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Igor Sciavolino, dal jazz al mondo
 Dal Jazz al mondo
 


Il padre di Igor (Torino 1966), Renzo, è un noto scultore, mentre la mamma e una sensibilissima fotografa (la copertina e la retrocoperta del mio romanzo La terra che canta portano due sue bellissime foto); ho conosciuto questa straordinaria famiglia grazie ali amici della Rivista "Il Grandevetro" e fui colpito da tanta ricchezza d'arte. Igor è una sorta di finto naif, ha tratti svagati ma è molto lucido e presente in quello che fa. Ottimo strumentista percorre strade personali che attraversano i cosiddetti "generi".
 
La musica è un pensiero sui suoni, che si rivolge ai suoni e considera qual'è il modo migliore per organizzarli, è pensiero organizzato in suoni. Vi è indubbiamente quest'aspetto volitivo e razionale nell'atto del comporre, ma se ci si ferma all'aspetto strutturale si corre il rischio di dare troppa importanza al pensiero formante, che diviene così autoritario nei confronti dei suoni, i quali vengono intesi quale mero materiale da architettare. L'anima di un brano musicale non risiede nella struttura, che potremmo considerare l'elemento culturale, ma nella qualità del suono stesso, ovvero nel rispetto che l'autore ha nei confronti delle ragioni del suono, della sua natura, della sua vita ed energia. Il rispetto del suono Sciavolino lo ha appreso dal jazz, dove il contatto fisico col suono è sempre stato fondamentale, mentre nella musica colta, non solo quella del Novecento, ma dell'intera tradizione occidentale, domina spesso l'intellettualismo e l’assenza di coralità.
 
La musica viene intesa da Sciavolino come spazio aperto, dove i vari suoni possono incontrarsi, uno spazio topologico naturale che, come in una cartina geografica si possono incontrare fiumi o colline, così come la natura li ha creati. I suoni non hanno dimora in una forma o una sede in una prassi compositiva, in tal senso sono atopici, non vogliono essere rinchiusi in procedimenti stringenti, che esaltano la volontà formante del compositore e sviliscono la loro ragion d'essere, che reclama libertà, immaginazione, fantasia, spazi aperti, estemporaneità. Nel jazz l'apertura s'identifica con l'improvvisazione e con un'attenzione al suono rarissima nella musica dotta, suono come timbro caleidoscopico e come ritmo fisico, suono inteso come rituale collettivo, quasi magico, che però sa compattarsi in una sintesi superiore, come avviene nella musica di Sciavolino, la quale abbraccia varie sequenze ed episodi, fra loro diversamente caratterizzati, cementandoli in un forte senso unitario. Fra i tanti esempi che potremmo fare, presi dalla produzione di Sciavolino, scegliamo il "Trio Rose", nato dalla collaborazione con il batterista Paolo Franciscone e con la danzatrice Rosita Mariani, inventivo e compatto, aperto a soluzioni a ventaglio e ben strutturato.
 
Solo in uno spazio veramente libero si possono compiere le esperienze degli incontri fra i mondi, quello della natura e quello della cultura. E' l'ethos del pellegrinaggio. In un certo senso Sciavolino è un viandante della musica, va incontro al Mondo a occhi aperti, con ancora la capacità di stupirsi, raccoglie i frutti della Terra e nella sua musica l'Aperto del Mondo (esperienze di musiche improvvisative) e l'essenza della Terra (forma e struttura) si sposano felicemente.
 
