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Abate-Coral, i due concerti per flauto
 
Abate e Coral, due strade personalissime e due Concerti capolavoro
 
 
 
Coral e Abate sono fra i compositori più interessanti di quella che si può chiamare la ‘generazione di mezzo’, che si pone fra quella dei ‘giovani compositori’ nati fra la fine degli anni Cinquanta e Sessanta e quella dei grandi Maestri nati fra gli anni Venti e inizio Trenta, come Nono, Berio, Donatoni e altri, proprio Donatoni è (stato) una sorta di guida tecnica e spirituale per Coral e Abate che ne hanno metabolizzato il rigore artigianale e la poetica che intende l’atto compositivo come un’operazione interrogante sia il proprio Sé sia il materiale.

L’animus artigianale porta a individuare una tecnica dinamica, una forma in continuo processo di trasfigurazione legata al proprio vissuto personale e sociale. Nietzsche scrive, in Al di là del bene e del male, che ogni grande filosofia, come ogni opera d’arte, è un’auto confessione. La musica è dunque una profonda Stimmung, disposizione d’animo. Ma la musica è contemporaneamente una cartina di tornasole del mondo che la circonda, come dice Abate sappiamo tanto della indispensabilità della libertà espressiva dell’artista, ma anche della difficoltà che il suo libero linguaggio incontra nel tentativo di penetrare le perniciose sordità della società contemporanea, sempre più attratta dalle seduzioni del ‘facile è bello’, anche quando ciò trascolora nel disimpegno banalizzante. L’impegno però non può più essere quello dell’art engagé anni Sessanta che legava l’arte all’evidenza del fatto quotidiano, riducendo la sfaccettata problematica dell’arte alla sociologia, piuttosto oggi si dovrebbe riflettere sulle coordinate socio-politiche in modo ironico, prendendone le distanze; il porsi sempre in prima fila nei movimenti collettivi rende monolitica l’ermeneutica artistica e le fa mancare quegli aspetti legati all’indicibile, a quel quid in-cantevole, a quella stra-ordinarietà che la pone lontano dai fatti di tutti i giorni per toccare aspetti profondi della creatività, ch’è per definizione innocente. Esserci ed Essere sono intimamente connessi e meglio si vedono da lontano, tant’è che Abate parla di Filosofia della solitudine, come condizione e come necessità,[1] un elogio del silenzio che anche Coral potrebbe condividere, egli infatti molto si è impegnato per l’organizzazione musicale e per la diffusione della musica contemporanea, fondando per esempio l’Associazione ‘Chromas’, ma altrettanto forte è stata in lui l’esigenza di trovarsi un luogo appartato, una sorta di studio-chiostro, dove concentrarsi sulla spiritualità del (f)atto artistico.[2]

Se molti sono i punti di contatto a livello generale, nello specifico del vissuto e dell’operare Coral e Abate si differenziano sia per la provenienza geografico-culturale (l’uno triestino e fortemente attratto dalla cultura mitteleuropea, l’altro di origine calabrese poi trasferitosi a Milano) sia per le esperienze personali (che però per entrambi sono state importanti anche per il proprio fare musica) sia per i percorsi artistici (con l’incontro con Donatoni decisivo per entrambi) e la produzione compositiva. I due Concerti per flauto e orchestra sono dei capolavori e quindi assai esemplificativi del loro modo di pensare e scrivere musica.

