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Letterature post-coloniali in inglese
Letterature post-coloniali inglesi



Dagli Approfondimenti di Chiara Calabrese su Letteratura Inglese, Americana e Post-coloniale in: Renzo Cresti, La vita della Musica, Edizioni Feeria, Panzano in Chianti (FI), 2008, pp. 444-449


 
Dal Colonialismo alla letteratura post-coloniale
Eurocentrismo: quando si parla di eurocentrismo si fa riferimento a quel processo conscio o inconscio tramite il quale l'Europa e i presupposti culturali europei vengono costruiti come, o si presuppone che rappresentino la normalità, ciò che è naturale, l'universale. Il processo di colonizzazione, che fu accelerato nel '700 e raggiunse l'apice nell'800, promosse attivamente e accelerò l'eurocentrismo attraverso l'esplorazione, la conquista e il commercio. Con le  esibizioni imperialiste di potere, sia nei centri metropolitani che nelle periferie coloniali, e l'affermazione dell'autorità intellettuale nelle istituzioni coloniali come scuole e università, codici legali e così via, fu sancita questa supposta superiorità dei sistemi di valori europei rispetto a quelli indigeni.

Letteratura inglese e potere coloniale: il momento storico in cui nacque in Gran Bretagna l'Inglese come disciplina accademica è lo stesso che produsse una particolare nuova forma di imperialismo che caratterizzò l'Ottocento. Gli amministratori coloniali scoprirono infatti nella letteratura inglese un potente alleato che, dietro la maschera di un'educazione liberale, li aiutava a mantenere il controllo sulle popolazioni native. Così in Gran Bretagna lo studio della lingua e della letteratura inglese è stato fin dall'inizio un fenomeno profondamente politico, al servizio di un forte nazionalismo. Studio dell'Inglese e crescita dell'Impero vanno di pari passo sia a livello conscio, sotto forma di propaganda, che a livello inconscio, portando avanti valori quali la civilizzazione, l'umanità (Kipling parla del 'fardello dell'uomo bianco') che però automaticamente definiscono il proprio opposto  (ovvero l'essere primitivo, selvaggio) come l'oggetto della propria volontà di riforma. Si ha una negazione del 'periferico', del 'marginale', del 'non canonizzato', si crea l'opposizione tra 'centro' e 'periferia' del mondo.

Esplorazioni e cartografia: la colonizzazione è spesso il risultato di viaggi di scoperta e il processo di scoperta è accompagnato dalla realizzazione di carte in un atto di dominio e controllo, esse servono a mettere per scritto un'ideologia e sono state un elemento caratterizzante del colonialismo. Come le lingue degli indigeni furono rimpiazzate dall'inglese così i nomi dei luoghi vennero sostituiti sulle carte o stravolti in forma europeizzata, le terre furono letteralmente riscritte, sovrascritte. Inoltre gli spazi vuoti delle prime mappe erano indicativi di una terra nullis, uno spazio aperto e invitante in cui l'immaginario europeo si poteva proiettare e l'esploratore europeo doveva penetrare. Tali spazi bianchi invitavano anche sovrascritture culturali, come disegni di mostri subumani (gli indigeni). I nativi guidavano l'esploratore nelle sue esplorazioni, ma la loro precedente conoscenza del territorio veniva messa a tacere dall'atto di creazione della carta geografica da parte dell'europeo, dato che essi non avevano voce nel discorso scientifico di misurazioni e testi scritti che la cartografia implicava. Le scoperte erano accreditate agli esploratori europei come se tali luoghi non fossero esistiti o noti ad alcuno prima del loro arrivo, in quanto gli indigeni erano considerati incivili e dunque privi del diritto alla proprietà. Le carte definiscono anche una gerarchizzazione dello spazio e sono uno strumento determinante per l'affermazione dell'eurocentrismo, si pensi alla decisione di prendere le latitudini europee come punti di riferimento per la concezione di una gerarchia del mondo. La definizione di culture come tropicali in un mondo dove temperato è la norma, o più o meno densamente popolate, o come ricche o povere di risorse, sono tutte discriminazioni essenziali sulle quali una pratica di sfruttamento o controllo può essere eretta.