Alle soglie del terzo millennio si fa impellente l'esigenza di vagliare con nuove modalità i presupposti critici usati dalla cultura novecentesca, il che significa lasciarsi alle spalle il nichilismo e gli alienati rapporti dell'arte con la vita, abbandonare il pensiero negativo, ma anche quello forte dello Strutturalismo, dell'astrazione linguistica, sperando che gli artisti riescano a calarsi, con umiltà, in un costruttivo confronto con la gente; augurandosi che l'arte converta in positivo lo sgomento che ha tormentato il Novecento, non per nasconderne le angosce e i fatti tragici, semmai per inaugurare un altro umanesimo, non fortificato da certezze e vacue dignità, ma quotidianamente aperto alle esigenze della società e pronto a integrarsi col mondo, in maniera critica. Andare verso il 2000 palesa la volontà di rimanere al di qua di ogni ideologia, degli interessi partitici, dei tornaconto personali e, contemporaneamente, avvicinarsi ai bisogni della gente, recuperare la solidarietà e il senso della collettività. Ogni performance di Sciavolino è l'apologia del senso collettivo. La stessa scrittura si fa carico, internamente, di queste esigenze.
 
L'arte non va però ridotta alla sociologia, perché l'arte è il luogo dei possibili (quindi può essere utopia, idealità, progetto, scommessa...), alla ricerca di qualcosa che non c'è ancora, verso "l'essente non ancora conscio" (Bloch), in una prospettiva che trascende il qui e ora ma che non è trascendente, perché basata proprio su ciò ch'è. Il rapporto dialettico fra aderenza all'oggetto e trascendenza viene esplicato nella prassi dell'improvvisazione e dell'elaborazione, di cui Sciavolino è maestro, una dialettica che ottiene anche il risultato di liberare il musicista "dal tabù dell'opera compiuta e consegnata alla storia /.../ creando fonti di energia vitale, per il pensiero, per l'azione, per la vita" (Gaslini, Musica totale).
 
Giunti a questo punto non c'è più (s)campo, la salvezza è uscire dal Novecento tentando di proporre un' e(ste)tica del dialogo fra l'arte e il suo pubblico eventuale, cioè fare in modo che i linguaggi tornino ad essere comprensibili, non perché assecondano banalmente i gusti del pubblico, ma per la loro genuinità. Uscire dal Novecento significa abbandonare le vecchie norme linguistiche (a)morali e (in)civili che finora hanno mal governato il secolo, questo abbandono non può coincidere col disimpegno, ma col suo contrario, infatti l'assenza della vecchia e(ste)tica deve spronare all'assunzione della massima responsabilità, quella vera, non quella vissuta all'ombra di cattedrali o palazzi (come stanno ancora facendo i tanti musicisti-giullari delle Istituzioni), ma praticata quotidianamente e umilmente verso il proprio sé e verso il prossimo. E’ evidente come Sciavolino intenda il suo fare musica come una sorta di artigianato, duro e quotidiano, mezzo per ottenere la comunicazione con gli altri (in tal senso la figura paterna, ha influito moltissimo, quel Enzo Sciavolino che ha sempre messo l’arte al servizio della collettività, intendendo l’arte come “uno spazio per vivere”, si veda il Catalogo, Sciavolino, a cura di Nicola Miceli, Bandecchi e Vivaldi, Pontedera 1997).
 
Non è vero che il pubblico non sia recettivo, il fatto è che gli si è propinato per troppo tempo cose astruse e/o senz'anima; l'ascoltatore, perlomeno il buon ascoltatore (che non significa l'esperto), quando è in presenza di una testimonianza vera, di un'arte vissuta che si manifesta con la forza dell'invenzione, sa apprezzarla e sa collegarsi emotivamente a quell'opera, avviene allora il miracolo dello scambio del flusso di energie. L'artista deve concedersi tutto, non solo con la testa, e deve concedersi con sincerità e lealtà: non deve parlare solo sul come l'opera è realizzata, ma anche del cosa, dell'argomento ch'è esterno/interno all'opera stessa, e del perché, delle esigenze e degli scopi che hanno spinto il compositore alla scrittura, perché se questa nasce senza un reale bisogno interiore e senza nobili finalità, è mero calligrafismo.
 