Il Concerto, quasi una pantomima nasce da una commissione di Patrick Gallois che aveva ascoltato un precedente lavoro di Abate, la Barcarola, e ne era rimasto affascinato tanto da volere che costituisse il punto di partenza del nuovo Concerto scritto nel 2006 (la Barcarola è un brano semplice ma struggente, con in effetti un’incantevole linea melodica). Il gioco compositivo di Abate è consistito nel negare l’evidenza della melodia della Barcarola, pur assegnandole una funzione fortemente pervasiva di ogni ambito dell’opera, bisognava che all’eventuale felicità di ascolto corrispondesse un’altrettanto felice articolazione dei complessi piani di stesura del lavoro. La presenza della Barcarola pone al compositore l’obbiettivo di mirare ad una sintesi – sorta di metalinguaggio - che superi la storia nell’accezione lineare e progressiva, per assumerla a tutto tondo, nella profondità dell’ora ricca di passato e di futuro, in un’ottica postmoderna. Dal punto di vista formale, il Concerto si sviluppa in un’arcata  a campata unica (sia pure articolata in una scansione che così si presenta: introduzione-adagio-allegro, adagio, allegro) senza soluzione di continuità. Il materiale tematico e armonico è rigorosamente derivato, appunto, dalla Barcarola. Quel tema viene esposto (variamente formulato) e, infine, disarticolato, si staglia magicamente nello spazio sonoro e il flauto ne raccoglie gli elementi costitutivi per ri-comporlo. La sfida si gioca nel tentativo di riportarlo alla sua originaria evidenza. Abate crea linee formicolanti elegantemente intrecciate, nel fitto contrappunto dei segmenti strumentali il flauto sembra un po’ sparire ma poi emerge in un gioco di prospettive ora vicino ora lontano, ora articolato nell’intreccio ora in evidenza (anche con un lungo assolo che evoca eros), e il gioco funziona, non solo come sistema compositivo ma anche all’ascolto.

Il flauto è, nella fase iniziale una figura selvatica, e il suono che produce, primitivo e di intonazione incerta, ne è l’espressione aderente, ma durante l’intero viaggio sonoro, che lo porta a superare una serie infinita di prove, subisce una mutazione, emancipandosi nelle sue qualità di suono e di virtuosismo strumentale fino a proporre la melodia della Barcarola, la quale, alla fine di una frenetica danza (Allegro dell’esultanza), scompare d’incanto, seguita da figure fantastiche. Una sezione finale (Adagio del commiato) dell’orchestra, che sostiene un malinconico intervento del flauto, ripropone le atmosfere dell’inizio. Il Concerto, oltre che vivere nella sua dimensione puramente sonora, può anche trasformarsi felicemente in Pantomima oppure in un balletto. Così Abate descrive la drammaturgia musicale:
 
«Il personaggio centrale è il flauto che, nelle prime battute dell’orchestra, anche se avvolte in una galassia di suoni, sente le note di una melodia meravigliosa, che presto svanisce in mille frammenti scintillanti nel nulla, forse precipitando fra le schiume di anfratti abissali.  Il flauto, è folgorato dalla sua bellezza…vorrebbe a tutti i costi ri-comporla quella melodia, per suonarla (possederla). Da quel momento comincia un viaggio iniziatico, durante il quale attiva tutte le strategie possibili, lanciando richiami nello spazio (costituiti da varie cellule del materiale sonoro della melodia), per catturarla, farla comparire. Le risposte che riceve sono il silenzio o l’eco dei suoi stessi richiami, o il sinistro riprodursi di figure fantastiche che ricordano la melodia ma che non lo sono, e che in realtà si prendono gioco di lui, essendone egli stesso il visionario “produttore”».
 
Da tempo Abate va indagando le possibilità di trasposizione in musica delle infinite potenzialità di divisione dello spazio operante del geniale artista grafico Escher;[3] un tentativo riuscito, specie nella parte dello strumento solista, l’ha realizzato proprio nel Concerto per flauto. Le difficoltà maggiori nel trasfigurare i grafici di Escher in musica nascono dal fatto che essendo la musica un linguaggio che si manifesta nel tempo, l’impermanenza delle figure che essa realizza richiede una capacità percettiva più sviluppata di quella che occorre per leggere le figure escheriane che invece, pur mutanti nello spazio, soggiacciono, sul foglio, allo sguardo dell’osservatore, senza limitazioni di tempo. È comunque una strada interessante e anche Coral molto spesso ha fatto riferimento alla grafica, alla pittura e alla poesia nelle sue composizioni.
Un disagio crescente nei confronti della soggettività si era impadronito di Coral durante gli anni Settanta, si sentiva contemporaneamente narrante e narrato: aveva scoperto una voce interiore dimenticata che raddoppiava il suo io. Nel 1977 con Favola Coral si confrontava con l’Ombra, con l’Ospite nascosto in noi che produce inquietudine. «L’autore altro non è che colui che ha la capacità di dare alloggio al visitatore non invitato, è colui che sa accogliere le istanze della differenza e le sa mettere in opera. L’artista sa farsi contenitore, vaso che raccoglie ciò che (ac)cade fra Terra, Mondo e Cielo, dimostrando di accettare l’amico/nemico che dimora in lui».[4]

