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Alfredo Catalani
La debolezza di Alfredo Catalani e la nostra




Un confronto con Puccini e il Postmoderno

Sono l’accoramento e l’afflizione a costituire il tratto espressivo tipico della musica di Catalani, tratto che corrisponde appieno all’abbattimento psicologico e all’amarezza che lo accompagnano per tutta la vita. «Il povero Catalani è sempre giallo, macilento e sparuto» scrive Mascagni (1), l’equazione classica Eros=Thanatos viene vissuta direttamente, sulla propria pelle, a nervi scoperti, senza mediazioni. Lo stile musicale non riesce a filtrare, la forma non possiede argini così robusti per incanalare i turbamenti e così il procedere della musica si fa affannoso.

Che la morte potesse essere dolcissima e che l’amore potesse risolversi in un canto d’addio lo avevano insegnato Tristano e Isotta, ma in Wagner l’Eros e il suo complemento Thanatos sono sorretti da un’impalcatura intellettuale e drammaturgica, nonché musicale, poderosa e profonda, mentre in Catalani l’elegia predomina sul dramma e la sofferenza viene posta come un valore in sé, senza modellarla in una concezione teatrale, in situazioni drammaturgiche; si descrive la disperazione senza che questa sia risolta in una temperatura drammatica forte e chiara. «Le eroine di Catalani sono pure amanti, e le congiure degli uomini e degli eventi avranno su di loro l’effetto di spingerle a un amore sempre più esclusivo e impossibile, fino al sacrificio finale. Anche le donne di Puccini amano fino al sacrificio, ma Puccini tende a infliggere alle sue creature, come nota Carner, sofferenze e torture, Catalani invece le esalta come supreme vittime dell’equazione primordiale amore=sacrificio, proprio quando gli altri tendono a imporre le loro torture. La differenza porta alla constatazione di un impulso sadico in Puccini e masochistico in Catalani» (2).

Se la sofferenza deriva da uno stato di salute assai malfermo, l’amarezza deriva dalla contrarietà con cui Catalani vive il mondo dell’arte, il pragmatismo dell’ambiente teatrale, l’utilitarismo di impresari, editori, colleghi compositori, quel mondo in cui Puccini sguazza. Catalani non ha fiducia in Puccini e, sul letto di morte, quindi non accusabile di secondi fini, dirà a Toscanini «quell’uomo non è sincero», cogliendo l’aspetto di furbizia ed egoismo che fa parte del carattere di Puccini e il conseguente aspetto d’artificio che inficia la sua musica. Qui tocchiamo un nodo centrale del carattere della musica dei due grandi lucchesi e del rapporto personale fra i due: la mestizia e la disillusione nei confronti della vita sono presenti in entrambi ma, mentre in Puccini vengono compensati da un carattere aperto e perfino goliardico, in Catalani rimangono – per così dire – allo stato puro generando sofferenza (anche fisica), rimpianti, rabbia. Lo stesso si può dire per il carattere espressivo delle loro Opere: in Puccini i momenti di sofferenza sono ben compensati da momenti di gioia, in un equilibrio che esalta gli opposti e crea uno stile formalmente bilanciato, dove la mestizia non è l’unica tinta ma vi sono variegate pennellate impressionistiche; nel teatro di Catalani invece vi è uno scompenso espressivo, si direbbe un’esagerazione di toni mesti che affliggono l’ascoltatore, avvolgendolo con note dolenti che non si concedono quasi mai alla felicità del brio, all’attimo veramente lieto. Non è solo una questione espressiva, il prevalere della mestizia non porta solo alla noia ma conduce anche a uno squilibrio formale, è come se Catalani usasse uno stile mono-tono, una “tinta” – per dirla alla Verdi – monocroma che non consente effetti di luce o di primi piani e lontananze. La concezione generale dell’Opera ovviamente ne risente e oltre a rimanere statica manca di quei contrasti e cambi di tempi che sono necessari al dispiegarsi dell’azione teatrale.

Manca a Catalani quel senso del teatro che Puccini dimostra di avere in maniera superba seppur con un pizzico di artificiosità, mentre Catalani si mostra sempre sincero. Sincerità è dote assai preziosa ma oggi poco apprezzata. “Comunicazione” è la parola tanto sbandierata ma non si bada se questa è sincera, onesta, genuina, anzi non si esita a ricorrere all’iperbole, all’artificio, alla leggerezza di un’espressione vacua pur di rendere la comunicazione una forma di spettacolo, un’esibizione di vanità, un divertimento per i poveri di spirito, uno show dove i sentimenti vengono recitati per il puro piacere del mostrarsi. Non vi è vero pathos ma solo artificio. Questo è il Postmoderno (3) e in questo contesto le Opere di Catalani appaiono vecchie, mentre quelle di Puccini godono di buona salute.