E’ difficile analizzare musicisti di confine che producono una musica aperta e trasversale, come quella di Sciavolino. La musicologia italiana può vantare qualche erudito ma poche persone dalla mente elastica e pronta a mettersi in discussione. Si può dividere la nostra musicologia in tre sostanziali settori: quello storicistico che aderisce all'impostazone neo-idealistica, quello di tradizione marxista che utilizza una metodologia di stampo sociologico e quello, più recente, d'impostazione filologica. Le tre impostazioni si sono dimostrate non adeguate alla comprensione della musica del Novecento.
 
Gravi colpe ha pure la musicologia di provenienza jazz, in quanto quasi mai ha preso in considerazione esperienze di confine fra musica jazz e contemporanea colta, e quasi del tutto ha ignorato (e ignora) le problematiche che vanno oltre il proprio orticello. Così personalità eccezionali, nel senso che fanno eccezione come quella di Sciavolino, soffrono di ingiustizie critiche da una parte e dall'altra.
 
I musicologi meno legati alle ideologie (perché di questo si tratta) e più disponibili ad aggiornare le loro vedute culturali, sono in grado di compiere un percorso trasversale fra i vari orientamenti, trattenendo gli aspetti più in sintonia con la cultura di questi anni Novanta: crollati i muri e le ideologie forti, l'arte riscopre il bisogno di stare vicino alla gente, di farsi nuovamente messaggio positivo di un rapporto fra uomo e mondo, riscoprendo il sano lavoro artigianale, non solo come garanzia di qualità del prodotto, ma anche come mezzo di comunicazione fra l'opera che nasce da una necessità interiore e il pubblico che con quest'opera può instaurare uno scambio emozionale. Solo un'ottica in diagonale, intersecante rispetto alle varie metodologie, è in grado di filtrare e decantare le varie impostazioni, espellendo gli elementi che non sono (più) in rapporto propulsivo e vitale con quello ch'è la cultura (musicale) contemporanea, soffermandosi invece sugli aspetti che, in ogni metodologia, da qualsiasi parte essi provengano, sono ancora utili, funzionali a un discorso diverso e nuovo, flessibili e disponibili a essere rimessi in gioco. Studiare la produzione di Sciavolino è un esercizio all'impermanenza, occorre assumere un'anti-metodologia, perché non è una musica da biblioteca, ma da spazi aperti, senza confini, tanto che si pone sempre in maniera interdisciplinare.
 
L'opera di Sciavolino è-nel-mondo, geograficamente, è situata, ha carattere intramondano. Il sostituire la storia con la geografia significa privilegiare l'esserci, quale presenza concretamente vitale, rispetto all'ontologia e alla prospettiva oltre-mondana. E' così che anche la storia si fa topologia e la topologia è un fatto, è forma naturale.
 
In tale prospettiva una funzione importante viene esplicata dal ripensare la storia (delle musiche, al plurale), il che non significa un furbesco riappropriarsi degli stilemi del passato, ma acquisire la consapevolezza che il concetto di "contemporaneità" non può essere meramente numerico, ma nel tempo dell'arte si presentano cose che sono sempre accadute e che sono sempre eventuali e accadibili, in una contemporaneità di tutti i tempi che ci narra dell'avventura dell'uomo. In tal senso assumono un significato profondo le numerose strumentazioni che Sciavolino compie di opere di Autori classici: la prima risale al 1988, s’intitola All’aria aperta e proviene da Bartok, ma i lavori migliori di “arrangiamento” (come li chiama Sciavolino, usando una terminologia jazzistica) risalgono agli anni 1989-90 e sono: Self portrait in 3 colors da Mingus e arrangiato per oboe, corno, sax e pianoforte; Spigoli Misteriosi da Monk per corno inglese/oboe, sax e corno, dove si può notare come Sciavolino abbia trascritto basandosi più sugli assoli che sui temi di Monk; Round Midnight ancora da Monk e ancora per lo stesso trio di strumenti prcedente con in più l’aggiunta del clarinetto basso; 10 pezzi facili per pianoforte da Bartok, davvero ben realizzati, come anche Arbos e Frates da Part, per ottetto di fiati il primo e per oboe, clarinetto, corno, sax, arpa e pianoforte il secondo.
 
