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Mazzini, Verdi e il 'caso Wagner' in Italia
Verdi e il “caso Wagner



Mazzini, poesia e musica unite nell’arte per il popolo

Mazzini era in Francia, nel 1831, quando fondò la «Giovine Italia». A seguito della rivoluzione dell’anno precedente a Parigi, anche in Italia si erano attivati moti liberali (Modena ne era il centro propulsore e l’Umbria e le Marche avevano provato a costituirsi in province autonome, tentativo fallito dall’intervento delle truppe austriache chiamate da Gregorio XVI). Nel 1829 Rossini smetteva di comporre opere e l’anno successivo Donizetti scriveva Anna Bolena e Bellini e Capuleti e i Montecchi; Beethoven era morto da due anni e tre anni dopo morirà Clementi, una via nuova si apriva e un’altra diventava storia (per la prima volta considerata con il moderno metodo documentaristico).

Attorno a un Foglio letterario che si stampava a Parigi, intitolato «L’Italiano», si riunivano alcune personalità di intellettuali italiani residenti in terra parigina o che a Parigi capitavano, quali Tommaseo, Romagnoli, Ruffini, Guerrazzi, Mayer e Mazzini il quale, nel 1836, con lo pseudonimo di Européen Jeune pubblicò la sua Filosofia della musica, scritto nel suo soggiorno svizzero l’anno precedente. L’anno è centrale per il dibattito culturale in atto e Parigi è il luogo ideale dove pubblicare nuove idee e proposte. Non lo si cita quasi mai questo contributo mazziniano in prospettiva europea, al massimo se ne parla riferendolo a Verdi, ma il suo atto d’accusa contro l’arte per l’arte e l’aspirazione moraleggiante a creare un’arte per il popolo sono in sintonia o in anticipo rispetto ad altre considerazioni critiche, non hanno però influenze dirette sui musicisti dell’epoca perché lo scritto mazziniano venne pressoché ignorato.
           
L’arte non può prescindere dal sociale e il popolo nel teatro operistico è rappresentato dal coro che dovrà sempre più affiancarsi dall’esibizione individualista del solista e comunicare gli alti valori della società e della patria. La musica patriottica, di cui in Francia s’era fatto molto uso durante il periodo della Rivoluzione, deve essere esaltante e avere una funzione educativa.
           
Poesia e musica devono essere unite per perseguire il nobile intento di rivolgersi alle masse, esse sono l’espressione di un unico fenomeno e sentimento; questa unione viene intravista ma non è ancora realizzata, un forte laccio che potrebbe tenere insieme le arti potrebbe essere quello della simbologia mitologica, sembra di ascoltare Wagner.
 
"Un’opera non può definirsi se non per enumerazione di parti – una serie di cavatine, cori, duetti, terzetti e finali, interrotta –non legata – da un recitativo qualunque che non s’ascolta: un mosaico, una galleria, un accozzo, più sovente un cozzo di pensieri diversi, indipendenti, sconnessi s’aggirano come spiriti in un circolo magico per entro a certi confini. […] Verrà un tempo in cui la musica avrà incrementato alla propria potenza tutte le potenze drammatiche accolte in uno spettacolo. So che l’educare un pubblico all’artista è lavoro più lento, e difficile a noi, che alla natura cacciare un genio."[1]
 
Quel genio che raccolse queste critiche e sollecitazioni e ne fece motivo di un’approfondita disamina, non c’è dubbio, fu Wagner, il quale, due anni prima dello scritto di Mazzini, aveva affrontato lo stesso tema del rapporto fra musica italiana e tedesca ed era giunto alle stesse conclusioni:
 
"Noi tedeschi abbiamo sì un territorio della musica ch’è tutto nostro: la musica istrumentale, ma non abbiamo un’opera tedesca e ciò per lo stesso motivo non possediamo un dramma nazionale. Noi siamo troppo intellettuali e troppo eruditi per creare delle figure umane palpitanti. […] Nessuno ha saputo guadagnarsi il suffragio del popolo: cioè perché nessuno ha colto la vita vera e palpitante qual’è."[2]
 
L’idea astratta, di cui Wagner fu comunque succube, l’intellettualismo e l’eccedenza di cultura sviliscono i semplici rapporti umani fatti di atteggiamenti concreti e di emozioni vere; tutto questo allontana la musica dal popolo, facendone un’arte per borghesi ben educati, ma il vero obiettivo dell’arte non è quello di una bellezza fine a se stessa, ma – come sottolinea bene Mazzini – quello di relazionarsi alle esigenze sociali del popolo.

Nello stesso 1834 Wagner scrisse un altro articolo, intitolato Pasticcio, in cui riprende gli stessi concetti, espressi fra l’altro con le medesime parole. L’importanza della cultura popolare era stata sottolineata in Germania attraverso il Lied e questo aveva donato la sua espressività Echt Volkstümlich all’opera di cui Il franco cacciatore era stato un esempio inarrivabile.

