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Formazione e comunicazione
Formazione e comunicazione in musica

 


La musica, anche se in Italia pare un’utopia, dovrebbe avere un ruolo centrale nella formazione della personalità. Se non si amplia il bacino di utenza di un ascolto consapevole si lascia campo libero alla musica commerciale; già da qualche tempo i concerti di musica classica e ancor più le opere liriche hanno un pubblico attempato e ciò dipende prevalentemente dalla scarsa educazione musicale; oltre il 90% del mercato musicale è fatto dalla musica leggera, la percentuale cambia in meglio nei paesi mitteleuropei, soprattutto in quelli di tradizione luterana, la quale, fin dalla Riforma, ha sollecitato il popolo a pregare cantando, tutti, in prima persona e non solo nelle corali ma in casa, poi anche a far musica strumentale fra amici, hausmusik, collegando la musica alla vita reale della gente, alla spiritualità, al pensiero, al lavoro, al divertimento intelligente e civile. Dal Cinquecento in avanti, la musica inizia ad avere un ruolo prioritario non solo fra le arti (che porterà alla massima considerazione della musica nel Romanticismo) ma pure nella filosofia e nella letteratura.[1]
               
In Italia, la musica vive in una sorta di mondo a parte, vi è ovviamente la grande diffusione della musica commerciale, sostenuta dai mass media ma anche dai teatri,[2] ma la cosiddetta musica d’arte soffre di un isolamento che oggi si potrebbe chiamare di ‘nicchia’, pochi i posti dove si può studiare, pochi quelli che vi si dedicano, non vi è un’educazione generalizzata ma solo quella coltivata dai professionisti. Nel nostro sistema scolastico la musica entra tardi e male, non si fa musica nell’infanzia e nell’adolescenza, quando sarebbe importante per l’apprendimento e per la formazione della personalità, inoltre, quando la musica entra nella scuola media inferiore, viene fatta in modo ridicolo, con metodologie vecchie e con scarsa considerazione in un ambiente prevalentemente basato sulla dualità letteratura-matematica. Un discorso analogo potrebbe essere svolto per lo studio dell’arte figurativa.
               
Nel 1999 è iniziato un processo di riforma dello studio della musica che si è concluso un decennio dopo, riforma che è partita dall’alto ossia dal parificare i Conservatori alle Università con il Triennio che rilascia la laurea di primo livello e con il Biennio, con l’esame di ammissione dopo aver conseguito il diploma di scuola media di secondo grado e con i riferimenti normativi emanati dal Ministero dell’istruzione. Subito vengono degli interrogativi: entrare in Conservatorio a 18 anni non è troppo tardi? E in quei 18 anni il candidato dove può studiare seriamente la musica? Per rispondere si sono istituiti i Licei musicali che, per la loro impostazione generalistica, non possono preparare ad alto livello i musicisti, infatti, già nel solo giro di un paio di anni si sta notando un abbassamento del livello di preparazione.[3]
               
Vi è l’annoso e per l’Italia scandaloso problema dei finanziamenti, l’attuale crisi economica non c’entra perché la scarsità di risorse è una costante, si tratta di una disattenzione gravissima che mina le basi stesse del vivere civile perché, quando non si porge la dovuta attenzione all’educazione dei giovani, si regredisce a un livello di bassa civiltà.
               
Per quanto riguarda i programmi, negli ultimi anni vi è stata una leggera apertura e un piccolo aggiornamento ma del tutto insufficienti, nell’epoca della velocità l’unica possibilità di tenere la scuola in parallelo all’evoluzione sociale è quella di non avere alcun programma pre-definito ma di modellare la programmazione di anno in anno. Certo è che per mantenersi al passo con i tempi che mutano di ora in ora ci vogliono antenne intellettuali molti sensibili mentre la gestione scolastica è in mano burocratici che ben poco hanno a che fare con le culture contemporanee.
               