E’ interessante soffermarci ancora sui lavori di strumentazione perché ci consentono di entrare nella palestra di Sciavolino e vedere quali attrezzi usa e a quali esercizi ricorre. E’ da notare la nonchalance con cui passa da Autori contemporanei come Ligeti (Passacaglia ungherese) a musicisti jazz come Frisell (Throughout steady, girl), Motian (Hide and go seeek), Fasoli (Portrait Suite) e ancora l’amato Monk (Jackie-ing, pezzo molto interessante nella costruzione aperta a blocchi, destrutturato e rimontato in altro modo, senza però snaturare i temi e i valori ritmici).
 
La storia della musica classica, del jazz, di quelle di tendenza, ma anche la propria storia personale dev'essere attualizzata, come accade nelle composizioni di Sciavolino, assumendo una sorta di funzione spaziale, non un nostalgico sguardo all'indietro o un improbabile revival, ma assolvendo a un fine culturale in quanto, attraverso l'allargamento dello spazio musicale, allarga anche la coscienza di ciò che è, oggi, la musica e la condizione del musicista. Gli stilemi del passato devono essere visti come una sorta di topoi, tutti spazialmente prossimi. Il tempo della topologia è quello del coordinamento, non della successione, e in esso vanno a collocarsi le figure fondamentali del pensiero che costantemente vengono de-costruite o ri-costruite per essere ri-messe in gioco, in un perenne circolo ermeneutico. La storia della musica, nella produzione di Sciavolino, si fa geografia sonora. Si ascolti il brano intitolato “X”, dove certi richiami, più o meno consci, a Stravinskij a Bartok a un certo free sono attualizzati e rivitalizzati, grazie alla spinta nervosa del linguaggio personale di Sciavolino.
 
Se l’inizio della produzione avviene sotto il segno del jazz, Sciavolino è poi assai bravo a rendere questa influenza molto elastica e duttile, approdando attualmente a un modus operandi più vicino a quello della musica dotta. I lavori della fase iniziale sono spesso elaborazioni del tema della prima opera, Moesta et Errabunda del 1987 che poi vedrà molte versioni. I brani del giovane Sciavolino hanno un fraseggio jazzistico e vengono scritti di getto, come Ulna e radio, ricorrendo spessissimo al proprio strumento, il sax, come Due, di notte, dove sono presenti anche gli accordi cifrati, tipici della scittura armonica del jazz. A volte i pezzi non hanno battute, come Blu scuro, ma si avvicinano a una struttura tipica del blues. Blu scuro (insieme ad Ensor) è fra i pezzi più riusciti, basato sulla struttura armonica tradizionale del blues ( I – IV – I – I IV – IV – I – I – V alterato – IV – I – I), su una forma fluidificante, rapsodica e sulla scrittura grafica propria di alcune esperienze della musica contemporanea. Tipico processo di Sciavolino, alla ricerca dell’unione fra mondi apparentemente diversi.
 
Tagliante, qualche volta aggressiva è l’espressività sonora, come in Intermittenza, con l’elemento percussivo in evidenza, come in Ensor che nasce come primo brano di una serie di brani per clavicembalo, ispirati agli espressionisti tedeschi (Munch, Kokoshka, Diz, Schiele, Marc). Il clima espressionistico a cui Sciavolino si riferisce non viene riproposto pari pari, ma filtrato da una visione più aperta e aggiornata.
 
La dedica a Giorgio Gaslini, in Sharing, è esplicita di quanto Sciavolino sia consapevole del debito verso il modo di intendere la musica del grande pianista milanese. A un certo punto del brano Sciavolino vuole imitare un disco rigato con la puntina del giradischi che salta, sfruttando le irregolarità ritmiche dei tempi dispari e composti (7/8, 13/8 ecc.) di memoria bartokiana e stravinskiana.
 
