità non poteva essere racchiusa negli angusti spazi del formalismo, ma doveva co-esistere con differenti discipline, col-loquiare con l’ascoltatore al fine di realizzare un'opera plurale. Già i suoi primi lavori, così come l’esperienza con Bruno Maderna e Luigi Rognoni allo Studio di Fonologia di Milano (da loro fondato nel 1954), dimostrano l’interesse verso una musica che sia pensata e costruita ma pure ricca di significati molteplici. La pluralità delle tecniche compositive diverse (Laborintus II del 1965) e la molteplicità dei mezzi strumentali, vocali, drammaturgici (Opera del 1970 e ’77), insieme all’assimilazione di metodi semiologici (importante la sua amicizia con Umberto Eco), rimandano a un’eterogeneità dei dispositivi formali di partenza, a un’enunciazione multipla dei significati, in cui una gestualità visualizzante situazioni sceniche è un elemento caratterizzante.
  
Ogni genere o stile musicale (come lo Strutturalismo o l’Alea controllata degli anni Cinquanta) prende vita da fortunate circostanze storiche, sociali, culturali e linguistiche che gli consentono di mettersi a punto e di rafforzarsi in breve tempo. E' una parabola che, per sua natura, tende a scendere quando tali circostanze mutano. Quando un genere o uno stile si afferma stabilisce le sue priorità e tende a espellere tutto ciò che potrebbe modificare la sua costituzione. Si fa cattivo, etimologicamente, "prigioniero di sé". Per non cadere nell'omologazione occorre una creatività molto forte, più potente di quella necessaria per restarvi (è per questo che si è creata ciò ch’è stata chiamata “accademia dell’avanguardia”). Difficilissimo è poi uscire da uno stile o da un genere e non fermarsi a un altro, ma proseguire, incessantemente, Berio è stato uno dei primi e uno dei pochi a evitare classificazioni e a muoversi sempre con abilità e fantasia, con un atteggiamento onnivoro. I citatissimi Folk songs (1964), per mezzosoprano e sette esecutori, sono una delle prime e rare commistioni che la musica contemporanea occidentale realizza con la canzone popolare. Già la scelta di canzoni americane e italiane dimostra la volontà di gettare ponte fra culture, stili musicali diversi.

La sua musica è un (f)atto eccentrico che eccede ogni centralità, ogni stare, ogni modo compiuto, per non lasciarsi imbrigliare nelle maglie dei generi omologati e degli stili consolidati. La sua Sinfonia del 1968 è uno dei pezzi che, fra i primi in Europa, dimostra la prensile attività di Berio, anticipando, per certi atteggiamenti, l’attraversamento fra generi e stili che sarà tipico della musica postmoderna.
 
Il musicista, come l'opera, non è una monade in sé chiusa e compiuta, ma il suo essere è un essere in movimento, fatto di stratificazioni e di molteplicità. Nel pozzo dell'interiorità non troviamo un'essenza pura, ma un villaggio abitato, dove convivono molti "io", una sorta di nascosti compagni di viaggio. L'opera non può che risultare da queste mille voci. Nel teatro di Berio non esiste un racconto lineare, ma una multipolarità formale ed espressiva, che crea una polifonia di strati sonori ed emotivi: da Opera (1970) a La vera storia (1978), da Un re in ascolto (1983) a Outis (1996), fino alle ultime opere Cronaca del luogo (1999) e Stanze (2003). “La musica vocale, ha dichiarato Berio una volta, è una messa in scena della parola. E in altra occasione ha affermato che gli interessa in quanto mima e descrive quel prodigioso fenomeno che è l’aspetto centrale del linguaggio: il suono che diventa significato /…/ credo che Berio sia stato affascinato sempre dai segni volontari e involontari di cui è portatrice l’emissione vocale preverbale /…/ la vocalizzazione primaria è assunta, immediatamente, come significante, e viene così in partenza socializzata”(2).

Berio non ha mai creduto in una sorta di riesumazione del teatro ottocentesco, quello che raccontava delle storie cantando e nel quale la narratività è prioritaria rispetto allo sviluppo musicale. Ama chiamare le sue opere teatrali 'azioni' per sottolineare che è il processo musicale a sorreggere l'intreccio delle storie, infatti, la musica a volte s'identifica con quello che sta succedendo in palcoscenico e altre volte vi rimane indifferente seguendo un suo autonomo percorso. Testo e musica devono rimanere sostanzialmente indipendenti, per esempio, il canovaccio de La vera storia è di Berio e solo dopo che l'impianto compositivo era già delineato vi subentra Calvino. Anche in Un re sono le esigenze tecnico-formali a dar vita a una sorta di narrazione e non è il racconto a richiedere un commento musicale. Pure in tutti gli altri lavori sia teatrali sia quelli che prevedono il testo il rapporto musica-testo viene creato ogni volta in maniera diversa senza parallelismo fra la forma musicale e il linguaggio verbale.
 
