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Charles Morgan e Lucca
Charles Morgan e Lucca



Da:  Chiara Calabrese, La luce delle grandi leggende, Charles Morgan e Lucca. Scintille da un viaggio
letterario
, Edizioni Feeria, Panzano in Chianti (FI), 2013, pp. 88-116.

Presentazioni del libro: lunedì 29 aprile, ore 18, presso la Libreria Lucca Libri di Lucca - Giovedì 16 maggio, ore 19, presso Il Caffé di Daniela a Lucca - Domenica 23 giugno, ore 18, presso Villa Orlando a Torre del Lago Puccini (Lu)



5. Il riso santo di Lucca

Lo spirito di un luogo
Il genius loci, col suo carattere misterioso ed elusivo, è come una divinità pagana latente che si manifesta, e viene da noi percepita, quando investiamo il luogo delle nostre emozioni; essa invita a una silenziosa adorazione. E il viaggio, nella sua potenza archetipica, esprime il viaggio fondamentale, quello che si compie all’interno di sé: “Il genio dei luoghi non esiste nella Realtà Esterna, costante e dunque spesso crudele, ma nel cuore umano, integro e puro… trascendente e immortale”.[1]

Sparkenbroke è alla ricerca dell’Assoluto, e a Lucca il contatto con lo spirito del luogo gli consente di andare oltre la realtà sensibile. La bella architettura, e i capolavori come il sarcofago di Ilaria del Carretto, di Jacopo della Quercia, sono il volto della città, narrano una storia, e ad alcuni lasciano intravedere lo spirito del luogo. La chiave di lettura della città l’ha fornita John Ruskin: la sua unicità e la sua bellezza stanno in quell’omogeneità che, a dispetto dello scorrere del tempo, non viene mai meno, nella perfetta fusione di passato e presente. La sua realtà-altra traspare sotto le apparenze, si presenta all’occhio di chi la sa vedere; Lucca, con i suoi “angoli improvvisi di ombra e di luce”,[2] è il luogo dove gli opposti si conciliano, dove straordinariamente ragione e immaginazione vengono a coincidere, dove la leggenda diventa realtà. Mary chiede a Sparkenbroke se il Volto Santo è ancora a Lucca e lui conferma che è ancora là:
 
E se Lei andrà a Lucca, scoprirà che la leggenda è realtà. La città stessa ha il carattere della leggenda. Dalle sue mura, passeggiando su un viale ininterrotto di platani, castagni e mimose, si può volgere lo sguardo verso l’esterno, sulla campagna, oppure verso l’interno, sulle torri della città. Nella luce del sole che scivola sul dorso delle colline, inonda la pianura di oro liquido, taglia il cammino e i bastioni erbosi con grandi ombre di alberi, sembra di camminare in chiostri celesti, fatti di sole e aria. Là si prova una sensazione molto rara, credo, nel mondo moderno: che immaginazione e ragione siano identiche e che tutto ciò che si può osservare o sentire abbia in sé una salvifica antitesi. Voglio dire che nella crudeltà ci sia la gentilezza, nell’uomo Dio, nel vecchio il nuovo, nella colpa il perdono, un antidoto in ogni veleno, una perfezione in ogni imperfezione. Al fondo di ogni ardente verità c’è quell’invenzione infantile che è la luce delle grandi leggende, una luce che l’orgoglio della ragione ci ha fatto perdere, ma che a Lucca sembra poterci nuovamente guidare.[3]
 
Attraverso Sparkenbroke Morgan mostra l’impossibilità per l’uomo moderno di instaurare un rapporto istintivo e diretto con le leggende e i miti dai quali deriva la sua identità; nella realtà che lo circonda ogni antica eco si è spenta, pertanto, sulla scia di un’eredità romantica, è necessario rianimare questo universo sopito, investendolo dei propri sentimenti ed emozioni. Di fronte a ciò che è irriconciliabile si può solo tirare avanti guardando la vita con fermezza e, nonostante l’incertezza circostante, vedendola a volte come un tutto.  Lucca è il luogo dove questo è possibile.
 