Esotismo: il termine 'esotico', usato per la prima volta nel 1599 col significato di 'alieno, introdotto dall'estero, non indigeno', nel corso del '700 acquisì, nell'ambito dell'impero, una connotazione di 'diversità eccitante', qualcosa con cui ciò che era domestico poteva acquistare (senza rischio alcuno) un sapore nuovo e stimolante. Fin dalle prime esperienze di viaggio gli inglesi riportavano in patria minerali, prodotti artigianali, piante e animali che venivano esibiti in collezioni private e musei. Esemplari vivi di piante e animali venivano riprodotti in zoo pubblici e privati. Ma anche esemplari umani di membri appartenenti ad altre popolazioni venivano portati nelle metropoli europee e presentati in saloni alla moda come intrattenimento popolare in quanto 'esotici'. Questi uomini esibiti assieme a tacchini e pappagalli nelle gabbie, erano innocui simboli di un mondo 'altro', 'esotico', e isolati dal loro contesto culturale e geografico potevano stimolare l'immaginazione del pubblico europeo, senza tuttavia costituire una minaccia. Questi 'oggetti esotici' esibiti nelle metropoli giocavano un ruolo importante nella messa in mostra del potere e dell'ampiezza dell'impero.

Diffusione dell'ideologia imperialista: quando la lingua inglese e l'ideologia imperialista di cui essa era portatrice furono trasportati nei luoghi colonizzati per mezzo, ad esempio, del sistema di istruzione, l'applicazione del termine esotico a quei luoghi e quei climi, a quei fenomeni naturali e a quei popoli rimase immutato. Dunque gli studenti, per esempio nei Caraibi, si trovavano a descrivere la propria vegetazione come 'esotica' . In sostanza gli veniva insegnato a vedere se stessi e il proprio mondo come alieno, diverso, mentre quello inglese rappresentava la normalità. Questo causò un profondo senso di alienazione, una profonda crisi di identità culturale. La letteratura serviva gli interessi della politica coloniale ed era ideologicamente motivata proprio dal suo sembrare priva di ideologia. Molti dei testi inclusi nelle programmazioni scolastiche e scelti in quanto apolitici in realtà non lo sono affatto. La poesia Daffodils di Wordsworth è un esempio tipico in quanto il suo orientamento politico è implicito. Scritta da un inglese (un uomo bianco) su dei fiori nativi che sono parte della flora tipica inglese, all'interno di una cultura anglocentrica, è apparentemente oggettiva e puramente estetica. Tuttavia non la si può definire come ideologicamente neutra per esempio in un contesto caraibico, dove le giunchiglie non sono per niente familiari e forse addirittura defamiliarizzanti (si veda a questo proposito il riferimento all'interno del romanzo Lucy della scrittrice caraibica Jamaica Kincaid).

Le letterature post-coloniali in inglese: sono quelle letterature che nascono dai popoli che un tempo erano colonie inglesi. Esse si sviluppano attraverso una graduale presa di coscienza nazionale o regionale, e una volontà di riaffermare la propria differenza dal centro imperialista. Una caratteristica comune è la tendenza alla sovversione. La frase di Salman Rushdie 'The Empire writes back to the imperial centre' significa fare una sorta di rappresaglia con la scrittura, mettere in discussione le fondamenta del pensiero europeo e britannico, sfidando quella visione del mondo che come prima cosa ha voluto stabilire quale era il centro (l'ordine, il potere, l'autenticità) e quale la periferia (il disordine, l'assenza di potere, l'inautenticità). L’idea della Gran Bretagna come centro dell’ordine e della realtà deve essere messo in discussione per poter rendere l'esperienza culturale delle ex-colonie pienamente valida.