Se si chiude Catalani all’interno delle coordinate culturali del proprio tempo lo si storicizza nell’immobilità del passato, ma così facendo lo si consegna nel rigor mortis dell’ermeneutica accademica (4), quando invece occorre riscoprine gli aspetti in sintonia con la civiltà e la sensibilità contemporanea: sono gli aspetti deboli della personalità debilitata di Catalani, i caratteri spossati dei personaggi sfibrati delle sue Opere, gli esili profili musicali a volte cedevoli; sono aspetti che danno fastidio ai sostenitori del pensiero forte del Moderno, delle forme compatte e degli stili volitivi amati dagli accademici, ma che trovano piena cittadinanza nella cultura del Postmodern, debole, eterogenea, fatua, proprio come la musica di Catalani.

La cultura di oggi riscopre i sentimenti e le emozioni, tanto che si è perfino parlato di neo-romanticismo, dunque è bene lasciarsi avvolgere da quel surplus espressivo che la musica di Catalani emana (e che a molti musicologici ha dato e dà fastidio). Un’opera d’arte è tale per il suo quid espressivo assolutamente originale non certo per i procedimenti strettamente tecnici, la tecnica è condizione necessaria ma non sufficiente a creare l’opera d’arte, la quale deve vibrare di vita vissuta, provocare eccitazioni e batticuori, da questa angolatura Catalani è davvero eccezionale, perché sa – inconsapevolmente – sfruttare le qualità d’espressione vaga che il linguaggio della musica coglie in profondità. Salviamo Catalani dagli storici e dagli analisti, godiamocelo negli aspetti più tristemente (e tritamene) romantici, nelle sue spinte emotive, negli impulsi e nelle apatie. Sintonizziamoci sull’emotività triturata e consunta che la post-Modernità ci ha consegnato, ameremo di più e meglio la logora espressività di Catalani e le nostre banalità.

L’aspetto linguistico in arte è sui generis (5), in quanto la musica come tutta l’arte non è un vero e proprio linguaggio, come quello delle parole, ma è un modo che esprime e comunica proprio ciò che il linguaggio verbale non può dire o può farlo solo parzialmente. La musica, come il “linguaggio” dei simboli o dei riti o dei miti o delle leggende o delle fiabe oppure come il “linguaggio” dei gesti o dei colori o delle affezioni o dei sentimenti o delle impressioni o dei suoni e di molto altro, non cade sotto la ratio del dire enunciativo, assertivo, informativo, ordinativo, convenzionale. Nessun Autore è meno assertivo di Catalani affetto da un’inguaribile malinconia e da un sottile mal d’esistere.

All’educazione sentimentale e musicale di Catalani contribuiscono diversi elementi: più di Puccini è attratto dal sentimentalismo romantico con richiami a Bellini, Chopin e Schubert, e come Puccini subisce l’influsso dell’Opera francese. I tratti elegiaci e il gusto per il colore orchestrale velato sono tipicamente lucchesi, analoghi a quelli di Puccini ma con una mestizia e una nostalgia sognante più pronunciate, non a caso Catalani predilige per i suoi quadri descrittivi le solitarie ambientazioni, spesso di carattere alpestre. Incline a toni velati e melanconici, di natura malaticcia (più volte deve ritemprare il suo gracile fisico andando in montagna), Catalani non possiede l’intuizione e la forza di Puccini, subendone anche il carattere più pronunciato. Come per Puccini però il substrato culturale della musica di Catalani è quello dell’Opera francese e di Massenet in particolare, riferimenti stilistici che Catalani declina nei modi crepuscolari, infatti il Maestro lucchese subisce fortemente il periodo di crisi della cultura di fine Ottocento, mostrando un certo disagio per il Verismo e per la fine del periodo d’oro del Melodramma italiano romantico che aveva avuto in Verdi il suo alfiere irraggiungibile.

Il tipo di espressività avvertito nelle Opere di Catalani è tipicamente crepuscolare, vicina a quella espressa dai “poetini piagnucolanti”, come li chiama Turati, affetti da una malinconia complice, da una tenue sofferenza senza tempo accompagnata da atmosfere rarefatte, da consunti quadretti d'ambiente, da un ritmo di elegia che conduce al pianto liberatorio. Catalani è compositore ipersensibile, di pudore femmineo, elegante, percorso da fremiti esangui, caratteri riscontrabili anche nella musica pucciniana, ma a differenza di questa nella musica di Catalani i toni decadenti e i languori mortali sono resi da una canto disadorno e scarno, meno espansivi di quelli di Puccini, meno spettacolari. I toni autobiografici si dipanano in singulti disperatamente repressi e i fremiti drammatici comunicano una fragile poesia, scritta col lapis. Diversamente Puccini sa finalizzare le suadenti linee melodiche a una dinamica teatrale ben delineata e il raccolto respiro sonoro sa coinvolgere il pubblico nei meccanismi della messa in scena. Catalani bisogna amarlo nelle sue debolezze.