Alla fine dell’Ottocento[3] si erano cercate tracce fra il pensiero di Mazzini e quello wagneriano, poi evidenziate da altri scritti all’inizio del Novecento, come quello di Momigliano che dichiara che «il Wagner si accorda col Mazzini sulla necessità e sulla natura stessa dell’evoluzione musicale»[4].

Come si è poco insistito sullo scritto mazziniano raramente si è sottolineata l’importanza di un personaggio come Félicité de La Mannais, arguto personaggio sostenitore della libertà di pensiero e di parola, dell’indipendenza dell’Italia e della Polonia. Eppure fu personalità eccezionale e influente. Liszt conobbe La Mannais nel 1830, nel periodo dei moti rivoluzionari che dettarono a Liszt la Sinfonia Rivoluzionaria, rimasta a forma di schizzo al quale il Maestro attinse per il suo poema sinfonico Héroide funèbre. Liszt lesse gli scritti di La Mannais contemporaneamente a quelli di Saint Simon. Anche Mazzini fu influenzato dal particolare cristianesimo sociale di La Mannais, il suo libro Paroles d’un croyant, pubblicato nel 1834, ebbe un successo incredibile, tanto da avere oltre cento edizioni! Mazzini ne rimase impressionato in particolare per l’aspetto che lega religione e umanità, l’uomo aspira – per sua natura – a ciò che lo oltrepassa, a relegare il suo Mondo con l’Universo. L’arte è un po’ come la Scala di Giacobbe che sale verso il cielo e dal cielo scende verso la terra; l’arte – come dirà anche Wagner – ha caratteri simili a quelli di una religione sociale e ha dunque un’alta missione da compiere, contro il materialismo, educando l’uomo alla bellezza intesa quale viatico di riconciliazione e redenzione. "In tempi di prostituzione e di scetticismo […] manca alle anime giovani un raggio di fiducia e di poesia che disveli ad esse le vie del futuro. […] Poesia, letteratura, storia, filosofia, son tutte espressioni d’un solo fenomeno. […] Manca alle arti, alle scienze, a tutte le dottrine chi le rannodi." [5]
 
Wagner con il suo  Wort-Wort-Drama sarà colui che riannoderà le singole arti, le quali, pur nella diversità del loro aspetto fenomenologico, «Son tutte espressioni d’un solo fenomeno». Non sfugì a Mazzini, buon conoscitore di musica, buon cantante e chitarrista, la differenza fra la musica italiana e quella tedesca, nella prima «l’individualità siede sulla cima, libera, sfrenata, bizzarra, rappresentata da una melodia brillante, determinata, evidente», mentre la seconda «procede per altra via […] è armonica in sommo grado, rappresenta il pensiero sociale, il concetto generale, l’idea, senza l’individualità che traduca il pensiero in azione»[6].
           
L’individualità e l’azione saranno caratteri propri anche dell’opera italiana ottocentesca, con la sola eccezione delle opere verdiane del periodo risorgimentale, nelle quali comunque non viene certo meno l’evidenza melodica. L’idea senza azione e l’approfondimento armonico sono caratteri propri della musica tedesca in genere e del teatro musicale wagneriano. Per Mazzini l’ideale estetico sarebbe il congiungimento dell’individualità con la collettività, della melodia con l’armonia, dell’idea con l’azione, tematiche affrontate negli scritti wagneriani e in alcune parti dell’epistolario verdiano, ma sarà soprattutto Verdi a concretizzare l’ideale di Mazzini.
           
Pressoché contemporaneo al saggio di Mazzini è l’importante scritto di Liszt Lettere d’un baccelliere i musica, pubblicato sulla «Gazette Musicale» il 12 febbraio del 1837; in questo saggio, suddiviso in tre parti, Liszt inizia scrivendo della situazione musicale italiana e del suo soggiorno a Parigi, poi prosegue sul tema «dell’educazione musicale del popolo» e quindi affonda: «L’artista oggi vive al di fuori della comunità sociale […] l’arte sociale non esiste più e non esiste ancora», riflessioni tipiche anche di Mazzini e saranno proprie anche di Wagner, il quale avrebbe potuto scrivere questa considerazione: «I teatri sono in mano di amministratori che non hanno e che non possono avere l’arte come scopo. Costretti a guardare al successo. […] Che faranno gli artisti? Fin troppo a lungo hanno celebrato gli amori dei grandi e i piaceri dei ricchi; per essi è giunta l’ora di ridare coraggio al debole e portare sollievo alle sofferenze dell’oppresso».[7]
 