Altro elemento tipico della prima fase è la forma della Suite, come Ludonda, dove i materiali sonori vengono semplicemente accostati. Anche il ricorso all’organico tipico delle Big Band jazzistiche, come Sempre vieni dal mare, è un segnale che Sciavolino, almeno fino agli inizi degli anni Novanta si muove sotto il segno del jazz, anche se alcuni lavori propongono aspetti che svicolano e preannunciano un futura maggiore attenzione agli elementi dotti: si veda l’armonizzazione per quarte e un certo spessore materico di Mc Coy e Cecil, lavoro interessante anche dal punto di vista grafico, oppure il quartetto per archi Nuvola in pantaloni, o ancora la serie delle Inconsistenza (molti pezzi nascono all’interno del "Gruppo Limina", un laboratorio dove Sciavolino può sperimentare varie saluzioni linguistiche e sonore). Alcuni brani, come Frangiflutti, si avvicinano allo stile classico tradizionale e ne approfondiscono la strumentazione, come Ipmal e Inout, senza rinunciare al jazz (c’è infatti un tema di Miles Davis) e alle contaminazioni (una certa atmosfera legata al tango).
 
A proposito di tango vanno citati i lavori che partano da Tuoni e lampi (1990) e che prendono vari titoli: Al di là delle onde delle colline e House, entrambi in varie versioni. Si nota un ulteriore affinamento del linguaggio dotto, mischiato a elementi ritmici in evidenza (addirittura funky in House). Continuano gli arrangiamenti, come A little thing of jazz, da Flavio Gatti, per quartetto d’arpe (poi anche per quattro sax), un lavoro d’impianto colto, ma al quale Sciavolino aggiunge una parte centrale d’ispirazione jazzistica. Comunque la scrittura sta cambiando, se si vede il ciclo dedicato agli “esili”, ce ne rendiamo ben conto: la prima partitura, Esile, al soffio, del 1990, è ancora legata a stilemi d’estrazione improvvisativa, mentre la seconda, Esile, con furore, e la terza, Esile, al passo (entrambe del 1996), sono lontane dalle modalità jazzistiche e, pur mantenendo una continuità nel cambiamento, approdano a una scrittura più pensata ed evoluta (interessante il trattamento dell’elemento e l’elaborazione continua di cellule melodiche di base, dove la melodia originaria dà l’impronta ad altre variazioni).
 
Sciavolino è assai bravo nella dialettica fra innovazione e tradizioni (meglio, nel suo caso, al plurale, perché provenienti da zone geografiche e culturali disparate), si rende conto che per una corretta comunicazione occorre mantenere salde le norme che garantiscono la comprensibilità della Langue, pena la perdita di contatto col pubblico, il vaniloquio, magari interessante, ma che non può rivolgersi alla gente. Contemporaneamente però Sciavolino sa che la lingua va continuamente ripensata e rimodellata, vivificata con la tensione che viene dalle necessità interiori, meditata e mediata attraverso un pensiero sulle forme che sia aggiornato, reimpostata per ottenere nuovi percorsi e nuove soluzioni, in una dialettica fra innovazione e tradizione.
 
In fondo Siavolino ha capito un concetto elementare, eppur disatteso dalla maggior parte delle estetiche del nostro secolo, che i termini di tradizione e di innovazione non sono contrapposti, ma complementari, che il presente non si può basare solo sul passato, altrimenti l'arte diventa mera rimembranza (crepuscolare), ma deve avere anche la spinta dello sguardo verso il futuro che, al contrario, non può che concretizzarsi attraverso i fili che lo collegano al passato, altrimenti diviene pura speculazione, astrazione (la musica sperimentale è stata enormemente importante nel momento in cui c'era un'evidente bisogno di rinnovare il linguaggio, ma è poi diventata maniera quando ha continuato a perpetuare il suo tipico modus operandi e, soprattutto, non ha saputo integrare le scoperte in un contesto più ampio che sapesse riproporle al pubblico).
 