Il sottile mal d’esistere narrato dall’orchestra

Catalani è figlio d'arte, infatti il padre Eugenio era un musicista, insegnante e organizzatore musicale, come pure il nonno Domenico. Questo ci porta al tema di Lucca città di musicisti e delle tante famiglie di musicisti che, dal Cinquecento in avanti, hanno vissuto e dato lustro alla cittadina toscana. Se Lucca ha donato musicisti di fama internazionale quali le famiglie Guami, Dorati, Geminiani, Gasparini, Barsanti, Boccherini, Puccini, oltre a numerosi altri, la ragione consiste nel fatto che la città, fin dal Medioevo è ricca di situazioni musicali che costituiscono l’humus necessario a realizzare un contesto favorevolissimo per lo sviluppo della musica. Contesto ricco e variegato che però si ferma alle attività pratiche della musica nelle Cappelle locali non avendo le opportunità di creare qualcosa di professionalmente evoluto, tant’è che tutti i più grandi se ne vanno dalla Città per realizzare la carriera in altre parti d’Italia e all’estero; così è anche per Catalani che inizia gli studi nel 1863 presso l'Istituto musicale della città, dove è allievo per la composizione di Fortunato Magi, ma dopo aver conseguito il diploma (presenta una Messa a 4 voci, coro e orchestra, che ottiene positivi giudizi di critica e di pubblico, come avviene anche per Puccini) Catalani va a perfezionare i suoi studi al Conservatorio di Parigi e in seguito, nel 1873, al Conservatorio di Milano, dove si lega agli ambienti della Scapigliatura, e a Lucca ritorna solo ogni tanto per trascorrere periodi di riposo.

La prima Opera, La falce, su libretto (pessimo) di Arrigo Boito, viene rappresentata proprio nel teatro del Conservatorio milanese, è un’«egloga orientale» che ottiene un discreto successo che gli apre le porte delle Edizioni Lucca. Giovannina Lucca gli fa da protettrice (e un po’ da mamma) e quando passa alle Edizioni Ricordi non si trova bene (alla Ricordi Puccini detta legge). Al Conservatorio il suo Maestro è Bazzini che lo introduce ai segreti della musica strumentale. Non è dunque un caso che alcune delle pagine più belle della produzione di Catalani siano quelle orchestrali (col “sinfonismo” Catalani ha poco da condividere, il termine va inteso in maniera generica o etimologica senza rimandi specifici alla forma della Sinfonia) . Già all’epoca de La falce, nel luglio del 1875, i giornali parlano dell’aspetto strumentale, il Filippi nel giornale “La Perseveranza” scrive che «la parte sinfonica è pregevole […] il pezzo migliore de La falce è il prologo sinfonico».

Proprio negli anni Settanta la Sinfonia descrittiva e il Poema sinfonico prendono il posto della Sinfonia o Ouverture rossiniana, si tratta di composizioni a programma a evidente carattere narrativo, quadri d’ambiente che passano anche nella coeva Opera teatrale. Già precedentemente con Foroni, Bottesini,Boito (la sua Sinfonia in LA min. è del 1858), Faccio, Mariani e con Bazzini l’Ouverture descrittiva aveva dato origine a ciò che Dahlhaus chiama “neo-romanticismo” post 1848 che riprende tematiche da Liszt e Wagner. Gli allievi di Bazzini, come Catalani, ma anche Puccini, Smareglia, Mancinelli, Coronaro, sono dunque ben informati sull’evoluzione della musica orchestrale e inizia anche un produttivo scambio di esperienze fra musica operistica e orchestrale, la stessa parabola di Verdi lo dimostra (da ricordare come il grande Maestro di Busseto abbia avuto rapporti stretti prima con Faccio, Mariani e poi con Boito), soprattutto le due Sinfonie che Verdi compone per La forza del destino e per Aida stanno a significare quanto il discorso orchestrale sia entrato in quello operistico (Otello ne sarà un esempio sommo).

Catalani riprende da Bazzini la tecnica della costruzione del discorso musicale partendo da un motivo irradiante, il Poema sinfonico Ero e Leandro lo dimostra ampiamente. Ma il giovane Catalani supera il Maestro nel riuscire a creare una narrazione continua, priva di quelle riprese tipiche di Bazzini che appesantiscono lo scorrere del tempo musicale. «Il motore propulsivo della grande forma è il complesso dei motivi, la loro trasformazione progressiva e il loro intreccio, guidato dalla traccia programmatica. Anche in questo senso il Poema sinfonico di Catalani rappresenta uno dei più fedeli, efficaci, ma non epigonali trapianti del linguaggio “sinfonico” wagneriano in Italia. Svincolatosi dall’esclusivo impiego del rapporto tonale di terza fra le sezioni della forma, Catalani introduce nuove relazioni come la quarta eccedente (RE - SOL#), l’accostamento di aree tonali a distanza di tono o semitono, tipiche del suo linguaggio e rintracciabili, ad esempio, in Loreley o in La Wally» (6). Pure l’intervallo di quinta eccedente si riscontra spesso nel tessuto armonico, grazie alle sue caratteristiche di sospensione tonale questo intervallo crea una zona neutra particolare che attrae l’attenzione e nella quale è meglio focalizzabile, come in uno zoom, un atteggiamento espressivo.