 
I percorsi paralleli o divergenti di Verdi e Wagner
 
È una metodologia sbagliata quella di considerare l’evoluzione della drammaturgia e della musica di Verdi sub specie Otelli ossia partendo dall’approdo dell’ultimo Verdi, una metodologia che vede una progressiva trasformazione del teatro verdiano in funzione dell’ideale delle due ultime opere. Verdi fu sempre convinto del melodramma a ‘numeri’ con le arie, cabalette, romanze, recitativi, gran finali al primo atto; il duetto d’amore, i quartetti vocali, i cori all’unisono, è all’interno di questi schemi consolidati che Verdi raggiunse la sua grandezza che consiste nel vivificare con forza straordinaria la funzionalità degli schemi tradizionali ed è proprio tale forza che allargherà in modo naturale e inevitabile le forme consolidate rendendole più flessibili (Don Carlos), più vaste (Aida), omogenee (Otello) e più sottili (Falstaf), ma le ultime opere – fatto salvo l’evidente affinamento tecnico - non sono più evolute delle altre sono semplicemente più in sintonia con il mutar dell’epoca culturale che, nei decenni di fine secolo, richiede forme e comunicazioni diverse dagli anni precedenti ed è per questo essere più vicino a noi che molte volte sono state considerate le ‘migliori’, seguendo una sbagliata metodologia storica evolutiva.

Come per Verdi anche per Wagner è un errore considerare la sua produzione precedente al Tristano una sorta di ‘serbatoio’ di idee che preparano le opere maggiori, non vi è una scala di valori assoluta e ogni forma e ogni stile ha piena cittadinanza, soprattutto in epoca post moderna nella quale l’opera tradizionale è tornata a reclamare i suoi diritti e i cosiddetti compositori della nuova semplicità o del neo-romanticismo scrivono arie e duetti, inseriti in una forma eclettica e ricca di pathos, e scritti in uno stile che recupera gli elementi del passato e li riutilizza a piene mani, funzionali alle esplicite finalità comunicative. Per i dettami del Postmodern il valore dell’opera non è misurabile solo con i parametri di un’analisi tecnica, ma occorre considerare il suo effetto sul pubblico, la sua godibilità d’ascolto e, da questa punto di vista, non sorprende che Lohengrin sia l’opera preferita non solo in Italia, e ancor meno sorprende che Rigoletto, Trovatore, Traviata siano fra le opere più eseguite al mondo.

Wagner fu un uomo di mondo ed ebbe la fortuna di inserirsi in un intreccio culturale straordinario, Verdi frequentò ambienti poco colti, almeno fino a quando non divenne un abitué de La Scala, in ogni caso considerò la cultura non strettamente necessaria allo scrivere un’opera, l’elemento principale era il talento, occorreva certo studiare i classici e fortificare la mano nella scrittura contrappuntistica, ma soprattutto occorreva possedere una vocazione, una dota insita nei fortunati, una grazia ch’è molto difficile da descrivere ma che si sente benissimo! Per Wagner l’aspetto culturale fu insito nella sua formazione giovanile: letteratura, teatro, filosofia, musica, furono per lui un tutt’uno e lo accompagnarono nella stesura delle sue opere che hanno un forte spessore intellettuale. Da questa angolazione Wagner è un tipico esempio del Moderno per il quale la pienezza dell’Essere passa attraverso molteplici riflessioni e una complessa progettualità ossia la scintilla dell’invenzione è solo il momento iniziale di un lungo processo culturale che quell’invenzione filtra e definisce. Il poderoso apparato saggistico di Wagner conferma il bisogno che il Maestro aveva nel chiarirsi l’operare, attraverso considerazioni estetiche e teoretiche, poetiche e ideologiche, assolutamente necessarie alla proprio consapevolezza d’artista.

Alla contessa Maffei, Verdi scrisse in data 31 luglio 1863: «Wagner non è una bestia feroce come vogliono i puristi, né un profeta come lo vogliono i suoi apostoli. È un uomo di molto ingegno che si piace delle vie scabrose, perché non sa trovare le facili e le più dritte»[8]: è noto ch’è difficile scrivere facile e per chi possiede poco talento è meglio scrivere difficile, le «vie scabrose» mascherano la scarsa facilità d’invenzione. È importante notare che Verdi parla in generale perché di Wagner, all’epoca, non aveva ascoltato niente, solo un paio di anni più tardi ebbe modo di ascoltare l’ouverture del Tannhäuser ed è famosa la sua reazione espressa nella lettera ad Arrivabene del 31 dicembre del 1865 «È matto».[9] La ‘pazzia’ di Verdi consiste appunto nella eccessiva complicazione del tessuto musicale, nel suo non riuscire a trovare le vie compositive più «facili e dritte».

«Il paesano di Roncole», come Verdi amava definirsi, non ha mai sentito l’esigenza di spiegare a se stesso e agli altri il proprio lavoro, fiducioso che esso sarebbe arrivato diretto e chiaro all’ascolto. Proprio l’attenzione posta sulla ricezione rende Verdi molto attuale, la tensione espressiva non dipende solo dal come le strutture drammaturgico-musicale vengono composte, ma anche dal comunicare il loro cosa e il loro perché ossia il contesto espressivo (in termine tradizionali il ‘contenuto’) non deve essere schiacciato dall’aspetto tecnico-formale. Troppi giochi linguistici possono appesantire la comunicazione, ma non è dell’elemento denotativo che Verdi abbisogna, per lui lo studium è importante, ma se non è colpito dal punctum diventa astratto, come se lo studio fosse un problema di educazione culturale, mentre al contrario è qualcosa di vivo e che aspetti vitali deve comunicare. Il punctum sfugge all’analisi razionale, come dice Barthes, è quel supplemento intrattabile dell’identità che ti permette di cogliere l’aria[10] di un volto, la luce di uno sguardo, la scintilla dell’avventura. Questo Verdi amava, non per scelta ma per destino.