Imitazione e destabilizzazione: I sudditi dell'impero sono incoraggiati a 'imitare' il colonizzatore, adottandone la cultura, le istituzioni, i valori. Ma il rapporto tra colonizzatore e colonizzato è caratterizzato da una certa ambivalenza, da una mescolanza di attrazione e repulsione che fa venir meno l'immagine di un'autorità coloniale dominatrice come qualcosa di chiaro e ben definito. In realtà dunque il colonizzatore produce dei sudditi ambivalenti la cui imitazione non si allontana mai molto dalla parodia. Questa copia sfuocata, in quanto parodia di ciò che imita, risulta destabilizzante, può costituire una minaccia. L'imitazione produce così una rottura nella certezza del dominio coloniale, un'incertezza nel suo controllo sul colonizzato. Essere anglicizzati non significa essere inglesi, la minaccia inerente all'imitazione non viene da un'aperta resistenza ma dal modo in cui continuamente suggerisce un'identità che non è esattamente quella del colonizzatore. D'altra parte per il colonizzatore il riuscire a creare delle repliche esatte di se stesso sarebbe altrettanto pericoloso. La cultura coloniale è dunque sempre potenzialmente e strategicamente rivoluzionaria. Nel processo di imitazione quello che tradizionalmente era l'osservatore (l'esploratore si poneva come 'monarca di tutto ciò che osservo') diviene l'osservato, il suddito colonizzato dirige il suo sguardo sul colonizzatore invertendo così l'orientamento del potere nel loro rapporto. Significativo per la comprensione di questo aspetto è il romanzo di V. S. Naipaul The Mimic Men.

Decolonizzazione della cultura: le letterature post-coloniali nascono da incroci di culture, da una negoziazione, una distanza tra mondi, un vuoto nel quale sono continuamente in atto i processi simultanei di abrogazione e appropriazione. Abrogazione significa il rifiuto delle categorie della cultura imperialista, la sua estetica, i suoi standard illusori di normativa, di uso corretto, e il presupposto di un significato fisso e tradizionale da attribuire alle parole, nonché abrogazione dell'immagine della periferia costruita dal centro imperialista (si pensi solamente alla mole di letteratura denigratoria nei confronti dei neri prodotta in Gran Bretagna nell'arco di quattro secoli, volta inizialmente ad abituare l'Europa alla visione dei neri in catene venduti come schiavi e, dopo l'abolizione della schiavitù, a promuovere un Imperialismo come superiorità culturale). E' la decolonizzazione della lingua e della scrittura cui segue un processo di appropriazione di entrambe, in quanto vengono prese e caricate del peso della propria esperienza culturale. Si tratta di un desiderio di decolonizzare la cultura e di reclamare la propria voce da parte di quei popoli che sono stati dominati dai vittoriani britannici sia letteralmente che letterariamente, dando vita a una letteratura che si sta rivelando forse la più interessante e innovativa del nostro tempo, lo testimoniano i molti premi nobel assegnati negli ulrimi anni, il più recente quello a J. M. Coetzee nel 2003.

Contro l'universalità della letteratura: secondo lo scrittore nigeriano Chinua Achebe un romanzo, per essere autenticamente africano, deve parlare dell'Africa ma non solo come espressione geografica, ma come visione del mondo e del cosmo percepita da una particolare posizione. Gli autori autenticamente africani sono quelli che riescono a assumere questo punto di vista. Non è una questione di colore di pelle, dice Achebe, Nadine Gordimer e Doris Lessing sono bianche ma entrano a pieno diritto tra gli autori africani. Achebe mette in guardia contro il concetto di universalità della letteratura. Quando un critico europeo decanta la bellezza di un'opera africana per il suo valore universale allora significa che quella non è più un'opera africana, perché ciò che noi intendiamo per universale significa in realtà occidentale. Un'opera di uno scrittore occidentale viene quasi automaticamente investita di questo valore universale mentre chi viene da lontano deve faticare per ottenerla per poi scoprire che non si tratta altro che di riuscire a prendere quella svolta che ti allontana sempre più dal tuo paese e ti avvicina sempre più all'Europa e all'America. Achebe in Hopes and Impediments esprime anche una speranza: "vorrei che il termine universale fosse bandito totalmente da discussioni riguardanti la letteratura africana, fino al giorno in cui le persone cesseranno di utilizzarlo come sinonimo del limitato provincialismo dell'Europa, fino al giorno in cui i loro orizzonti si stenderanno a includere tutto il mondo."
 