Essere pensierosi e felici
La città, con il suo modo gentile di dare il benvenuto, aveva attratto Sparkenbroke per il suo essere collocata un po’ in disparte rispetto ai percorsi più battuti dai viaggiatori; era stato “il senso”[4] del luogo a fargliela amare:
 
La sua piccolezza di città antica, la verde cinta degli alberi, il suo grave e immutabile benvenuto claustrale. Era il riso santo di Lucca… come il sorriso della Beatrice di Dante, la certezza che, all’interno delle mura, fosse possibile essere allo stesso tempo pensierosi e felici. [5]
 
Il "riso santo" di Lucca, come il riso di Beatrice che accompagna Dante verso l’empireo, è espressione di omogeneità di umore oltre che di forma, di una pacatezza claustrale che consente la riconciliazione interiore.
 
L’incanto di una città
Prima di trasferirsi in città, Sparkenbroke trascorre un periodo in una villa sulle colline di Lucca, vicino a Vipore, dove Morgan, racconta Felice del Beccaro,[6] andò effettivamente in gita. Sparkenbroke ricorda un giorno in cui era là con la moglie Etty:
 
Avevano fatto una gita in automobile fuori Lucca e al ritorno, prima di rientrare alla villa, avevano fermato l’auto e si erano seduti sul muretto che a Vipore fiancheggia la strada. Sotto di loro il terreno scendeva ripido. I tetti rossi e corrugati di un gruppo di casette, mezzo nascoste sul fianco della collina, guardavano su attraverso i sottili rami di ulivo, e giù lungo il pendio altri ulivi sfumavano dal verde all’argento con l’aumentare della distanza, fino a perdere la forma distinta di alberi; l’occhio si posava allora su Lucca, adagiata su una pianura autunnale.[7]
 
Ci sono momenti e condizioni meteorologiche favorevoli al manifestarsi dello spirito del luogo, e sembra proprio che l’autunno sia la stagione che più si addice a Lucca. Dall’alto di una collina, lo sguardo segue il percorso del pendio tra gli uliveti fino a raggiungere la pianura dove i contorni della città si stagliano, in lontananza, emergendo dalla forma rarefatta degli ulivi come una presenza onirica. La città è in perfetta armonia con se stessa e con la campagna. La scelta di introdurre una visione a distanza non è casuale, il paesaggio extraurbano, anch’esso fonte di forti emozioni, con la sua varietà di toni influisce sul modo di percepire la città, la sua architettura, la sua storia.

Quando Sparkenbroke si trasferisce in città, va ad abitare a Palazzo Ascani. Benché il nome sia frutto dell’immaginazione, dalla descrizione del giardino che il protagonista guarda dall’alto delle mura appare chiaro che si tratta dell’attuale Palazzo Pfanner, con la caratteristica scalinata, la fontana e le statue:
 
Presto arrivò a quel lato delle mura che dava su Palazzo Ascani e sul suo giardino. L’ombra crescente, proiettata dall’ala del palazzo che intercettava il sole, divideva diagonalmente il cortile in una zona di oscurità e una di luce. A est il muro, la scalinata che vi si appoggiava e parte del ballatoio cinto dalla balaustra brillavano sotto una luce color del miele. Il palazzo, con alcune finestre chiuse da persiane, altre sprangate, tutte così profonde che i tendaggi interni non ne alteravano minimamente i netti contorni di pietra, aveva quell’aria di abbandono che, ancor di più dell’architettura stessa, conferisce alle città italiane un aspetto di antichità… Da qui non si vedevano né strade né movimento alcuno, solo il giardino dalle linee geometriche, ora trascurato, e le figure in pietra con lo sguardo rivolto alla vasca vuota della fontana.[8]
 
E’ di particolare interesse la collocazione fantastica di Palazzo Ascani/Pfanner in prossimità della Chiesa di Santa Maria Forisportam, quella stessa chiesa che era stata di grande ispirazione per Ruskin. Non deve stupire, la possiamo considerare un omaggio a Ruskin; il viaggiatore del Novecento che si ferma a Lucca ama citare chi lo ha preceduto, avendo così l’impressione di visitare simultaneamente la città presente e passata:
 