Ogni artista crede di sognare l’opera, invece è sognato da lei.

Nel 1979 con la Seconda sonata Coral raggiunge l’abisso ma intravede una luce di salvezza. Proprio l’accettazione dell’angosciosa inquietudine è una spia dell’affezione di vita: a ogni quantità di forza negativa corrisponde una forza contraria positiva che può trasfigurare il negativo in energia vitale. «La perdita dell’operazione organizzatrice è la perdita della volontà e della capacità di distinguersi dalla materia».[5] Coral progressivamente rimuove le macerie psichiche e tenta di chiudere tutte le possibili citazioni del proprio Es, mette a punto anche un cosiddetto ‘accordo di purificazione’ di 4 note: fa – sib - fa#, si. Si fa forte l’esigenza di Zarathustra che confida ai discepoli: «Sai, mi è venuta a noia la mia sapienza: son come l’ape che a raccolto troppo miele, ho bisogno di mani che si tendano, vedi! Questo calice vuol ridiventare vuoto». Con Tout à coup et comme par jeu per flauto e orchestra Coral incontra la poesia di Stéphane Mallarmé, il poeta che ha ripulito le parole dalla povere che le ricopre:
 
«Qui ce vain souffle que j’exclus
Jusqu’à la dernière limite
Selon mes quelques doigts perclus
Manque de moyens s’il limite».
 N
Nel suo libro autobiografico Coral scrive:
 «Dopo aver reso sterile la sua soggettività, con Favola, e dopo aver reso fertile la sua oggettività con la Seconda Sonata, Emilio [cioè Coral n.d.r.] aveva bisogno di un ulteriore atto: distruggere (cancellare) la funzione dell’interprete […] il solista di flauto, in questo lavoro, rappresenta la figura dell’interprete. Egli suona da solo poche battute, immediatamente è sommerso dagli altri diversi flauti, poi via via da tutta l’orchestra. Il solista ripete il tentativo, cera nuovamente di ‘esprimersi’, d’un tratto e come per (un macabro) gioco, ma non ha facoltà di parola ed è vano il suo fare, il suo soffio […] Nel brano risultano due cadenze virtuosistiche. La seconda è una variante del Raps I per pianoforte. Ma per il solista e solo un’illusione perché verrà subito cancellato dall’orchestra».[6]
 
Il flauto è l’Ego e l’orchestra e il Mondo che soprafa l’individualità. L’energia sonora che sprigiona l’orchestra, trattata con grande sapienza contrappuntistica e strumentale, lascia l’ascoltatore senza fiato, sfinito, come il flautista dalle trame soverchianti di materiali sonori, seppur un tentativo di canto dia aria e faccia intravedere una flebile speranza, che verrà in fine spezzata da un violento accordo dell’orchestra che chiude il pezzo. Coral lascia che ciò che li viene suggerito «venga scritto in (quasi) piena libertà»,[7] in un processo di veglia-sonno-sogno dove si scrive ciò che scrivendo si profila, affidandosi a una sorta di automatismo della scrittura guidata però da una mano eccezionale. Questo Concerto ha vinto il primo premio al Concorso internazionale di composizione “Città di Trieste” nel 1983.
 