Il sottile mal d’esistere, così tipico del Crepuscolarismo e dell’intera produzione di Catalani, viene evocato, narrato, celebrato nelle molli sfumature orchestrali: l’intreccio delle voci e le stesse Arie si adagiano su questo carezzevole cuscino orchestrale, avvinghiandosi come l’edera del celebre quadro di Tranquillo Cremona.

Dopo la rappresentazione dell’Elda i giornali riescono e evidenziare alcuni tratti tipici della musica di Catalani, “Il Progresso” dell’8 febbraio 1880, mette in risalto il «carattere riservatissimo […] la natura artistica complessa […] Catalani è anzi tutto un gran coloritore, ma non gli manca neppure l’ispirazione melodica», la riservatezza ai limiti del soliloquio, la complessità delle patologie psichiche e fisiche che sfociano nei caratteri dei personaggi delle sue Opere, la bravura dello strumentatore, sono dunque ben comprese, ma il giornale dice di più quando scrive del «disprezzo che egli ebbe sempre per tutti quei mezzucci di réclame» e sembra riferirsi allo spirito speculativo di Puccini! Lo stesso giornale “Il Progresso”, esattamente dieci anni più tardi, il 22 febbraio 1890, dimostra di aver capito qual è il problema del teatro di Catalani: «la musica è finissima, ma in certi punti è languida e nel complesso appare monotona» dunque la spossatezza dei suoi personaggi trapassa pure nella concezione generale che si fa lieve e tenue, forse fiacca e debole. Al contrario delle robuste concezioni drammaturgiche di Verdi e Wagner, Catalani si situa su un versante più leggero, come Puccini, ma con una svenevolezza che svigorisce l’espressione e la forma.

Meyerbeer, Wagner e gli altri compagni di viaggio

Catalani a Milano ascolta, oltre alle Opere di Massenet e Gounod, molte Opere di Meyerbeer, il quale, già dagli anni Quaranta, era diventato famoso e portatore di una nuova poetica denominata “eclettica”. Ai compositori d’Oltralpe si aggiungono suggestioni wagneriane che divengono un elemento decisivo per la messa a punto della musica di Catalani. Se l’influenza dei Maestri francesi è facilmente documentabile sia nella parte biografica sia in quella musicale l’influsso di Wagner è più problematico, infatti – a parte Tannhäuser e Lohengrin – Catalani non può aver conosciuto, negli anni della sua formazione, nessuna altra Opera wagneriana, ma può averne sentiti vari spezzoni sia nel suo soggiorno parigino sia in Italia, visto che Wagner, dagli anni Settanta in poi, è l’Autore straniero più eseguito dopo Beethoven, anche se presentato principalmente con alcune pagine orchestrali, come l’ Idillio di Sigfrido, il Preludio de I Maestri cantori, la Cavalcata delle Walkirie, alcuni estratti dal Crepuscolo degli dei e dal Parsifal. (la prima italiana del Tristano e Isotta avviene a Bologna nel 1888 diretta da Martucci).

L’accusa di essere dalla parte di Wagner, che negli anni Settanta e Ottanta dell’Ottocento era un’infamia e che certo non aiutò Catalani, risulta essere ben poca cosa, ma certo le suggestioni wagneriane sono ben presenti. Catalani, come molti altri musicisti, subisce il carisma che il nome del Maestro tedesco portava con sé e che si riscontra nel trattamento motivino del Poema sinfonico Ero e Leandro e in certe parti dell’Elda (modellate sui secondi atti del Tannhäuser e del Lohengrin), ma si potrebbe anche dire che l’elemento soprannaturale fa riferimento alle streghe del Macbeth verdiano e soprattutto che l’impianto generale risente (più nell’Elda che nel suo rifacimento Loreley) del Grand-Opéra del ben conosciuto Meyerbeer. Le poetiche e le musiche di Catalani e quelle di Wagner sono in effetti inconciliabili, mentre quelle dei Maestri francesi, così come quelle di Verdi (e del Ponchielli de La Gioconda) gli sono assai più vicine, malgrado che Catalani volesse essere à la page seguendo Boito nel suo interesse per la situazione culturale mitteleuropea (c’è però da dire che la musica della Mitteleuropea Catalani l’aveva conosciuta fin da giovane, soprattutto grazie al padre e al nonno che gli avevano fatto conoscere Mozart e Beethoven).

A differenza del teatro d’azione verdiano quello di Catalani è statico e introduce l’Opera di un Cilea e ancor più di un Pizzetti, scarna e gracile, basata su eleganze armoniche e timbriche, su una melodia che si avvolge all’orchestra e su uno stile “eclettico”.