Non v’è nulla di arcadico nella pianura della bassa Padania, fredda e nebbiosa d’inverno, bruciata dal sole d’estate, e senza dubbio la giovinezza di Verdi non fu idilliaca, ma legata alla vita pratica e semplice di un borgo contadino, dove i genitori gestivano un’osteria. Ha scritto il critico Bruno Barilli che se a Verdi avessero regalato Pegaso, il cavallo alato della mitologia, lo avrebbe attaccato a un aratro! Le differenze con Wagner non potrebbero essere più evidenti, tutto preso da fornire alla sua opera un substrato filosofico il Maestro tedesco, legato a un’operare concreto quello del Maestro italiano.
 
 
I cavalli da aratro e quelli che volano
 
Fra terre grasse e arate, nella valle del Po fra Parma e Mantova, doveva nascere il genio di Verdi, «è impossibile trovare località più brutta di questa»[11] scrisse Verdi alla contessa Maffei. Fin dalla nascita fu circondato da gente umile e senza grilli in testa, dunque per Verdi niente teorie, esperimenti, avvenirismi, solo una fattiva concretezza.[12] Come poteva la sua pur fervida fantasia concepire Pegaso e i miti, le leggende e le narrazioni fantastiche che saranno la base intellettuale e drammaturgica di Wagner, i suoi sogni furono piuttosto legati alla storia e le sue utopie riguarderanno  l’Età risorgimentale, ma senza un impegno politico diretto come sarà per Wagner nei moti insurrezionali del 1849  Dresda.

Se a Verdi avessero regalato Pegaso lo avrebbe attaccato a un aratro.

La simbologia wagneriana è del tutto estranea alla forma mentis di Verdi legata a un concreto realismo storico, ma non nel senso del Verismo piuttosto realizzato in chiave di un realismo psicologico sotto il segno dell’eterno conflitto fra amore e dovere: «copiare il vero può essere una buona cosa, ma inventare il vero è meglio, molto meglio. […] Copiare il vero è una bella cosa, ma è fotografia, non pittura»,[13] per non rendere statica - o fotografica come dice Verdi - la descrizione dei fatti e dei personaggi il vero deve avere drammaturgicamente un «fare svelto» e la musica deve essere attaccata alla parola scenica, in un modo tutto italiano, consapevolmente derivato dalla tradizione che da Pier Luigi da Palestrina porta a Giacomo Carissimi, Alessandro Scarlatti, Benedetto Marcello, Giovan Battista Pergolesi, Niccolò Piccinni, questi i Maestri preferiti da Verdi, come ebbe a scrivere a Boito[14] e qualche anno prima, nel 1871, aveva affermato: «vorrei per il giovane compositore esercizi lunghissimi, severi su tutti i rami del contrappunto. […] Nissiuno studio sui moderni! […] Mi si potrà opporre: “chi insegnerà al giovane l’istromentazione? Chi la composizione ideale?” La sua testa e il suo cuore se ne avrà». Dunque piena fiducia nella tradizione italiana e per Verdi la musica italiana non era quella della tradizione violinistica barocca, dei concerti grossi e solistici, ma era prettamente musica vocale, contrappuntistica o accompagnata, ma vocale; piena fiducia anche all’istinto che il giovane musicista deve dimostrare di avere, lavorando con la propria testa e con il suo cuore.

Verdi mise sempre l’accento sulla formazione artigianale del musicista e tutto ciò che appartiene all’idealità lo lascia fisiologicamente indifferente. «Un’operista tedesco agli inizi si trovava di fronte a una sorta di caos stilistico, che doveva attraversare, e che però, d’altro canto, gli consentiva un più vasto orizzonte musicale e che lo avrebbe portato ad una riflessione sull’essenza e la possibilità della categoria ‘opera’»,[15] la situazione tedesca era un «caos stilistico» per quanto riguardava l’opera del primo Ottocento, mentre quella italiana dominava il mondo dei teatri da due secoli, per cui Wagner fu ‘costretto’ a riflettere sulla categoria ‘opera’, invece Verdi si potè adagiare su uno stile consolidatissimo.

In comune però i due hanno il fatto di non frequentare studi regolari, per questo s’è parlato di scarsa preparazione del giovane Verdi (il Verdi ‘bandistico’) e Thomas Mann ha scritto di dilettantismo a proposito di Wagner. Wagner nacque in una grande città come Lipsia e in gioventù studiò a Dresda e, seppur con momenti travagliati, gli anni giovanili furono ricchi di sollecitazioni culturali, stimoli che Verdi non ebbe fino al suo trasferimento a Milano.

