Marco Reghezza, "De bello pucciniano"
Marco Reghezza, De bello pucciniano, Lulu Editore, Torrazza Piemonte 2022.Puccini è stato un ‘caso’ fino agli anni Cinquanta del secolo scorso, quando il pubblico amava molto alcune sue opere (ma non tutte) e la critica era piuttosto scettica. Bohème, Tosca, Madama Butterfly erano opere amate, ma rispetto a qualche decennio fa sono entrare nel repertorio anche tutte le altre opere. Anche la stima che Puccini gode nell’ambito della critica e della musicologia oggi è assai aumentata. La svolta avvenne nel 1958, anno in cui si celebrò il centenario della nascita del Maestro. I primi a interessarsi con passione e intelligenza di Puccini furono i letterati, come Debenedetti, Siciliano, Arbasino, Baldacci, che misero in evidenza quel surplus espressivo che la drammaturgia musicale di Puccini emana. Poi vennero i musicologi, quali Sartori, Gavazzeni, Giovanetti, Carner e altri e furono pubblicati da Ricordi i Carteggi pucciniani a cura di Gara. Infine, molti grandi direttori d’orchestra iniziarono a presentare opere pucciniane, da Toscanini a Guarnieri, da De Sabata e Marinunzi, da Sonzogno a Serafin, ai quali poco dopo si aggiunsero Mitropoulos (che inserì La fanciulla del West nel cartellone del Maggio Musicale Fiorentino), Karajan (che diresse Tosca al Festival di Salisburgo) e quindi Schippers (che portò Manon Lescaut al Festival di Spoleto con la regia di Visconti).
Da qualche decennio il ‘caso Puccini’ pare definitivamente chiuso, grazie anche alla cultura postmoderna che trova molti punti di contatto con l’espressività pucciniana. Che lo stile di Puccini sia un po’ larmoyant è vero (“datemi almeno una scena per far piangere”), ma l’attuale cultura del cosiddetto neo-romanticismo o quella della leggerezza dell’essere non è sullo stesso piano? Che il fiuto teatrale di Puccini sia furbesco non c’è dubbio, ma pare proprio un’anticipazione degli studi che oggi fanno gli esperti di comunicazione di massa. Che la musica del Maestro sia eclettica e che ricorra a momenti di quotidianità (musicale) è certo, ma proprio il suo carattere composito la rende contemporanea (fusion si direbbe con un termine alla moda di opere quali Madama Butterfly, La Fanciulla del West e La rondine).[1]
La bibliografia su Puccini è aumentata in modo esponenziale e oggi è fra le più sostanziose per ciò che riguarda i compositori, per cui non è facile scrive trovando aspetti nuovi e particolari da approfondire. Eppure questo semplice e gradevole libro di Marco Reghezza scopre elementi interessanti e non ancora ben conosciuti del Puccini uomo e della sua musica.
Reghezza si concentra sull’analisi psicologica, iniziando la sua disamina con il rapporto madre-figlio, scrivendo che l’eroina delle opere pucciniane diventa «il punto focale su cui si concentra il dramma e che alla fine, rea di aver amato, di aver minacciato il sacro vincolo madre-figlio, debba morire» (pag. 22). Il punto di partenza e di costante riferimento è il libro di Mosco Carner, Giacomo Puccini, uscito per Il Saggiatore nel 1961, ma anche i citati Carteggi pucciniani curati da Gara.
Il volume porta diverse prefazioni, fra cui quella del baritono Carlos Alvarez Rodriguez che scrive: «il lettore verrà a conoscenza di come le influenze personali pucciniane abbiano avuto una traduzione nella sostanza e nella forma della sua musica e dei suoi personaggi» (pag. 9). Un altro baritono, Luciano Miotto, approfondisce il concetto dicendo che «Reghezza ci propone un percorso molto attendibile e originale per comprendere l’evoluzione e l’influenza dell’inconscio di Puccini nella successione dei suoi capolavori operistici» (pag. 10) e così anche lo storico e antropologo José Manuel Nuñez De La Fuente: «Reghezza ipotizza che l’inconscio pucciniano sia stato controllato fin dall’infanzia da un tipo di ‘madre terribile’, secondo la tipologia clinica di Carl Jung. A questa situazione avversa Puccini contrappone nelle sue opere alcune sfortunate eroine che inevitabilmente vengono giustiziate. Questo accade per la conseguente sublimazione del Super-Io creativo del vero protagonista della maggior parte delle opere, Puccini stesso, che ribalta il suo ruolo da succube a dominatore» (pag. 11). Il compositore Giovanni Scapecchi sottolinea la necessità di Puccini «di incarnare un amore profondo» (pag. 12), mentre la soprano Adriana Iozzia mette in evidenza gli «innumerevoli spunti di riflessione» che il testo suscita; l’altra soprano Elisabetta Zizzo vuole giustamente evidenziare che «il testo si lascia leggere tutto d’un fiato» (entrambe a pag. 13). Il tenore Israel Lozano conclude che «il De bello pucciniano è anche uno strumento di studio per musicisti, cantanti e artisti, così come per le nuove generazioni di amanti della musica classica» (pag. 10).
Che il libro sia un buono strumento di studio è fuori discussione sia per la lettura piana sia per le molteplici riflessioni che intrecciano biografia e opere sia per l’attenta analisi psicologica. Inoltre, l’approccio interdisciplinare aiuta nel collegare vari aspetti della cultura, da quella letteraria a quella musicale, da quella psicologica a quella sociale. I titoli dei capitoli sono rivelatori: Conseguenze della spiegazione psicanalitica, Artisti contemporanei incatenati all’inconscio, Percorsi e sviluppi inconsapevoli dell’opera pucciniana.
La seconda e la terza parte del libro sono dedicate alle opere, dalla prima Le Villi all’ultima Turandot, in cui Reghezza si sofferma sui conflitti interiori, sugli aspetti simbolici e su come questi si riscontrano a livello musicale. Di rilievo l’ultimo capitolo in cui si indicano vari parallelismi fra le opere di Puccini e di Pascoli. In conclusione, è un libro consigliabile agli studiosi come agli studenti, di facile lettura ma non banale e con diversi spunti interessanti.