La febbre di un piccolo borghese

Negli anni di metà Ottocento italiano si manifesta una profonda crisi letteraria, infatti, dopo la virile stagione della prima parte del secolo, si succedono e s’intrecciano varie manifestazioni di una sempre più diffusa incertezza circa i valori letterari e la validità degli indirizzi estetici da intraprendere. Soprattutto in alcuni grandi centri culturali, come Firenze e Milano, si mettono in discussioni i princìpi del Romanticismo. Già nel 1844, il letterato e patriota siciliano Paolo Emilio Giudici, che viveva esule e Firenze, nella sua Storia delle belle lettere in Italia, condannava la polemica fra classicisti e romantici la quale aveva generato solo confusione e rimproverava al Romanticismo l’adozione di modelli stranieri che, a suo avviso, comportava una pesante servitù intellettuale (una posizione simile assumerà Verdi). Questa crisi si traduce nella consapevolezza di vivere in un’epoca di decadenza e nella conseguente istanza di rinnovamento che viene accolta, in modo esplicito, dalla Scapigliatura milanese. Gli scrittori che appartengono a questo “movimento” sono legati più da vincoli di amicizia che da affinità artistiche, tuttavia sono accomunati da un’insofferenza nei confronti delle convenzioni sociali e della cultura ufficiale, da una medesima condizione di anticonformismo e di ribellione, da una disposizione a fruire delle più moderne voci delle letterature straniere. Questo gruppo di scrittori vede in Giuseppe Rovani il suo maestro. Quando Catalani giunge a Milano, alla fine del 1873, Rovani è morto da pochi mesi e il ruolo di capofila è preso da Emilio Praga, contemporaneamente Capuana e Verga giungono nel capoluogo lombardo e si apprestano a dominare l’ambiente letterario della Città, innestando un deciso lessico realistico sul tronco di atteggiamenti decadenti. Catalani ne rimane colpito e inizia a leggere i romanzi di Flaubert e Zola che, in specie il primo, influenzeranno non poco la sua personalità (7).

Catalani non ha atteggiamenti scapigliati né bohèmien, si chiude «in un carattere provinciale che per sua natura non voleva aprirsi» (8), come se si portasse sempre addosso, oltre che la febbre del sottile mal d’esistere, il carattere piccolo borghese della sua Città natale e la chiusura (mentale) delle sue imponenti mura; «immalinconito, viveva sempre più appartato, solitario» (9), ben lontano dagli atteggiamenti spacconi e goliardici di un Puccini o di un Mascagni, dai quali, non a caso, si sente diverso, e dei quali non apprezza l’intraprendenza sociale e il carattere falso dei personaggi troppo costruiti.

Catalani non sente i fermenti democratici e popolari che scuotono gli artisti scapigliati, così come avevano scosso il giovane Verdi, un Maestro che a Catalani non è simpatico per la sua avversione verso la musica tedesca. Catalani non legge i periodici progressisti ed è, per sua natura, assai lontano da posizioni anarcoidi, ama chiudersi in sé, immalinconito, a crogiolarsi nella propria malinconia.

Il sovrapporsi delle due tendenze e(ste)tiche legate al Verismo e al Crepuscolarismo è uno dei temi dominanti degli ultimi decenni dell’Ottocento ed è cosa che riguarda da vicino anche Catalani, spesso in bilico fra atteggiamenti realistici o decadenti comunque predominanti. Quando questi elementi sono ben miscelati e tenuti in equilibrio se ne traggono vantaggi dal punto di vista di un’espressività ricca e sfaccettata, altrimenti c’è il rischio di perdere l’omogeneità stilistica e di danneggiare l’unitarietà dell’Opera, come avviene per esempio in Dejanice.

Altro tema dominante del dibattito dell’epoca è quello del rapporto fra le varie arti. Per gli operisti è tema vecchio, in quanto, da sempre, hanno dovuto affrontare, in modo più o meno consapevole, il rapporto fra parola e suono, fra gesto e musica, fra orchestra e palcoscenico; a metà Ottocento però, stimolati dal Wort-Ton-Drama wagneriano, la relazione fra le arti è problematica attuale e sempre più decisiva. Il dibattito che si accende sul teatro d’Opera è sostenuto dai giornali, come “La Perseveranza” col critico Filippo Filippi o come “Il secolo” dove scrive Amintore Galli; inoltre ognuna delle tre grandi Case editrici ha una sua Rivista: “La gazzetta musicale” è della Ricordi, “Il Teatro illustrato” della Sonzogno e “L’Italia musicale” della Casa editrice Lucca; infine, sempre a Milano, viene stampato il “Giornale della Società del Quartetto”. Indubbiamente in questo dibattito il capofila è Arrigo Boito, riconosciuto dal giovane Catalani come colui che meglio esprime le nuove tematiche artistiche ed esistenziali. Catalani però, più che allo stile di Boito, si avvicina a quello di Giovanni Camerana, che esprime una poesia delicata e sincera, ruotante intorno al tema della solitudine. Altro poeta dell’ambiente milanese con il quale Catalani dimostra delle affinità è Igino Ugo Turchetti, specialmente quando il poeta affronta il tema mortuario, che non è più quello barocco, ma piuttosto quello romantico delle frontiere sconosciute, del viaggio interiore, delle sensazioni sublimi, dell’ossessione del tempo che passa e del disfacimento fisico, sensazione morbosa di cui Catalani soffrirà per tutta la sua sfortunata vita.