Il piccolo mondo di Verdi, che fino agli anni Quaranta visse esclusivamente nel fazzoletto di terra che da Busseto va a Milano, unica grande città che frequentò, è il primo elemento da tener presente nel confronto con Wagner, il quale, non solo nacque in una grande città come Lipsia, ma già negli anni giovanili frequentò Dresda, Praga, Vienna, Norimberga, Magdeburgo, Francoforte, Berlino, Riga, Londra, Parigi e ancora la Galizia e la Svizzera. Inutile far notare quali enormi differenze di esperienze culturali si abbiamo fra i due musicisti. Nell’estate 1832, mentre Verdi veniva respinto all’esame di ammissione presso il Conservatorio di Milano, Wagner era a Vienna e successivamente a Praga, dove al Conservatorio veniva eseguita la sua giovanile Sinfonia in Do, composta l’anno precedente a Lipsia.

Pur nel sospettato dilettantismo di un approccio alla musica e alla cultura di tipo autodidattico, Wagner a vent’anni aveva già girato mezza Europa ed era un musicista in carriera: neanche ventenne, all’inizio del 1833, era stato chiamato allo Stadttheater di Würzburg come direttore del coro e l’anno seguente aveva ricoperto il posto di direttore stabile dell’orchestra del teatro di Magdeburgo; aveva già diretto una ventina di opere e molte altre le dirigerà sia di autori tedeschi sia italiani sia francesi. Successivamente fu direttore a Königsberg e a Riga, prima di intraprendere l’avventura a Parigi.

Negli anni Trenta, Verdi aveva diretto, per puro caso sostituendo un direttore assente, La Creazione di Haydn presso un circolo di musicisti dilettanti milanesi e diresse la Banda municipale di Busseto, dove fu incaricato di insegnare musica presso la Società filarmonica. Solo col trasferimento a Milano nel 1839 ebbe modo di entrare in contatto con il mondo musicale internazionale (in quest’anno fu rappresentata la sua prima opera Oberto, conte di san Bonifacio). Verdi iniziò il suo percorso artistico solo nel 1842, quando il Nabucco trionfò al teatro alla Scala: «con quest’opera si può dire veramente che ebbe principio la mia carriera artistica».[16] Questi aspetti vogliono dir poco ai fini della valutazione complessiva dei capolavori dei due Maestri però dimostrano un’apertura mentale in Wagner di tipo mitteleuropeo, mentre in Verdi le esperienze sono assai più circoscritte a quelle della provincia emiliana e del mondo culturale milanese, ciò spiega in parte l’ansia di rinnovamento che assillerà Wagner e l’agire all’interno di prassi consolidate di Verdi.

Quando Verdi fece rappresentare Oberto conte di san Bonifacio, Wagner era a Parigi, scriveva articoli per la «Revue Musicale» e intraprendeva la sceneggiatura de L’Olandese volante. Nel 1840 Wagner terminò Rienzi e Verdi Un giorno di regno. Nel 1842 Wagner tornò a Dresda, dove venne rappresentato Rienzi, Verdi mise in scena Nabucco. L’anno successivo fu la volta delle rappresentazioni de L’Olandese volante e de I lombardi alla prima crociata: erano iniziate le rispettive carriere artistiche. Negli anni Quaranta, dopo Rienzi e L’Olandese volante, Wagner fece rappresentare solo Tahhnäuser e Lohengrin, mentre numerose furono le opere di Verdi tanto da fargli definire questo periodo come «anni di galera». Anche successivamente la produzione wagneriana fu più limitata rispetto a quella di Verdi che, in qualche modo, continuò a subire le pressioni dell’ambiente impresariale, mentre Wagner vi si staccò e partorì la ‘folle’ idea di un teatro appositamente costruito per eseguire le sue opere.

Il parallelismo fra le due cronologie è abbastanza stretto anche se confrontiamo i capolavori: la Trilogia romantica fu composta nel 1851-53, anni fondamentali anche per Wagner che stilò i suoi importanti scritti zurighesi, concluse il poema dell’Anello del Nibelungo e iniziò la partitura dell’Oro del Reno e della Valchiria; nel 1856 iniziò Sigfrido, l’anno successivo abbozzò i tre atti del Parsifal, interrompendo il Sigfrido per intraprendere la scrittura del Tristano, che concluderà nel 1859. Verdi compose Les Véspres siciliennes nel 1855, due anni dopo il Simon Boccanegra e nel ’59 Un ballo in maschera. La forza del destino venne scritta nel 1862, Don Carlos nel 1867, Aida nel 1871, Otello nel 1887 e Falstaff nel 1893. Sigfrido fu completato nel 1871, la Tetralogia venne ultimata nel 1874 con Il crepuscolo degli dei,  prima Wagner aveva composto I Maestri cantori, terminati nel 1867; l’ultima opera, com’è noto, fu Parsifal scritto fra il 1879 (prima versione) e il 1882 (seconda versione).