 


[1] ROCCO ABATE, Appunti per una filosofia della solitudine, come condizione e come necessità, in Enciclopedia Italiana dei Compositori Contemporanei, a cura di Renzo Cresti, III voll. e 10 cd, Pagano, Napoli 1999-2000.
[2] La cosiddetta società del riflusso ha portato troppi artisti a lasciarsi coinvolgere nei meccanismi massificati e mercificati, fra svaghi salottieri e frivolezze da foyer, recuperando il linguaggio della tradizione tonale, eclettico e ricco di citazioni, à la maniere de Puccini o di Prokof’ev o di Strauss, fra neo-romanticismo e neo-classicismo, disattendendo a ogni impegno sociale. Già Adorno aveva sottolineato la funzione ludica della musica, dicendo che aveva il compito di riempire i tempi vuoti e di tranquillizzare le coscienze vacue. La musica non può che aderire a un’estetica che sa tramutarsi in etica, non solo per ragioni di partecipazione e di solidarietà, ma perché ha perduto ogni sua alta configurazione: l’estetica si riferiva alle grandi narrazioni del mondo, ma da quando le filosofie ogni comprensive sono state soverchiate dalla molteplicità dei fatti storici l’estetica si è ridotta a una semplice riflessione sui fatti dell’arte, a considerazioni a posteriori, a classificazioni e a descrizioni, ha perso del tutto il suo ruolo di guida, non può più indirizzare in quanto ogni direzione potrebbe esser valida. L’e(ste)tica di Coral e di Abate si esplica nel vivere il mondo dei suoni, partecipando a un forte sentimento umanitario, testimoniando un impegno scrupoloso alle ragioni dell’uomo e dell’arte.
 [3] Cfr. la Testimonianza di Rocco Abate in Renzo Cresti, I linguaggi delle arti e della musica. L’e(ste)tica della bellezza, il Molo, Viareggio 2007; nello stesso volume anche una Testimonianza di Giampaolo Coral.
[4] RENZO CRESTI, L’arte innocente, Rugginenti, Milano 2004: «Nel silenzio della solitudine creativa, al di qua di ogni apparenza, tutto ciò ch’è altro entra in rapporto con l’intimità, diventa viso (s)conosciuto, fantasma, sogno, incubo. È questo rapporto fra identità e differenza che si forma l’io plurale, brulicante di ospiti inattesi».
 [5] RENZO CRESTI, Franco Donatoni, Suvini Zerbini, Milano 1982: «Non ha più senso scandagliare all’infinito nuovi sistemi linguistici, ma occorre attuare una diversa relazione fra compositore e opera, nel quale il musicista non si auto celebri come il creatore, sopraffacendo la materia, ma instauri con l’oggetto un rapporto libertario attuabile con l’abolizione della volontà dell’io artista a favore dell’abbandono al materiale. L’io non è il presupposto certo di ogni pensare e volere, il pensiero viene quando è lui a volerlo [...] L’unitarietà dell’io si rovescia in un’accozzaglia di confusi frammenti di materia; si dà solo processo e l’impiego di un soggetto quale condizione di tale moto è mera supposizione, e se soggetto c’è è indeterminato/indeterminabile, plurale perché formato da tante forze contrastanti: il soggetto è di per sé schizofrenico,provvisorio e mutevole, formato da una molteplicità di relazioni psichiche, è un frammento di fatum».
 [6] GIAMPAOLO CORAL, Demoni e fantasmi notturni della città di Perla. Biografia di Emilio Musul, un compositore, Teatro Comunale di Monfalcone, Cormons 2008. I Raps (da raptus) sono 12 per diverse formazioni strumentali e cercano di realizzare nell’incompiutezza qualcosa di compiuto (è importante ricordare anche Mr Hyde un’opera sull’identità, un fondamentale passaggio nel percorso artistico di Coral).
 [7] GIAMPAOLO CORAL, Testimonianza, in Renzo Cresti, I linguaggi delle arti e della musica – L’e(ste)tica della bellezza, il Molo, Viareggio 2007.



Dalla Rivista "FaLaUt", Pompei 2010


 



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