In alcune pagine di Catalani si coglie quella sottile vibrazione che l’uomo prova quando scandaglia il proprio io, l’inconscio, la sorte, con una sensibilità premonitrice della morte che rappresenta la pace, il riposo sospirato fino allo spasimo. La poesia del “sentirsi morire” (10) non significa solo l’essere infelici, ma è una vera e propria malattia che vive la malinconia con consapevole complicità.

Il poeta déraciné evoca un mondo perduto, mondo della memoria, evocazione di persone e di ambienti vivi solo nel ricordo; è stanco della vita e della sua opera e sa solo esaltare lontane malinconie, in un atteggiamento «muliebre» pervaso da un’«ebetudine cantellerante», questo «poeta morto alla praxis» (11), eternamente adolescente e stanco, ricorda assai da vicino la figura di Catalani, il suo desiderio di ritiro dal mondo, la tenue sofferenza delle sue protagoniste, avvolte da atmosfere rarefatte e cullate da ritmi di elegia.

La descrizione della natura diviene un pretesto per la messa a punto di stati d’animo, ribolle di sensazioni e non ha più fisicità e solidità, un po’ come nella poesia di Camerana che riduce gli elementi naturali a un tremolio di grigi e argenti. Il sottile mal d’esistere, il «disagio della civiltà» (come lo chiamerà Freud), lo spleen, sono espressi dalle sfumature del grigio, la stessa forma degli oggetti non è più precisa ma si confonde con altre cose dell’ambiente circostante, lasciando solo macchie e pennellate inconsistenti, come nei quadri di Tranquillo Cremona, nei quali la natura s’intreccia col tema della vita e della morte, esprimendo un misterioso senso di abbandono. Nella musica di Catalani c’è questo grigiore di fondo che avvolge i personaggi e li incatena al proprio mesto destino, a cui il compositore assiste con trepidazione, ma impossibilitato a intervenire dal suo stesso mal d’esistere (12).

L’uggia espressa nelle Opere di Catalani equivale allo spleen che dalla Romantik in poi impregna di sé tutto il secolo, declinato in atteggiamenti crepuscolari alla fine del secolo. Il poemetto di Carducci, Nostalgia, è del 1874 e il decadente sottile mal d’esistere correrà parallelo al Verismo. Catalani assumerà su di sé e li trasferirà nelle sue Opere molti tratti salienti sia del Crepuscolarismo sia del Verismo, realizzando (inconsapevolmente) una poetica del quotidiano trasfigurata da un suono struggente.

Cosa privilegiare di Catalani

Occorre chiederci ciò che di Catalani è ancora vivo e presente nella cultura e nella sensibilità di oggi, al di là delle storicismo, delle analisi accademiche, delle interpretazioni delle sue Opere, dunque se i toni grigi, il sottile mal d’esistere, la febbre dell’inquietudine possono avere cittadinanza nella nostra cultura; se uno stile monotono e una forma debole siano in qualche modo accettate nella variegata cultura del molteplice. Oggi si fa un gran parlare di comunicazione, si va alla ricerca di una trasmissione di idee e fatti immediata. La comunicazione è però dispersa in mille rigoli il cui approdo al mare magnum dell’informazione viene sempre rinviato, è impalpabile perché non si fonda sul contatto diretto, sulla partecipazione attiva e umana: sono questi gli anni della ridondanza condivisa, in maniera eterea, leggera, vaga. Siamo dentro l’occhio del ciclone, sentiamo un turbinio di parole e di suoni, vediamo milioni di immagini, ma nulla ci tocca veramente e proviamo sempre meno sentimenti autentici. È una comunicazione che non comunica. Da questo punto di vista Catalani appartiene a un’altra epoca, egli crede fermamente in una comunicazione profonda e sincera. Comunicare significa entrare in comunità, significa essere in grado di portare il messaggio alla comunità degli ascoltatori i quali, oggi, vogliono che il messaggio sia chiaramente costruito, efficiente, sorprendente, sia veloce, agile, incalzante, non importa se è artificiale e falso, caratteri opposti a quelli espressi da Catalani, il quale ci lascia una musica ricca di senso – umanissima – ma legata al Moderno, sta qui la sua sfortuna di critica e di pubblico. Si direbbe ch’è un uomo all’antica.

Vi è una differenza fra comunicazione ed espressione, si ricordi che la prima è un modo di mettersi in contatto con il pubblico, quindi ha caratteri più sociali, mentre l’espressione è a livello individuale, etimologicamente vuol dire “portar fuori” un sentimento, una sensazione, un’idea, ma tale manifestazione può essere anche ricondotta al mero ambito privato, mentre non è così per la comunicazione ch’è sempre una trasmissione (del messaggio musicale) ad altri. È indubbio che Puccini abbia in sommo grado capacità espressive e comunicative. Catalani è invece il tipico artista dall’espressione chiusa e individualistica. Tutto il contrario di ciò che la cultura dello spettacolo dominante oggi richiede. Allora Catalani è morto?