Letteratura caraibica
Calypso e Reggae
 
Lingua inglese e potere coloniale: uno degli aspetti principali dell'oppressione imperialista è il controllo su lingua e scrittura. Il sistema di istruzione imperialista installa una versione "standard" della lingua come norma, e marginalizza tutte le "varianti" e "impurità". La lingua diventa un mezzo attraverso il quale una struttura gerarchica di potere viene perpetuata, e il mezzo attraverso il quale i concetti di "verità", "ordine" e "realtà" vengono stabiliti. L'appropriazione della lingua inglese è il primo stadio di una serie di appropriazioni tese a segnare lo stacco, la differenza dall'Europa.

Colonialismo, oralità e scrittura: c'è sempre da parte del colonizzatore il controllo del sistema di scrittura, della stampa anche laddove esse esistono già nel paese colonizzato, figuriamoci la complessità del fenomeno nel caso in cui le popolazioni colonizzate appartengano a una cultura orale, che non conosce la scrittura. Una forma di comunicazione, quella scritta, interviene a dominarne un'altra, quella orale. Ma la scrittura non introduce semplicemente un nuovo modo di comunicazione, essa implica anche un orientamento totalmente diverso della conoscenza, la scrittura  ricostruisce il pensiero. In molte società post-coloniali non fu tanto l'introduzione della lingua inglese ad avere l'impatto maggiore, quanto quella della scrittura. L'appropriazione che ha avuto un significato molto profondo è stata dunque quella della scrittura, momento cruciale del processo di autodeterminazione e di ricostruzione di queste società. Parlare di letteratura post-coloniale significa infatti parlare del processo grazie al quale la lingua, con il suo potere, e la scrittura, con la sua autorità, sono state liberate dalla cultura europea dominante.

La colonizzazione nei Caraibi: la conquista espansionistica europea nelle Americhe è iniziata nel secolo XV proprio nei Caraibi, primo approdo delle caravelle di Colombo. Lo sterminio delle popolazioni locali (un milione di morti all'anno nei trent'anni successivi all'arrivo di Colombo) rese presto necessaria l'importazione di forza-lavoro, per la quale dal '600 si fece ricorso alla tratta degli schiavi introdotti dall'Africa. Nell'800, con l'abolizione della schiavitù, per far fronte alle richieste dell'economia a piantagione del Nuovo Mondo, vi furono immissioni di grossi gruppi di immigrati asiatici (principalmente indiani e cinesi), con quei contratti di lavoro, indentured labour, che non erano altro che una forma di schiavitù legalizzata. La situazione dei Caraibi raccoglie così tutti gli aspetti più devastanti del processo di colonizzazione. Qui le popolazioni indigene furono virtualmente sterminate a un secolo dall'invasione europea, e l'attuale popolazione è una popolazione giunta in seguito a esilio da un'altra terra (Africa, India, Cina, Medio Oriente ed Europa).

Frammentazione linguistica: l'arcipelago caraibico, per la posizione geografica particolarmente favorevole, fin dall'arrivo di Colombo, oltre ad essere un sicuro terreno di conquista per le potenze europee, fu anche luogo di passaggio per i vascelli in rotta verso le Americhe. Vi passarono, e vi sostarono, spagnoli, francesi, inglesi e olandesi, la cui presenza determinò una frammentazione linguistica fra le isole tale da impedire la nascita di una lingua nazionale. Così alle lingue locali di ceppo amerindio si aggiunsero quelle africane e poi quelle asiatiche cui si sovrapposero le lingue della colonizzazione, per molti l’inglese.