Ma il giardino attuale lasciava intravedere la sua storia… i sentieri inselvatichiti e la pergola che li circondava si animavano degli abitanti di un tempo, dei quali Lucca era stata dimora. [9]
 
Inoltre, annullando lo spazio urbano che separa due luoghi, è possibile trasformarli in qualcosa di veramente intimo. Si pensi a Sargent e la sua immaginaria veduta architettonica in Study of Architecture: Florence, realizzato intorno al 1910, dove un angolo del loggiato degli Uffizi si affaccia su un fondale naturalistico alla maniera del giardino di Boboli.

A Lucca, dopo una notte di intenso lavoro, nel primo pomeriggio Sparkenbroke si incammina in una passeggiata solitaria per la città scandita dalle continue variazioni di luce dovute al trascorrere del tempo, ma prodotte anche dal tessuto labirintico della città che offre momenti inaspettati di luce e ombra. Raggiunge le mura scegliendo volutamente l’itinerario più lungo. Da piazza S. Maria Forisportam continua lungo via Santa Croce per poi percorrere via del Fosso fino alla salita che porta sulle mura, ai piedi della quale, colto da un malore passeggero provocato dall’angina e presumibilmente conseguenza della nottata di intenso lavoro, sosta su una panchina in pietra. La luce sta già cambiando quando finalmente affronta la salita. Il viale carrozzabile a sommo dei bastioni è quasi deserto, mostra dignità e quieto vivere. Dal baluardo di San Regolo Sparkenbroke si dirige verso ponente fino ad arrivare a quella parte delle mura che dà su Palazzo Ascani e sul suo giardino che, come abbiamo visto, si trova per metà in piena luce e per metà è oscurato dall’ombra di un’ala del palazzo. Dall’alto delle mura Sparkenbroke riflette che solo l’apparenza è divisa “nella realtà non esistono scissioni o differenze; tutta l’arte ha lo stesso soggetto, tutto l’amore è indirizzato a uno stesso essere, tutte le morti sono la stessa nascita.”[10]

Mary lo raggiunge e proseguono la passeggiata insieme. Arrivano al baluardo di San Colombano da dove il Duomo ora appare color del miele con mille righe nere: “Il mondo è incantato. E ci sono lacrime nei tuoi occhi. E il mondo continua a essere incantato. E il Duomo continua a essere là”,[11] la città è tanto magica quanto reale. I due decidono di lasciare le mura per dirigersi verso il Duomo. Ai piedi della scesa interna delle mura c’è una panchina, e di fronte ad essa due piccoli leoni di marmo, frammenti di una scalinata ormai smantellata:
 
I loro fianchi e le onde sulle criniere erano illuminati da una patina lucida color avorio. Sparkenbroke osservò le sinuosità della luce sulle criniere e pensò che le cose inanimate riflettono la vita dell’osservatore; cambiano incessantemente come lui cambia; sono nuove a ogni incontro, e se non lo sono è perché lui è rimasto invariato. Questi finti leoni sono mutati perché lei è qui, pensò, mai prima d’ora hanno avuto una loro individualità ai miei occhi, ora non smetteranno mai di averla.[12]
 
La città prende forma, il suo spirito si mostra anche in virtù della presenza di Mary, e la riflessione si fa più profonda, il pensiero va a Tristano e Isotta, all’estasi d’amore e di morte, al viaggio che poeti e santi fanno a fianco a fianco.