Sia Verdi che Wagner amarono Shakespeare, ma mentre il Maestro italiano vide nel drammaturgo inglese un insuperabile «inventore del vero» che sapeva cioè non solo «copiare il vero» ma inventarselo, Wagner intese le figure shakespeariane come fantasmagorie. Verdi imparò da Shakespeare a partire dal fatto reale e ha modellarlo, Wagner imparò a esercitare la sua fantasia.

Entrambi ebbero dei debiti verso Bellini, ascoltabili nelle opere giovanili di Wagner, ma con sfumature riscontrabili fino al Lohengrin, ed evidenti in Verdi (insieme a quelli verso Donizetti); anche verso Meyer Beer i Nostri musicisti ebbero debiti di certi stilemi, riscontrabili in Wagner  nelle opere giovanili fino a Rienzi e in Verdi in Simon Boccanegra, nonché ne Les Véspres siciliennes.

Nel 1871, quasi contemporaneamente all’ascolto di Verdi del Lohengrin a Bologna, Wagner scriveva cose terribili sull’opera italiana definita «abominevole letteratura» e, qualche anno più tardi, riprendendo gli attacchi a Rossini, scriverà che della Messa da Requiem di Verdi «è decisamente preferibile non parlare».[17]

Il pensiero di Verdi sul rapporto fra musica e parola coincide con ciò che Wagner affermò in Opera e dramma, ossia che la parola appartiene all’azione e non alla pura poesia, quel che Verdi chiama «parola scenica» e che nel Maestro italiano è realmente legata all’azione, a differenza delle opere di Wagner dove l’azione è intesa più in senso mentale che concreto.

Sia in Wagner che in Verdi la concezione tematica tradizionale viene mutata, in senso radicale con la Unendliche Melodie, in senso moderato con l’intreccio delle melodie verdiane, in entrambi i casi le tecniche della variazione e dello sviluppo vengono sostituite da una tecnica di dislocazione spaziale, la quale segue i mutamenti psicologici dei personaggi nel divenire scenico. La melodia non è dunque una frase statica ma un moto che segue lo scorrere del tempo (psichico), suoni in movimento che si dislocano seguendo le esigenze drammaturgiche (in Verdi) e concettuali (in Wagner). La collocazione mutante delle melodie viene chiamata da Verdi «posizione» e il Maestro italiano, pur con altre parole e in altra situazione compositiva, dice una cosa similare alla definizione wagneriana del Grundtheme, in cui il tempo musicale combacia con il tempo interiore; per entrambi la frase musicale non è un elemento fisso ma un comportamento.

Verdi non pretese mai di formulare un’estetica né una teoria dell’arte, non ci lascia saggi e scritti come Wagner che ne compilò in abbondanza, le uniche testimonianze del pensiero verdiano sono le lettere le quali esprimono sempre un’opinione, ora tranquillamente espressa ora imperiosamente, ma è sempre un suo parere al quale non bisogna dare valore assoluto, ideale come in Wagner. Le lettere sono ricche di umori e pulsioni, qualche volta anche di annotazioni drammaturgiche, in specie quando scrive ai suoi librettisti, scandiscono in altorilievo l’uomo, sono invece rari i pensieri sulla sua arte e sull’arte in genere, con un unico tema conduttore di mantenere distinte le tradizioni italiana e tedesca: «l’opera è l’opera: la sinfonia è la sinfonia» – come scrisse nella celebre lettera del 10 giugno 1884 al conte Arrivabene, convinzione più volte ripetuta: «non dovremmo scrivere come i tedeschi, né i tedeschi come noi».[18]

Quando Verdi vuol riassumere le cause dei mali che affliggono il teatro, la musica e la cultura italiana parla di «germanesimo» in modo sprezzante, anche in situazioni ufficiali, come quando scrive al Ministro Guido Baccelli, il 21 gennaio 1883: «il Germanesimo c’invade: i nostri maestri stessi seguono la corrente; non credono più all’arte italiana e non sanno più scrivere italianamente» opinione forte ripetuta il 4 febbraio 1883: «quest’invasione dell’arte forestiera ha accecato noi tutti in modo che c’impedisce di vedere come i Tedeschi, facendo della musica tedesca, sono nel vero e hanno ragione. Noi invece imitandoli, abbiamo rinnegato l’indole nostra, facendo musica senza carattere italiano, ibrida e bastarda».[19] Wagner non era stato tenero con la musica italiana,  ma la posizione di Verdi non è una sorta di risposta al Maestro tedesco, è un seguire un suo filo logico che ha un inizio nella vocalità cinquecentesca e arriva alla sua epoca attraverso i grandi operisti, del resto Verdi s’interessò a Wagner solo dal 1861, quando il suo editore francese, Escudier, gli relazionò sulla prima del Tannhäuser a Parigi, ma ascoltò musica wagneriana soltanto nel dicembre del 1865, si trattava della preludio del Tannhäuser e il suo giudizio fu – come già accennato - «É matto!»