Il suono delle composizioni di Sciavolino è energia, i suoni sono una specie di DNA, cellule che originano la musica, che la informano, ovvero l'articolazione della forma dovrebbe nascere dal rispetto per la natura del suono, senza sovrapporre elementi della kultur: un suono così com'è, un suono in quanto suono. Suono e natura, semplicemente. La natura dei suoni e i suoni della natura.
 
La musica di Sciavolino è formata da mille anime, ma tutte fraternizzano facilmente perché v'è una sostanziale unità d' intenti e perché le radici sono cementate da uno stile forte e inconfondibile. Si confrontino pezzi come Mademoiselle Mabry walks in a Silent way ripreso da Miles Davis, oppure l’infuocato Spicoli luccicanti, o ancora il vaporoso Inconsistenza, oppure il grafico Meccanica Tellurica, o il recitato Esile al passo, brani diversi fra loro, sia come importazione compositiva di partenza, sia come risultanze espressive, eppure ben inquadrabili in uno stile, molteplice ma non dispersivo, dov’è facile trovare il filo rosso che collega il tutto e ch’è, appunto, un unicum stilistico, che mette insieme apertura e trasversalità.
 
Occorre ri-considerare i concetti di alternativa e di marginalità, la buona musica e i messaggi intelligenti, com'è dimostrato, troveranno comunque posto, ma all'interno di questa società e non su ipotetici pianeti extra. Musiche particolari avranno sempre una funzione essenziale, ma mirata, concreta. Proporre esperienze di confine continuerà ad avere un valore critico e propulsivo, ma dovrà essere un'azione specifica, all'interno di una società consensuale che dovrà essere analizzata profondamente e non scartata (per andare dove?), per trovare, negli interstizi, i punti deboli su cui agire, e questo vale sia per il linguaggio musicale sia per i contenuti sociali.
 
Il musicista Sciavolino non può attraversare che spazi trasversali, il suo compito sarà quello di colpire alle spalle, la sua funzione quella del traditore, di colui che non subisce passivamente, che non accetta l'Istituzione accademica, anzi è pronto a colpire, a prendersi ciò che gli serve, a lottare per ciò che gli pare giusto, a liberare uno spazio vitale.
 
La musica totale di gasliniana memoria, ma che potremmo farla propria anche di Sciavolino, realizza anche la visione di Freud dell'arte come sublimazione dei desideri, come sintesi del principio di piacere e del principio di realtà. Un concerto di Sciavolino ha pure lo scopo di rendere accessibili e leggibili fonti psichiche profonde, in questo ordine di percezioni la coppia significante/significato è fusa intimamente. Nella comunanza emotiva, che si realizza durante la performance, i sogni e i bisogni di ogni ascoltatore vengono rivissuti al plurale, da un io collettivo. Le fantasie individuali divengono fantasie di tutti e quindi si riesce a superare la dimensione soggettiva della realizzazione del desiderio.
 
Vanno ricordate, oltre alle collaborazioni con numerosi musicisti provenienti dal mondo jazz (fra i quali Mal Waldron e Tiziana Ghiglioni), le esperienze concertistiche con i gruppi "Limina", "Brassofoni" e "Forma Fluens" (ancora in vita), una pluralità che s’incarna nella scrittura e che si trasmette all’ascolto.
 
La psicanalisi classica ci ha insegnato che l' ars poetica consiste nelle possibilità di superare le barriere che si elevano fra ogni singolo "io" e gli altri, tale superamento nel concerto di Sciavolino è realizzato praticamente, mentre nel concerto di musica classica si riscontra una mera aspirazione ideale, una sorta di misticismo estetico. La musica di Sciavolino appartiene realmente all'inconscio collettivo, è sublimazione dei desideri della gente, mentre la musica classica attua un processo di sublimazione dell'intelletto (inteso in senso hegeliano).
 