Occorre privilegiare della vita del Maestro le sventure e i tormenti, attraverso un’ermeneutica che sappia vederli come un racconto, come una storia di vicende tribolate, facendo della narrazione il perno interpretativo ossia la sua vita deve scorrere fra testimonianza e cronaca, come in un film dove il realismo di fondo si confonde con l’idealismo del protagonista, e la concretezza della realtà si alleggerisce nell’inconsistenza della storia stessa. Al di là di ogni presunta verità biografica e storiografica, come dettano le regole del Postmoderno.

Se rimaniamo legati alla vecchia impostazione scolastica il teatro e la musica del Maestro hanno poche possibilità di trovarsi in sintonia con la cultura del nostro tempo che è – sempre – nel bene e nel male, quella che ci fornisce gli strumenti per capire i contorni di un fenomeno. Vi è però, come accennato all’inizio di questo scritto, un aspetto che può legare Catalani alla contemporaneità ed è quello che, paradossalmente ma poi non così tanto, ci mostra l’aspetto debole, eterogeneo, fatuo, quel surplus espressivo che è così vicino ai tanti racconti en rose che imperversano nei mondi virtuali delle TV, di internet e dei rotocalchi. Certo manca a Catalani il senso dello spettacolo che si trova in Puccini, ma possiede comunque quel quid espressivo così mesto e strano che lo può avvicinare ai drammi leggeri così amati dal grande pubblico. Non è scartando ma è attualizzando questo aspetto che Catalani diviene più interessante (se lo ricordino i registi e gli interpreti); non è paragonandolo a Puccini ma è collocandolo in un ambito più confidenziale che Catalani può avere cittadinanza nell’espressione del Postmodern; non è alleggerendo la sua mestizia, il suo tipico pathos crepuscolare, ma è rinforzandolo che Catalani può perdere i suoi confini storici e avvicinarsi a noi. Esaltandone la psiche inquieta e il cuore caldo ci può sommergere con brividi gelati, con tremiti focosi, tenendoci in suspense facendoci venire la pelle d’oca. Questo è ciò che bisogna privilegiare di Catalani e che Catalani – contro certi suoi stessi sostenitori – può regalare alla cultura dell’oggi.