Il sistema scolastico francese avrebbe dovuto far riflettere quei funzionari che hanno messo a punto la nostra riforma. In Francia ci sono circa 150 istituzioni scolastiche di musica, quindi ben più che in Italia i Conservatori (che con la riforma comprendono anche gli ex Istituti pareggiati, in tutto un centinaio), mentre in Italia si fanno più o meno le stesse cose dappertutto, in Francia vi è una funzionale organizzazione piramidale: vi sono scuole municipali, oltre 100, in cui si insegna musica a livello diffuso e primario; vi sono poi le scuole di musica a livello regionale, oltre 40, nelle quali si iscrivono gli allievi di quelle municipali che hanno intenzione di migliorare gli studi; i più dotati, coloro che probabilmente faranno davvero i musicisti di professione, si perfezionano alle scuole superiori di Parigi e di Lione, scuole superiori che in Italia non esistono.[4] Da noi si diplomano, ogni anno, centinaia di musicisti! Una vera fabbrica di disoccupati.
               
Dalla Germania ci sarebbe molto da imparare sulla puntualità dell’organizzazione e sulla messa a fuoco delle problematiche, infatti, molti Conservatori hanno settori specializzati, cosa importante per mirare meglio le esigenze del mercato musicale e per esaltare le qualità dei vari corpi docenti, da noi invece, di solito, sono sottoutilizzati (a volte meglio così perché molti sono di basso profilo professionale). Per la qualità della docenza una strada sicura ci sarebbe: aprire i concorsi a livello della Comunità europea, con commissioni internazionali che avrebbero anche il compito di valutare i currucula ogni tre anni. A proposito di funzionalità, in Germania, per esempio, il Conservatorio di Weimar è specializzato nel teatro musicale, quello di Berlino nel Jazz, quello di Friburgo nella nuova musica, questo conservatorio rilascia anche diplomi specialistici per solisti di musica strumentale. In Svizzera esiste una Federazione delle scuole di musica, con controllo di qualità affidato al Conservatorio di Ginevra.
               
Nei nostri Conservatori si fa musica al singolare, generalmente quella del grande repertorio che va dal tardo Seicento all’inizio del Novecento, tagliando fuori tutto quello che sta prima di Monteverdi e dopo Ravel. Soprattutto il taglio delle musiche contemporanee è grave perché sono quelle che abbracciano il nostro vissuto e che, spesso, sono quelle più ascoltate dai giovani.
               
Quando parla del terzo atto del Tristan und Isolde, Adorno dice che è una pagina che rimarrà immortale finché perdurerà la cultura borghese che l’ha vista nascere e all’interno della quale queste pagine sublimi hanno effettuato, effettuano ed effettueranno la loro influenza. Il Moderno ha visto affermarsi il fenomeno della colonizzazione, il cosiddetto Postmoderno ne ha declinato i tratti non più in termini militareschi ma prevalentemente economici e culturali, infatti, negli ultimi decenni forte è stata l’esportazione in tutto il mondo della cultura eurocentrica e statunitense, parallelamente però è avvenuto anche il contrario ossia le culture del resto del mondo hanno contaminato la nostra. Sul presentare la musica della nostra tradizione i Conservatori sono in grado di farlo bene, sullo studio di tradizioni altre e di nuove tendenze no.
               
La musica è diventata, a tutti gli effetti, patrimonio culturale, il quale non è più solo relativo ai monumenti storici, la sua accezione s’è ingrandita non solo coinvolgendo tutte le arti ma anche altri aspetti che erano assenti nella vecchia definizione di patrimonio culturale e di belle arti, come il rilievo sociale, la capacità di attrazione delle masse, il saper emozionare al di là della tradizionale idea di bellezza e dei giudizi tecnico-formali dei cosiddetti esperti di settore. L’estetica classica ha perduto, e non da oggi, ogni sua alta configurazione, perdendosi nel mare magnum della complessità. Da quando le grandi narrazioni sono state sbriciolate dalla molteplicità e dalla velocità dei fatti, l’estetica s’è ridotta a una semplice riflessione sui fatti dell’arte, a considerazioni a posteriori, a classificare, a storicizzare, a descrivere. Ha perso il suo ruolo di guida, non è più in grado di indirizzare, in quando ogni direzione può essere valida, dipende dal punto di vista e dagli obiettivi prefissi. Come l’estetica anche la bellezza e l’arte possono essere facilmente trascinate nel campo melmoso delle ideologie, dei sistemi astratti, delle teorie, delle scuole di pensiero o, dall’altro, nel futile terreno del gioco, dell’empirismo, del sensismo neo romantico. Ciò che conta, e gli ultimi quant’anni di post modernità ce lo hanno mostrato con chiarezza, è la ricerca del senso delle cose, il suscitar emozioni, in un attraversamento di territori culturali differenti dove non è possibile fermarsi, in un nomadismo che incrocia civiltà in movimento. Il problema è che oggi si fa un gran parlare di comunicazione ma si tratta di una forma leggera e impalpabile, virtuale, sono questi gli anni di una ridondanza condivisa, in maniera eterea e vaga. Siamo dentro l’occhio del ciclone, sentiamo un turbinio di parole e di suoni, vediamo milioni di immagini e di colori, ma nulla ci tocca veramente e proviamo sempre meno sentimenti autentici.
               