Verdi però aveva conosciuto il nome di Wagner attraverso la «Gazzetta musicale di Milano» edita da Ricordi sulla quale, nel 1842, Wagner aveva pubblicato, in tre puntate, un suo saggio sulla musica tedesca, scritto presentato sulla falsariga di quello già pubblicato sulla «Revue Musicale» parigina. La «Gazzetta» di Ricordi presentò Wagner come un «dottissimo critico oltremondano» e sopportò affermazioni del genere: «Al tedesco solo è dato il vero sentimento della musica». Wagner sostenne la supremazia della musica strumentale e, anche in questo caso, la «Gazzetta» si dimostrò indulgente, riconoscendo che i musicisti italiani avevano da tempo trascurato la musica strumentale. La stessa rivista riportò anche le notizie della prima rappresentazione del Rienzi a Dresda e di quella imminente a Berlino del Fuggitivo olandese (sic!). Negli anni successivi le notizie sul musicista tedesco si riducono assai, solo nel 1861, dopo il clamoroso insuccesso parigino del Tannhäuser si torna a parlare di Wagner. I tempi sono però cambiati, il giovane e «dottissimo» musicista tedesco non viene più guardato con simpatia, Ricordi ha trovato il suo genio e Wagner non può che dar fastidio alla supremazia di Verdi.

L’articolo del 1861 spiega il fiasco parigino con l’assenza di melodia nell’opera di Wagner e con il suo voler assimilare la musica operistica a quella strumentale, mentre solo la musica lirica è la vera portatrice dei sentimenti. Per Ricordi ed è presumibile anche per Verdi, il seguace di Gluck vuole la musica schiava della poesia e, seguendo le sue idee preconcette, compone in maniera ideologica ed evidentemente intellettualistica, trascurando l’emozione. Nei suoi primi viaggi italiani, iniziati nel 1852, Wagner era stato del tutto ignorato, ma nel 1861 la notizia della caduta del Tannhäuser a Parigi lo riportò alle cronache. Non è comunque da trascurare il fiuto di Ricordi il quale, malgrado Verdi, cercò di acquisire la proprietà della partitura del Tannhäuser proprio nell’anno dell’insuccesso parigino. Solo nel 1866 l’editore Giovannina Lucca iniziò a contattare Wagner per ottenere i diritti delle rappresentazioni italiane delle sue opere.
Se Verdi non poteva riferirsi, con consapevolezza, direttamente a Wagner prima degli anni Settanta, il tema di uno stretto rapporto fra parola e musica non gli era estraneo, per esempio, nel 1849 ne deve aver parlato con Cammarano il quale affermava: «sarei tentato di dire che per ottenere la possibile perfezione di un’opera musicale dovrebbe essere una mente sola autrice dei versi e delle note» e Verdi rispondeva che «è bene che poeta e maestro sentano all’unisono. […] Se nelle opere non vi fossero né cavatine né duetti né terzetti né cori né finali e che l’opera intera non fosse (sarei per dire) che un solo pezzo, troverei più ragionevole e giusto».[20] Non vi erano precedenti nella storia del Melodramma italiano che non aveva avuto un Gluck, un Mozart o un Weber, ma il clima dell’epoca portò Verdi a riflettere su una possibile maggiore omogeneità formale dell’Opera, in una riflessione tutta sua, interna al lavoro quotidiano di messa a punto degli aspetti teatrali e musicali.

C’è da chiedersi perché Nietszche, quando si scagliò contro Wagner, indicò come contro altare il nome di Bizet e non quello ben più importante di Verdi; la spiegazione ci viene dalla nota lettera a Karl Fuks nella quale il filosofo spiega la sua esigenza di una «contrapposizione ironica» della musica solare e sanguigna della Carmen contro il malaticcio e decadente mondo wagneriano; si aveva dunque bisogno di uno spunto graffiante su cui costruire un caustico attacco alla musica, al teatro e soprattutto all’ideologia di Wagner, far riferimento a Verdi avrebbe impegnato Nietszche a un confronto meno astrattamente concettuale e più attento al (con)testo.

Alla fine del secolo l’influenza di Wagner fu fortissima, come dimostrano queste parole sul periodico «Fanfulla» del 1896: «critici e pubblico subiscono il periglioso fascino della musica wagneriana […] tutti penetrati dai simboli che accerchiano come d’una magica cintura di fuoco le iperboliche altezze del Walhalla». Erano gli anni dell’affermazione di Puccini, il quale non fu certo estraneo al «periglioso fascino della musica wagneriana»[21] che, seppur con diverse declinazioni, rimase intatto fino al Novecento. Attorno alla Prima guerra mondiale il patriottismo tenne lontano dalla musica tedesca e da quella wagneriana in particolare.