La performance di Sciavolino sta a metà strada fra la stretta oralità della musica popolare, filtrata attraverso il jazz (e per certi aspetti legati a sonorità più aggressive anche attraverso il rock) e la complicata scrittura della musica dotta. La funzione dell'interprete è quella di un improvvisatore/creatore che, come anche nel jazz classico, ha un rapporto fisico con lo strumento e con il pubblico, sorretto da una forte gestualità, da una componente mimica essenziale alla comunicazione. Come per la musica della tradizione orale, Sciavolino non si esprime in senso astratto, ma prende di petto argomenti particolari, legati a problematiche specifiche di una determinata collettività o a esigenze generazionali. Il sound della musica di Sciavolino non può essere indicato precisamente in partitura, come del resto l'interpretazione popolare o jazzistica, appartiene a una dimensione del tutto legata all'interpretazione. La partitura non è altro che un canovaccio, una trama scritta solo nelle sue linee fondamentali, il cui sviluppo è, in gran parte, affidato all'abilità dell'esecutore che deve realmente interpretare, far prender corpo sonoro a pochi segni musicali.
 
La realizzazione del brano dipende dal talento comunicativo del compositore/esecutore che si trova di fronte una traccia minima da vivificare, un abbozzo da completare con le sue doti tecniche ed espressive. Il canovaccio è anche un indicatore dei ruoli sociali, uno schema comportamentale che mette in relazione il musicista a migliaia di persone: l'identificazione di Sciavolino con il suo pubblico è molto forte e profonda. Il narrarsi non distingue l'esperienza in maschile o femminile, diventa esperienza universale. L’esperienza che si compie abbandonandosi alle ragioni del suono. E’ così anche nei brani recenti e più complessi, come i 21 movimenti di Solitaire, scritto nel 1993, si tratta di improvvisazioni rese con vari sistemi grafici, grafismi presenti pure in Che dice Miles? per sax alto e sax tenore, corno e contrabbasso (lavoro con cui inizia l’esperienza dei "Forma Fluens").
 
Si veda anche la performance molto tesa, con elementi ripetitivi e gestuali di Berimbass (note con processore elettronico) oppure la musica a danza di Rose (Rosita Mariani), totalmente improvvisata. Accanto alla ricercata compiutezza della scrittura permane il senso del suono, dell’estemporaneità e la gestualità.
 
In Spigoli luccicanti (1994), che contiene un tema di Paul Motian, uno scorrevole richiamarsi di linee strumentali, fatte da piccoli frammenti, all’inizio ben inquadrati da pause eppoi sempre più aggrovigliati, conduce a un culmine drammatico dopodiché si ritorna alle linee ben scandite e chiare dell’inizio, ritornando dall’atmosfera infuocata del centro del pezzo a un clima più disteso. In Blue Calipso Moon (1996) Siavolino ricorre, per la prima volta in maniera impegnativa, alla voce (i testi sono di Luca Antonini) e se questo brano sembra avvicinarsi ancor più a un’impostazione classica, altri dimostrano come il nostro Autore oscilli sempre fra varie esperienze, infatti, ancora nel 1996, vedono la luce il grafico e gestuale Meccanica tellurica (una sorta di trascrizione sonora di una coreografia), il jazzistico Pafel Nifran (arrangiamento da Fasoli) e il divertissement Fralli di Tetalia (1997), dimostrando come, anche all’interno di un costrutto più razionalizzato, per Sciavolino quello che sempre predomina sono le ragioni del suono.
 
 
 
Da Le ragioni del suono, nella Collana Linguaggi delle musica contemporanea, a cura di Renzo Cresti, Miano, Milano 2000.







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