Qual è il ruolo della musica nell’epoca della globalizzazione? Per il suo statuto diremmo ontologico di arte pre-verbale e fortemente legata all’emotività primordiale, la musica può essere l’arte dell’autenticità del sentire, dell’udire il suono interno su cui ogni individuo è accordato e del nutrirlo con coscienza. Contro l’invadenza di pensieri forti o della leggerezza dell’essere la musica con-prende, presagisce, capta il nocciolo nascosto dell’essere e dell’esserci. Contro le stupidità delle musiche commerciali la musica comunica il senso vero dell’esistenza, per capirne il messaggio però bisogna essere educati, solo con una profonda partecipazione al suono si ha consapevolezza del suo come, del suo cosa e del suo perché. Come dice Nietzsche, la vita senza la musica sarebbe un errore.

Un altro ruolo, subordinato al primo ma altrettanto importante in questi anni di globalizzazione è quello di far cooperare linguaggi diversi, in modo che ognuno si apra all’accoglienza dell’altro, divenendo il viatico al dialogo fra uomini di culture differenti; il rimaner attaccati a un repertorio abitudinario non è solo una banalità didattica ma nega l’intera cultura dell’epoca in cui viviamo. La musica, più volte definita come linguaggio universale, può davvero rappresentare un ponte fra civiltà diverse assumendo un linguaggio della trasversalità, sempre declinato al plurale.

Infine si torna al punto di partenza, la comunicazione è inscindibilmente legata alla formazione, creando un intreccio[5] fatto di rimandi reciproci fra educazione e civiltà, fra le idee e l’agire, fra studi e fantasie, fra scientificità ed emotività, fra istruzione e cultura, fra maturazione di un individuo e di una società e realizzazione di una partecipata solidarietà, di una comunicazione che sia, etimologicamente, un dire e una fare nella e per la comunità.




[1] In Italia non si è mai avuta una partecipazione alla musica religiosa così intensa e continuativa soprattutto in prima persona, storicamente sono stati i cori a svolgere la preghiera cantata. Una funzione analoga a quella della hausmusik, ma realizzata solo dall’inizio del 1800 e in forma meno diffusa, venne svolta e in parte si svolge ancora, dalle Bande musicali. Sulle problematiche di questo scritto cfr. Renzo Cresti, Rapsodia di testimonianze e pensieri, in La musica in eredità, Maria Pacini Fazzi, Lucca 2012.
[2] I teatri, dalla Scala in giù, inseriscono in cartellone, sempre più spesso, concerti di musica leggera in quanto le esigenze del botteghino sono diventate imprescindibili sia perché i finanziamenti pubblici sono diminuiti sia perché le sovvenzioni dei privati latitano (non siamo negli Stati Uniti dove i contributi si possono scaricare dalle tasse).
[3] Di questa situazione se ne stanno giovando le scuola private, di solito, con programmi sui generis e con preparazioni non adeguate.
[4] L’Accademia Nazionale di Santa Cecilia è un caso a sé ed è indipendente dal percorso didattico che si realizza nei Conservatori.
[5] Cfr. Paul Veyne, Comment on écrit l’histoire, Seul, Parigi 1971.



A tutti i miei allievi



http://www.afam.miur.it/argomenti/istituzioni/conservatori-di-musica.aspx







Renzo Cresti - sito ufficiale