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Stefano Bollani, Parliamo di musica, libro
Stefano Bollani, Parliamo di musica, settima ristampa, Mondadori, Milano 2015, pp. 135, 10 euro.

"La musica acquista senso se crea vita dentro di noi", scrive Bollani a pag. 25 di questo fortunato libro che è arrivato alla settima ristampa. In effetti se lo merita perché coraggiosamente (e un po' da incosciente) mette in risalto alcuni aspetti, come quello inserito in quarta di copertina: "l'idea che per capire la musica si debba per forza possedere un certo bagaglio culturale è una furbata, spesso è una scusa per pigri o una medaglia acquisita sul campo per chi crede di essere fra quelli che la 'capiscono'. Avere gli strumenti per godere della musica non significa conoscere né l'armonia né l'epoca in cui è stata scritta né il retroterra culturale del compositore, ma riconoscere qualcosa che abbiamo dentro e che risuona". Certo, si può godere della musica anche senza questi strumenti però averli aiuta. Chi ascolta la musica così è il pubblico delle canzonette, che intende la musica come ludico passatempo o come sottofondo. Fra l'altro il verbo godere sposta l'ascolto su un piano pericolosamente soggettivo, vagamente romantico/crepuscolare, legandolo al gusto, all'emozione. E' una dichiarazione fra il naif e il furbesco, anche questa una furbata? Per attirarsi le simpatie di un pubblico incolto?

Comunque è vero che anche senza sapere con precisione cosa stiamo ascoltando e come la cosa sia costruita, se ne possa percepire il senso e la bellezza. Bollani, che proviene dal Conservatorio, sa bene quali siano i pregi e i difetti della formazione accademica, fra i pregi senz'altro quello di una preparazione tecnica senza la quale sarebbe stato impossibile per Bollani realizzare quello che ha realizzato, passando con disinvoltura dal suonare jazz alle grandi orchestre con direttori famosi. Fra i difetti la rigidità dell'impostazione e la metodologia attardata, certamente Bollani non ha imparato in Conservatorio la sua abilità a improvvisare.

C'è musica e musica, dice un vecchio detto, ripreso da Luciano Berio nelle sue trasmissioni televisive del 1972, divenute un cult; c'è pubblico e pubblico, c'è ascolto e ascolto, ci sono funzioni diverse e aspettative differenziate, sembra che Bollani voglia comprenderle tutte, il talento ce l'ha, il rischio è quello del patchwork. "Il genere può creare una barriera", scrive Bollani a pag. 95, l'attraversamento dei cosiddetti generi è un tratto tipico del Postmoderno ma proprio perché è atteggiamento tipico se ne conoscono bene le degenerazioni formali ma soprattutto espressive: se l'attraversamento non viene vissuto diventa un semplice giochetto ossia ciò che si sente troppo spesso è che manca l'assimilazione della musica e della cultura a cui si fa riferimento, la si prende come oggetto astratto, inanimato e la si monta senza riguardo, patchwork appunto.

Bollani ci dice che la "seduzione entra in gioco nelle pieghe, nelle sfumature", indubbiamente, alcuni esempi corrono nelle pagine del libro; di solito è sempre una questione di particolari. Diffcile incontrare un compositore che non sappia scrivere o un interprete che non sappia suonare, molto facile è incontrare buoni professionisti che poco o nulla comunicano perché fanno musica di routine senza donarle vita. Quel che conta è riuscire a dare un senso a ciò che si fa, fra ragione e sentimento, con partecipazione. Questo significa seduzione.

Il libro si legge con leggerezza, interessante come racconto di un'esperienza di un grande musicista, qual'è indubbiamente Bollani, e anche per alcune riflessioni sul pubblico, sull'empatia, sulla seduzione e sull'ascolto. Qualche affermazione è un po' buttata là, sulla quale ci sarebbe molto da discutere, ma, nel complesso, il libro dev'essere letto.



http://www.stefanobollani.com/







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