Verso una "nuova oralità": l'inglese era un importante strumento di espressione, ma il problema era adeguarlo a esprimere una cultura diversa da quella britannica: "Non avevamo le sillabe", sottolinea il poeta e critico Edward Kamau Brathwaite, "ci mancava l'intelligenza sillabica che ci consentisse di descrivere l'esperienza dell'uragano, laddove eravamo in grado di descrivere quella, a noi del tutto estranea, di una nevicata […]. L'inglese ci aveva offerto un modello per la poesia, ed era il pentametro. Ma l'uragano non si esprime in pentametri" (in History of the Voice, 1984). Gli afro-caraibici la risposta la trovarono in quella che proprio Brathwaite ha definito nation language, una lingua fortemente influenzata dall'eredità africana, una lingua che poggia sull'oralità, cioè sulla parola parlata e sul suono come parte del suo significato; una lingua che nell'esplosione del suono, nel timbro, nel ritmo non è inglese; una lingua il cui ritmo si identifica con quello della musica caraibica. L'esperienza caraibica in particolare, e quella post-coloniale più in generale, vede la fusione della pratica letteraria con quella orale in un rapporto paritetico di mutua interazione. Non si può più parlare di un'opposizione in cui la prima significherebbe "modernità" e la seconda, in posizione subalterna, significherebbe "tradizione", in quanto culture orali e letterarie hanno coesistito ininterrottamente e si sono incontrate nelle società coloniali e post-coloniali e nei Caraibi hanno trovato ampia espressione. Qui nasce una poesia recitata, cantata, ritmata, pensata per essere condivisa con gli ascoltatori, una cultura centrata sulla parola-suono i cui pilastri portanti sono musica e poesia.

Calypso: migliaia di sudditi dell'Impero provenienti dai Caraibi parteciparono alla prima guerra mondiale considerandosi inglesi dalla pelle scura ma ben presto capirono di essere, agli occhi degli inglesi, cittadini di serie B. La delusione dette una spinta verso un desiderio di indipendenza cosicché gli anni fra le due guerre furono anni di grande fermento sociale e culturale. Il calypso, (uno stile musicale con ritmo sincopato africano comparso a Trinidad e Tobago verso la fine dell'Ottocento su cui si improvvisavano con un linguaggio colorito fatti di interesse popolare), comincia a trasformarsi nella Trinidad di quegli anni in strumento di lotta politica, diviene un ritmo attraverso cui esprimere una tagliente satira sociale che passerà poi nei giornali, nella poesia e nella narrativa.

Visibilità e maturità della letteratura caraibica: gli anni '50 sono gli anni del boom della letteratura caraibica nella madrepatria metropolitana, Londra. La trasmissione della BBC Caribbean Voices nonostante i suoi limiti, non ultimo il fatto di privilegiare la produzione letteraria nel centro metropolitano e quindi perpetuare una nozione di letteratura che accade altrove, ebbe in questo un ruolo determinante. In questo periodo appaiono alcune tra le opere più significative: Derek Walcott  (premio nobel 1992) pubblica nel 1949, a sue spese, la prima raccolta di versi e la vende agli angoli delle strade. L'esistenza di una tradizione riconosciuta consentirà ad altre forme culturali, ritenute fino ad allora marginali, di conquistare maggiore autorevolezza.