Camminano in silenzio attraverso “un reticolato di viuzze”[13] fino a Via della Rosa. Il percorso seguito, vago e topograficamente impreciso, mostra il carattere labirintico e sfuggente di una città dove ogni via sfocia in una piazza, e dove palazzi e chiese, ad eccezione del Duomo per chi arriva da ovest, invariabilmente si mostrano in prospettiva o di scorcio. La città non è solo uno spazio fisico, ma un’entità in divenire, carica di energia vitale. Raggiungono un’altra chiesa molto amata da Ruskin, la chiesetta delle Rose, “appoggiata, come una meravigliosa appendice, al muro del Palazzo Arcivescovile”. [14]

Sparkenbroke mostra a Mary la statua che rappresenta la Vergine col Bambino, collocata su un angolo esterno della chiesa, e lei rimane in silenzio, “non tanto per ammirarli quanto per sentirne la presenza e fissare nel proprio cuore il momento dell’incontro con essi”;[15] Sparkenbroke ha evocato lo spirito del luogo per fissare il momento presente, e qui capisce che da Mary, dall’immaginazione che è in lei, può ricevere una “assoluzione”,[16] un perdono che non può che essere accordato da un essere puro; una volta assolto, l’artista si sente liberato e può perseguire, religiosamente, la propria missione di poeta.

L’itinerario prosegue in piazza del Duomo. Quando sono di fronte alla facciata della cattedrale, attraverso la piazza Mary vede “il muro del giardino Micheletti, coronato di rami fronzuti, il più bel muro d’Italia”;[17] in questa osservazione, rimasta nell’immaginario dei lucchesi, si comprende come la percezione del luogo sia intensificata, in senso positivo, dalla forte carica emotiva del momento. I due continuano a camminare e raggiungono piazza Napoleone e subito dopo “la piazza del mercato di San Michele”.[18] Il genius loci prende Mary per mano e la accompagna in questa passeggiata in cui ogni dettaglio lascia un segno indelebile, anche “la forma della luce sul lastricato che mutava al passaggio del piede”.[19] Il luogo diventa luogo dell’anima, in sospeso tra una realtà e un’immaginazione che non si contraddicono:
 
Ora Lucca la avvolgeva, le era intimamente vicina, ne respirava il profumo, ne assaporava l’aria, il fresco soffio dell’aria di novembre, non ancora fredda; e sapendo di essere oltre lo specchio, sollevò bruscamente il capo e guardò tutto ciò che la circondava, come se dovesse svanire, o lei sparire da quel luogo.[20]
 

Sempre seguendo un percorso labirintico, tra viuzze piene di piccole botteghe di droghieri e ferramenta, Sparkenbroke e Mary si immettono in via Fillungo:
 
Tortuosa e buia ma affollata di gente che passeggiava piacevolmente: giovanotti a capo scoperto con le chiome ricciute e le spalle squadrate tipiche dei dandy italiani; donne con grandi borse di tela americana uscite a far la spesa per la sera; vecchi con barbe bianche ben curate e dita inanellate, dignitosi e arzilli, simili ad ambasciatori da operetta; e innumerevoli bambini che spuntavano dalle viuzze laterali trascinati per mano dalle madri, o sgattaiolando tra le gambe dei passanti.[21]
 
Morgan e i lucchesi
Una descrizione dei lucchesi altrettanto folkloristica e stereotipata la troviamo più avanti, quando la coppia fa una sosta per bere un tè tra i due “alti banconi”[22] di quello che par proprio essere l’attuale caffè Di Simo. I clienti, alcuni seduti, altri a cavalcioni sulle sedie, si assembrano intorno a Sparkenbroke e “con sguardi vivaci, mani che si agitano in animati gesti di disapprovazione o assenso, bocche sempre pronte al commento o alla risata”,[23] lo ascoltano mentre disquisisce di questioni politiche. Le uniche eccezioni a questa regola sono l’orafo, nella cui bottega di via Fillungo la coppia si sofferma prima di arrivare al caffè e la cui perizia artigianale affascina Sparkenbroke, e Francesco Celli, il medico che ha in cura Helen, la cognata di Mary. La servitù, in particolare, sembra appartenere a una massa ottusa; in un momento di emergenza l’infermiera inglese dice a Mary: “Svegliare la servitù non sarebbe servito a niente, Mrs. Hardy, li ho svegliati ora e se va ad aprire la porta li sentirà solo brontolare, è tutto quel che si riesce a cavarci”,[24] frase omessa nella traduzione italiana del romanzo pubblicata da Mondadori; più avanti il maggiordomo inglese, rivolgendosi a Sparkenbroke, lamenta che la servitù disattende deliberatamente le istruzioni ricevute: “Gli ordini erano sufficientemente chiari, milord. Ma non ascoltano. Ritengo che parlino in continuazione proprio per non sentire,” [25] e va cacciando i domestici per il cortile “come un branco di galline”.[26]