Sotto il profilo tecnico, soprattutto nella produzione recente, si può notare che da una compatta costruzione formale di base escono spesso degli elementi che vanno a costituire dei quadri, come nell’Opera per il teatro Cronaca del luogo (1999), dove i suoni risultano essere una sorta di graffiti che appartengono al muro musicale, quindi appoggiati al progetto complessivo ma anche osservabili singolarmente.
 
E’ impossibile dire con precisione in che cosa consiste l'operare di Berio e come si esplica, poiché di volta in volta s'inventa le modalità: è fedele unicamente al proseguire, per cui sborda da stili affermati per entrare in “generi” malfermi, da cui ancora esce non appena si consolidano, e così via. La coerenza che altri trovano nello status delle cose, egli la trova in una pratica. Potremmo riportare l'operare vigoroso e felice di Berio alla poetica dell'artigianalità, espressa più volte nella storia della musica, contro romanticismi, idealismi, teorie e speculazioni, ma precisando che si tratta di un operare stratificato che si rivolge all'eterogeneità dei materiali, una sorta di poliartigianalità, pronta a prendere gli elementi più diversificati per metterli insieme con tecniche miste. La sbalorditiva serie delle Sequenze per strumento solo, oramai divenuta un classico del repertorio novecentesco, è uno dei più alti esempi dell’uso molteplice e stratificato delle tecniche strumentali le più svariate che, nel loro virtuosistico articolarsi, realizzano un “labirinto di specchi”, com’ebbe a dire lo stesso Berio. Le prime Sequenze (la prima, quella per il flauto di Gazzelloni risale al 1958) furono eseguite a Darmstadt, la quarta (per pianoforte del 1966), la quinta (per trombone dello stesso anno) e la sesta (per viola dell’anno successivo) vennero eseguite negli Stati Uniti, nel mutamento dei luoghi si accenna pure al cambiamento della vita artistica di Berio che si allontana dall’ambiente di Darmstadt.

Alcune delle Sequenze solistiche dettero luogo alla serie degli Chemins, elaborazioni per ensemble cameristici, in tal modo le sovrapposizioni dei caratteri armonici e delle tipologie strumentali diventano un work in progress, base della poetica di Berio.
 
Da un punto di vista biografico, l’apertura mentale proviene a Berio, fin dalla sua giovinezza, dal padre che suonava il pianoforte accompagnando i film muti, dai suoi ripetuti soggiorni all’estero (soprattutto in Francia e negli Stati Uniti dove ha insegnato per molti anni in diverse Università) e dalla sua diversificata attività di direttore d’orchestra, trascrittore, organizzatore, insegnante ecc.
 
Colui che opera a contatto con la molteplicità è un artigiano che non si ferma a lavorare un solo materiale, ma è bravo a realizzare opere con materiali differenti, non con un solo modus operandi ma con la capacità positivamente eclettica d’incidere sui materiali con strumenti e tecniche varie, scelte via via a seconda della loro funzionalità all'idea di partenza. Le composizioni per orchestra, iniziando dalle due Allelujah, la prima del 1956 per sei gruppi strumentali e la seconda per cinque, del 1958, proseguendo con la serie dei tre Quaderni (1959, 1961 e 1962) poi con Entrata (1980), Requies (1985), Formazioni (1986),  Concerto II per pianoforte e due gruppi strumentali (1989), Continuo (1989), Ekphrasis (1996)  stanno a dimostrare la bravura nel cementare un molteplice che mai scade a fusion o a collage, come anche nelle musica concertistica, corale e da camera, così ricca di idee, fantasie e culture, oltreché di capacità organizzativa dei materiali, da lasciare un segno indelebile nella storia della grande musica internazionale del Novecento, sotto il segno di un gesto onnivoro assolutamente geniale
 
 
“Brindo blandi bemolli di baritoni:
Elevo encomi all’estro elettrarmonico:
Ricanto e ritornello i rombi e i ritmi:
Inni ti inneggio, interluo interludi:
opto te ottocentenne, ottomillenne…”
(E. Sanguineti, Per Luciano)
 
 
All'inizio del 2006 è uscito un libro, intitolato, Un ricordo al futuro, che raccoglie sei conferenze tenute da Berio alla Harvard University nel 1993-94. Umberto Eco scrive: "queste lezioni americane, pagine critiche e teoriche, ci rivelano non solo un artista che riflette sulla propria opera e sulla situazione della musica, ma un pensatore a tutto campo, di cui queste pagine sono forse un testamento spirituale".
 
NOTE
1) AA. VV., Sequenze per Luciano Berio, Ricordi, Milano 2000
2) E. Sanguineti, La messa in scena della parola, in AA. VV., Berio, EDT, Torino 1995
 
 
 
Dallo scritto di R. Cresti sul sito internet http://www.orfeonellarete.it/



http://lucianoberio.org/

http://www.musica.san.beniculturali.it/web/musica/cron-gen/scheda-periodo-gen?p_p_id=56_INSTANCE_rMx7&articleId=13144&p_p_lifecycle=1&p_p_state=normal&groupId=10206&viewMode=normal&tag=tag_capitolo_05






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