NOTE

  1. Lettera di Pietro Mascagni ad Alfredo Soffredini del 12 marzo 1883. Per la biografia e per i rapporti di Catalani con Lucca cfr. Alfredo Catalani, saggi di Autori vari a cura di B. Lenzi, A. Berti, N. Laganà, Lucca 2004.
  2. M. Zurletti, Catalani, Edt, Torino 1982.
  3. R. Cresti, L’arte innocente, con Cdrom, Rugginenti, Milano 2004. Il termine “post-Moderno” deriva dall’inglese e viene applicato alla critica letteraria fin dal 1971 e contemporaneamente usato in sociologia e nell’architettura degli anni Settanta che ha come caratteristica saliente quella dell’utilizzazione pragmatica degli elementi storici, usati in toto e simultaneamente. Il saggio dell’architetto inglese Charles Jencks, The Language of Post-Modern Architecture, dichiara di affidarsi alla citazione di stilemi, quali la colonna, l’arco, il timpano e altri elementi classici che il Moderno aveva rifiutato. Seguendo un nomadismo sempre più in superficie, si arriva al gusto del patchwork. Il Postmodern s’impone prima negli Stati Uniti poi in Europa, il termine è piuttosto ambiguo e dà adito a varianti terminologiche e concettuali (come “Ipermodernismo”, “Modernismo tardivo”, “Transmodernità”, “Metamodernità” ecc.) e ad accezioni differenti che comunque rimandano a un passaggio e a uno stratificato rapporto fra Modernità e post-Modernità. Nel tragitto si perdono l’estetica della novità e lo storicismo legato alla concezione lineare del tempo, a favore di un pragmatismo eterogeneo e di una pluralità linguistica e stilistica che ingloba ogni sorta di citazioni (temporali e spaziali), nulla si butta e tutto viene ri-utilizzato. Verso la metà degli anni Settanta, la musica sperimentale entra in crisi e, come per contrasto, un gruppo di musicisti vuole contrapporre a un’estetica formalistica una poetica neo-romantica che rimetta in gioco la soggettività e i sentimenti. Musicalmente questo vuol dire riproporre un musica melodica, appoggiata su un’armonia tonale e conchiusa in una forma preordinata, ricca di citazioni. Si attua una retorica del facile, basata sull’emotività e sulla risposta sentimentale che l’ascoltatore deve dare alla musica.
4) Dobbiamo proteggere Catalani dalla pedanteria accademia che dà sfoggio di un’ostentazione filologica-storicistica. La morfologia accademica è descrittiva, in grado di particolareggiare e di circoscrivere, di cogliere cioè le minuzie, non l’insieme dell’opera che non è affatto la somma dei dettagli, ma si costituisce di un’infinità di aspetti insiti negli stessi dettagli compositivi che per questo non sopportano le analisi formali e reclamano un totalità di discorso, dove il (con)testo viene reso nella globalità del suo essere, umano prima ancora che tecnico. Fra Catalani e il musicologo avviene ciò che Nietzsche dice avvenire fra Achille e Omero, “uno ha il sentimento, l’altro lo descrive.”
Lo studium è ovviamente importante ma, come dice Barthes, se non è sostenuto da uno sguardo lungo, aperto e aggiornato, diventa un fatto scolastico. La difficoltà dell’analisi consiste nel fatto che tanto più si seziona un testo (drammaturgico e musicale) e tanto più si produce un risultato astratto, perdendo nel particolare l’unità del tutto. L’analisi immanente al testo produce un circolo negativo che rimanda solo a se stesso, perché più si scompone e “più l’aspetto specifico diventa il più generale e semplicemente il più astratto” come scrive acutamente Adorno a proposito di Beethoven.
5) Cfr. R. Cresti, I linguaggi della musica e delle arti, Il Molo, Viareggio 2007. L’arte è un alibi, è cioè priva di un luogo comune, lo spazio dell’invenzione artistica è quello dell’ex-stasi, dov’è possibile superare il principium individuationis per abbracciare l’universale. Anche il tempo della creazione è sospeso, è il tempo della mezzanotte dove la successione dei minuti s’arresta in una spirale che rimuove i condizionamenti e apre al mondo dei possibili. La musica, più ancora delle altre arti, possiede la capacità di comunicare l’Unbedingte (il senso dell’illimitato e dell’indeterminato) e il musicista, più ancora degli altri artisti, deve fare i conti con la passione che quest’arte misteriosa produce, deve concedersi alla sua natura religiosa (da relegare, mettere in contatto), la musica è l’arte privilegiata per la preghiera (laica), per mettersi in contatto con tutto ciò che oltrepassa l’uomo (Dio, la natura, l’umanità). L’atto della creazione è dunque misterioso (mistero e mistico hanno la stessa radice etimologica) e Catalani sembra intuirlo, anzi subisce questo mistero.
6) A. Ristagno, La musica italiana per orchestra nell’Ottocento, Olschki, Firenze 2003.
7) Cfr. R. Cresti, Dejanice, in “Le opere teatrali di Alfredo Catalani”, Rivista di Archeologia, Storia, Costume, Lucca 1994.
8) M. Zurletti, Catalani, op. cit.
9) S. Pagani, Alfredo Catalani, Meschina, Milano 1957.
10) Espressione di Fausto Maria Martini, cfr. l’Antologia Poeti del riflusso, a cura di Rina Gagliardi, Savelli, Roma 1979.
11) E. Cecchi, in Rivista “La voce” del 12 agosto 1909, ora in Poeti del riflusso, op. cit.
12) Nel gruppo degli scapigliati s’inserisce anche Antonio Bazzini, violinista noto in tutta Europa già dagli anni Quaranta, grazie alla sua intensa attività concertistica, insegnante di composizione presso il Conservatorio di Milano (vi diverrà Direttore nel 1882) e con il quale Catalani, così come Puccini, studia. Bazzini dimostra una certa simpatia per Catalani, probabilmente perché il giovane sa apprezzare la musica strumentale da camera (genere favorito dal Maestro) che, fin da ragazzo aveva iniziato a studiare con il padre, poi con Fortunato Magi, valente contrappuntista docente presso l’Istituto di Lucca, cultura musicale che Catalani metterà ben a frutto nelle sue Opere. Subito dopo la rappresentazione al Teatro del Conservatorio, l’11 luglio del 1875, della prima Opera di Catalani, La Falce, è lo stesso Bazzini che caldeggia il giovane compositore all’editore Giovannina Lucca, la quale gli commissiona un’Opera nuova, che sarà Elda (1880) e che darà il via alla carriera di Catalani e che troverà in Dejanice (1883) specie nel quarto atto, i suoi primi momenti d’eccellenza. Elda sarà poi rielaborata in Loreley (1890) ch’è una fra le più significative Opere di Catalani, su libretto di Boito, ma il capolavoro è La Wally che, nel 1892, il Teatro del Giglio mette in scena, diretta da Arturo Toscanini, uno dei più importanti sostenitori di Catalani. La Wally è su libretto del pucciniano Illica. La diversa musica orchestrale, da camera e musica vocale profana non si allontana dallo stile espresso nelle Opere. Cfr. Alfredo Catalani, a cura di M. Morini, Teatro del Giglio, Lucca 2004.



Da Renzo Cresti, La debolezza di Catalani e la nostra, in Quaderni della Rivista “Codice 602”, fondata da Renzo Cresti quando era Direttore dell’Istituto “Boccherini”, n. 3, Lucca 2009.





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