Pur non dimenticando che una città come Lucca, nel corso dei secoli, è stata molto apprezzata per l’industriosità e l’abilità mercantile dei suoi abitanti, bisogna tuttavia rilevare che l’atteggiamento negativo nei confronti degli italiani, visti da nord a sud come un’unica massa indistinta, è abbastanza generalizzato e ha origini lontane. Se è vero che, tra fine Cinquecento e fine Ottocento, i facoltosi viaggiatori stranieri che arrivavano in Italia erano in balia di una serie di furfanti (inservienti, osti, postiglioni, corrieri e così via), che non pensavano altro che alla borsa dei soldi, tanto che, non fidandosi degli italiani, molti si portavano appresso la servitù quando era necessaria (Sparkenbroke stesso si avvale di un’infermiera e un maggiordomo inglesi); è altrettanto vero che per i viaggiatori stranieri l’Italia è un paese di comparse, figure prive di sostanza che, come testimonia anche l’iconografia, rispondono allo stereotipo di folla stracciona e degradata sempre uguale a se stessa a dispetto del trascorrere del tempo. Questa “menzogna culturale”, [27] costruita in patria prima ancora di imbarcarsi nel viaggio vero e proprio, a volte coinvolge anche il paesaggio trasformato in un bozzetto pittoresco:
 
“Dov’è Lucca?” domandò Mary. “Ricordo di averla cercata sulla carta geografica molto tempo fa; ma l’ho dimenticato.

Helen si servì l’insalata. “Quest’olio probabilmente viene da là… una cittadina sonnolenta, credo, senza particolari attrattive. Ragionevolmente interessante, oserei dire, come la maggior parte delle città italiane. [28]
 
Per un paese come la Gran Bretagna, in un’Italia dove non era stato imposto né un dominio coloniale né un dominio culturale, nel senso di imposizione di una cultura altra, l’alternativa non poteva essere altro che un controllo esercitato tramite un’appropriazione culturale del luogo-museo e una riscrittura in senso negativo di tutto ciò che poteva costituire un’eventuale minaccia a questa operazione. In una simile prospettiva si capisce come l’architettura, l’arte e anche il paesaggio abbiano sempre la meglio sulle persone.

Nel presentare la città, fortunatamente, Morgan è del tutto lontano dal bozzettismo e il commento di Helen è ampiamente smentito. La città ha un’anima e un’energia vitale, e le bellezze architettoniche non sono tanto oggetto di ammirazione estetica, quanto testimoni di una vicenda della quale riflettono le tonalità e con la quale interagiscono, come nella descrizione trasognata della piazza San Martino e del Duomo verso il quale Mary e Sparkenbroke si dirigono di ritorno dalla passeggiata:
 
Il cielo era ancora abbastanza luminoso da inondare l’ampio spazio di fronte a loro di un velo cristallino di luce che si proiettava negli intervalli delle loro ombre combinate, e poi svaniva nella bruma e nel buio in lontananza. Era come essere sulla riva di un lago baluginante con le nubi all’orizzonte. E dal lago emergevano, a poca distanza, i fluttuanti scalini, le tre arcate scure dell’atrio della cattedrale, e sopra di esse il fantasmagorico disegno della facciata con gli ordini sovrapposti di archi… Schiacciata contro il muro che la fiancheggiava, tanto da distruggere la simmetria del disegno, sembrava un giocattolo perso da un bimbo in un momento di distrazione. Solamente le ombre scure del portico la appesantivano, mentre quelle degli ordini superiori sembravano prive di peso, come se una folata di vento potesse ripiegarle, come un merletto, assieme alle colonnine ritorte che le dividevano, e spazzarle via.[29]
 