Reggae e Rasta: è il caso della musica reggae, che si afferma sulle due sponde dell'oceano a metà degli anni '60. In essa il ritmo africano si unisce al gusto aromatico dei Caraibi e al suono elettrico importato dagli Stati Uniti e risente dell'influsso del Rasta la religione nazionalista nera che raggiunse piena popolarità negli anni '70 e '80 proprio attraverso la musica e le liriche di Bob Marley, il grande mito della musica Raggae, impegnato nella lotta contro l'oppressione razziale ed economica. La genesi del Rasta, Rastafarianism, è piuttosto complessa. Nel 1930 Ras Tafari fu incoronato Negus di Etiopia col nome di Haile Selassie (l'onnipotente della Trinità), e i rastafariani inizialmente auspicarono un ritorno nella madrepatria africana grazie all'intervento dell'Imperatore etiope. Gradualmente questa idea del rimpatrio divenne meno letterale e più ideologica, un reclamare da parte dei giamaicani un'eredità africana sistematicamente denigrata al tempo della schiavitù e dalle ideologie imperialiste europee. Il Rasta è sempre stato caratterizzato da una forte consapevolezza del legame tra lingua e potere, ha pertanto distrutto le regole della grammatica inglese rifiutando l'uso del pronome personale complemento "me" (quello che "subisce" l'azione, è "dominato" dal soggetto come gli schiavi erano dominato dagli Europei) e insistendo sull'uso del pronome soggetto "I" in qualsiasi posizione, per accentuare l'importanza dell'individuo. Il plurale di "I" diventa "I and I" (abbreviato "I-n-I), il riflessivo anziché "myself" sarà "I-self", al plurale "I-n-I self", e così via. Il Giamaicano creolo alla base del Rasta, che vorrebbe invece l'uso di "me" come prima persona singolare, viene così alterato con lo scopo di estirpare dalla lingua quell'attitudine di servilismo dei neri nei confronti dei bianchi risalente all'epoca delle piantagioni. L'esperienza Rasta trova anche espressione, in particolare tra la fine degli anni '50 e la metà degli anni '60, in una serie di romanzi di autori come Sylvia Wynter, Roger Mais e Orlando Patterson.

Dub poetry: con l'indipendenza (per Trinidad, Tobago e Giamaica arriva nel 1962) il potere economico era ancora in mano agli ex-colonizzatori e agli Stati Uniti. La consegna del governo a persone locali non aveva cambiato quella realtà, specialmente tenendo conto del fatto che la leadership locale era stata addestrata dal colonizzatore e ancora imitava i suoi modi. I Caraibi erano un luogo in cui le persone erano divise dalla razza, piene di risentimento e prive di miti comuni. Non avevano una storia di cooperazione e mancava loro la ricchezza necessaria. La politica in una simile situazione non poteva essere altro che brutale e deludente. Tra la fine degli anni'60 e gli anni '70, nella delusione politica seguita all'indipendenza, i giovani volsero l'attenzione alla musica. Nelle sale da ballo giamaicane si improvvisavano poesie fortemente ritmate sulla musica di dischi dalla cui seconda facciata erano state cancellate (dubbed out) le parole. I dub poets, tra i quali in Giamaica troviamo Michael Smith e Mutabaruka, erano molto influenzati dal Rasta e dalla politica del Black Power Movement. In Gran Bretagna uno dei pionieri di questo genere di poesia è Linton Kwesi Johnson che ottenne grande popolarità con i suoi versi fortemente politicizzati, volti all'affermazione di tradizioni non coloniali, alla promozione e riscoperta della propria origine etnica, con il suo legame con la musica reggae e con il suo stile fortemente  gestuale.