I percorsi per certi versi paralleli e per altri divergenti di questi due colossi che hanno determinato la musica e la drammaturgia non solo ottocentesca ma anche successiva, sono tragitti che attraverso la musica descrivono le culture e le civiltà di due grandi popoli che finalmente divengono nazioni e le descrivono con una genialità che ha pochi riscontri nell’intera storia della musica.
 


 Note
[1] GIUSEPPE MAZZINI, Filosofia della musica, a cura di Marcello De Angelis, Guaraldi, Rimini-Firenze 1977, p. 43.
[2] RICHARD WAGNER, L’opera tedesca e l’opera italiana, in Pagine d’arte italiana, cit. pp. 37-41.
[3] Cfr. CAMILLE BELLAIGUE, Les idèes musicales d’un révolutionnaire italien, in «Revue des Deux Mondes», Parigi 15 febbraio 1899.
[4] FELICE MOMIGLIANO, Giuseppe Mazzini e le identità moderne, Edizioni Lombarda, Milano 1905, p. 277.
[5] GIUSEPPE MAZZINI, op. cit., pp. 36, 38, 40.
[6] GIUSEPPE MAZZINI, op. cit., p. 55 e 56.
[7] FRANZ LISZT, op. cit., pp. 61, 64, 65, 70, 88.
[8] Carteggi verdiani, a cura di A. Luzio, III voll., Roma 1935, p. 83.
[9] Verdi intimo. Carteggio di Verdi con il Conte Opprandino Arrivabene, a cura di A. Alberti, Milano 1931, p. 61.
[10] Il termine musicale ‘aria’ deriva proprio ‘aria’ deriva proprio da espressione, aspetto, sembianza, atteggiamento.
[11] G. Verdi, autobiografia dalla lettere, a cura di A. Oberdorfer, terza edizione rivista da M. Conati, BUR, Ariccia 2006, p. 230.
[12] Cfr. BRUNO BARILLI, Il paese del melodramma, Adelphi, Milano 2000.
[13] Questa celebre affermazione scritta alla contessa Maffei, in data 20 ottobre 1876, si trova in G. Verdi, autobiografia dalla lettere, cit., p 454.
[14] Lettera del 5 ottobre 1887, in G. Verdi, autobiografia dalla lettere, cit., p. 459; Boito aveva avuto dal Ministro dell’Istruzione l’invito a formulare un indirizzo di studi musicali e così si rivolse a Verdi per chiedere consiglio.
[15] ANNA MALIE ABERT, Verdi e Wagner, in Antologia della critica wagneriana in Italia, a cura di A. Ziino, Peloritana editrice, Messina 1970, p. 306.
[16] G. Verdi, autobiografia dalla lettere, cit., p. 115.
[17] MARIO BORTOLOTTO, cit., pp. 53 e 54: «Il 12 febbraio 1871 Wagner scrive: “La sera, Richter porta la conversazione su Gounod, il che ci fa passare in rassegna una abominevole letteratura musicale, Faust, Le Prophète, Les Huguenots, Bellini, Donizetti, Rossini, Verdi, tutti gli uni al seguito degli altri: mi sento male fisicamente […] Sul “ridicolo” di Rossini si torna a insistere. Della Messa da Requiem verdiana è “decisamente preferibile non parlare”».
[18] G. Verdi, autobiografia dalla lettere, cit., p. 427, si tratta di una minuta a destinatario ignoto, scritta nell’aprile del 1878.
[19] Idem, p. 431.
 [20] G. Verdi, autobiografia dalla lettere, cit., p. 312.
[21] Cfr. R. Cresti, Puccini e il Postmoderno, Edizioni dell’Erba, Fucecchio 2007. Puccini, dopo gli studi all’Istituto “Pacini” di Lucca, era giunto a Milano per perfezionarsi nel 1880 e nel capoluogo lombardo gli fanno compagnia Elvira Bonturi, il fratello Michele e Mascagni con il quale acquista lo spartito del Parsifal. La sua prima Opera, Le Villi (1884) descrive un soggetto romantico in cui spicca l’elemento sovrannaturale, caro al giovane Wagner. Le armonie delle prime Opere pucciniane (ma anche di alcuni passaggi di quelle successive) risentono dei procedimenti armonici del Wagner del Lohengrin, ma resi in maniera più contestuali al Sistema tonale, più addolciti. Nell’estate del 1889 Puccini ascolta I Maestri Cantori di Norimberga e indubbiamente le sue conoscenze wagneriane diventano precise. È vero che le influenze subite da Puccini riguardano prevalentemente la musica francese, ma indubbiamente non si possono escludere quelle wagneriane che riguardano, oltre a un certo trattamento armonico, un certo uso degli archi e una certa affinità dei temi ricorrenti che nelle Opere pucciniane hanno valore prettamente psicologico e non sibololico-filosofico, ma che indubbiamente possono richiamare le modalità tematiche già espresse da Wagner con i Leitmotive.
 


Da Renzo Cresti, I cavalli che volano e quelli che arano, in "Il Rigo musicale" nn. 52, La Spezia 2013



 



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