Il Jazz e il romanzo Caraibico: nel momento in cui lo scrittore caraibico deciderà di appropriarsi di forme di importazione, come il romanzo, oltre a lavorare all'eliminazione di quello stereotipo culturale che la letteratura egemone gli ha imposto per secoli parlando di lui in sua vece, sentirà il bisogno di darsi modelli critici e narrativi più adatti di quelli esistenti a esprimere la sua esperienza. Kamau Brathwite ha cercato di costruire una nuova estetica del romanzo caraibico come forma di espressione paragonabile al jazz: "E' nei nuovi elementi letterari del calypso e dello ska, e naturalmente nelle più sofisticate ed elaborate strutture della poesia e dei romanzi delle Indie Occidentali, [che] possiamo trovare un collegamento (o piuttosto una corrispondenza) tra il jazz (l'espressione Negro Americana basata sull'Africa), e un'espressione Negra delle Indie Occidentali basata sull'Africa /…/ In altre parole si cercherà un nuovo modo di espressione della cultura Negra del Nuovo Mondo, basato su un'eredità africana /…/ ma costruito su una sovrastruttura di lingua, atteggiamenti e tecniche euro-americani. Il jazz, per esempio, è suonato in modo africanizzato su strumenti europei /…/ Lo scrittore delle Indie Occidentali ha appena cominciato a entrare nella sua New Orleans culturale. Sta esprimendo nella sua opera fatta di parole quella gioia, quella protesta, quel paradosso di comunione e solitudine, quella controllata mescolanza di caos e ordine, speranza e delusione, basata sulla sua esperienza del Nuovo Mondo, che sta al fondo del jazz. E' in primo luogo un'esperienza di Negri; ma è anche un'esperienza di popolo; ed ha /…/ rilevanza per il concetto di "moderno" nel modo in cui lo intendiamo noi oggi /…/ Le parole, allora, sono le note di questa nuova musica di New Orleans. Il "bisogno di parole" è la tromba dello scrittore delle Indie Occidentali. Ma il sound jazz di questi romanzi non si esprime solo a parole /…/ Parola, immagine e ritmo sono solo gli elementi di base di quella che, nell'ambito della mia definizione, andrebbe a costituire un'estetica jazz del romanzo caraibico. Ciò che determina la forma e la direzione di un'esibizione jazz /…/ è la natura della sua improvvisazione /…/ Sto cercando di delineare un'alternativa alla tradizione culturale Romantico/Vittoriana inglese che ancora opera tra di noi e su di noi" (da Jazz and the West Indian Novel 1967-8).

Mobilità e pluralità: la letteratura caraibica nasce così da un desiderio di decolonizzare la cultura, di reclamare e restaurare tradizioni culturali alter/native (nel senso di altre e di native) e, come la sua storia, si è sviluppata da incroci tra culture diverse. Alla tradizione afro-caraibica si affianca una altrettanto ricca tradizione indo-caraibica, ricordiamo tra gli altri il premio nobel V. S. Naipaul, di Trinidad, (nella cui frequente vena polemica tagliente ritroviamo, tra l'altro, l'influsso del calypso). Il fatto che attualmente la letteratura caraibica non abbia un centro (la maggior parte degli scrittori sono disseminati in Gran Bretagna, Canada e Stati Uniti) non va interpretato come uno sfaldarsi della letteratura caraibica come entità culturale, ma piuttosto come una continuazione della sua iniziale straordinaria flessibilità. Una letteratura che nasce da una realtà di mobilità e pluralità vissute nei secoli e che ne determinano la specificità culturale: "rompi un vaso, e l'amore che ne ricompone i frammenti è più forte dell'amore che aveva data per scontata quella perfetta simmetria quando il tutto era intero. La colla che attacca i pezzi, è il sigillo della sua forma originale. E' un simile amore che rimette insieme i nostri frammenti africani e asiatici, quell'oggetto dal profondo valore affettivo frantumatosi che, una volta restaurato, mostra le sue bianche  cicatrici. Questo ricomporne i frantumi rappresenta la preoccupazione e il dolore delle Antille, e se i pezzi sono disparati, non combinano, contengono più dolore dell'oggetto originale, di quelle icone e sacri vasi dati per scontati nei loro luoghi ancestrali. L'arte delle Antille è questo restauro delle nostre storie frantumate, i nostri frammenti di vocabolario, il nostro arcipelago  diviene dunque sinonimo di pezzi staccatisi dal continente di origine." (Derek Walcott in The Antilles: Fragments of Epic Memory 1992).






Renzo Cresti - sito ufficiale