6. Ilaria del Carretto

Un modello ideale
In Praeterita, l’autobiografia scritta da Ruskin tra il 1885 e il 1889, lo storico dell’Arte riflette come l’incontro con il capolavoro di Jacopo della Quercia, il sarcofago di Ilaria del Carretto, esempio di un’arte ancora principalmente volta all’esaltazione del sentimento religioso, sia stato per lui fondamentale, tanto da fargli affermare che da quel momento in poi esso avrebbe rappresentato un modello supremo.[30] Le prime osservazioni di Ruskin sull’opera risalgono al lontano 1845 quando, nel corso della sua seconda visita a Lucca,[31] annota negli appunti alcune osservazioni riguardanti l'opera. Si sofferma su alcuni dettagli: la veste di foggia medievale, il cui morbido drappeggio quasi nasconde il cagnolino ai suoi piedi; i semplici cuscini che le sollevano leggermente il capo; i fiori “a forma di stella” posti a gruppi di tre sulla fascia rigonfia che cinge il capo; l’acconciatura dei capelli, “alla maniera di Maddalena”, ondulati laddove vanno a sfiorare le guance; il dolce movimento delle braccia adagiate lungo il corpo e delle mani che si congiungono nell’atto di abbassarsi. Poi ammette l’impossibilità di esprimere con le parole “l’incomparabile leggiadria delle labbra e degli occhi chiusi, o la solennità della morte, il cui marchio è impresso sull’intera figura.”[32] Straordinaria fusione di accuratezza “matematica”[33] e ricchezza di sentimento:
 
La scultura è un’opera d’arte perfetta sotto tutti i punti di vista: è la realtà stessa, filtrata però da una straordinaria raffinatezza di sentimenti. L’austera, naturale semplicità del panneggio, che ricade con una grazia impeccabile, non ha pari; e che dire delle mani scolpite nell’atto di abbassarsi? Ci si aspetta a ogni istante, o meglio, sembra di assistere in ogni istante, al momento estremo del trapasso. D’attorno non ci sono ornamenti di sorta, né alcuna protezione; si può indugiare lì presso, appoggiati al cuscino, e assorti nella contemplazione del crepuscolo che, prossimo a venire, sfiora le incantevoli labbra ormai inerti e le palpebre arcuate, serrate nel rigore della morte.[34]
 
Ritratta nell’istante preciso del trapasso, Ilaria abita eternamente un luogo di confine tra mondo dei vivi e mondo dei morti.

Ilaria sarà un buon motivo per visitare Lucca più volte negli anni, in Praeterita Ruskin scrive che era arrivato a Lucca nel 1845 pensando di rimanervi dieci giorni, ma che in realtà, in un certo senso, vi sarebbe rimasto quarant’anni.[35] Torna a Lucca nel 1870, nel 1872, e ancora nel 1874 nel corso di un viaggio in cui prepara un ciclo di lezioni da tenere all’Università di Oxford, delle quali quella del 24 novembre[36] sarà dedicata proprio a Ilaria. In questa occasione dipinge alcune vedute di Ilaria, ma con grande difficoltà: sono gli anni del contrastato amore per Rose La Touche e la statua gli ricorda la giovanissima Rose, che sta morendo. Sono passati quasi tre decenni dal lontano 1845 ma, nonostante il lungo intervallo, di fronte a Ilaria Ruskin ha la medesima percezione:
 
Questa tomba si colloca in un perfetto equilibrio tra … fredda severità che non raggiunge la tenerezza della morte, e vivida insolenza dimentica del suo potere; posta, per così dire, a cavallo tra il mondo dei vivi e quello dei morti, è il sacro ritratto di una pace infinita, è il verbo di Cristo espresso nel marmo eterno: “Non è morta, ma dorme.” [37]
 
Opera d’arte di straordinaria finezza, il monumento a Ilaria cristallizza il momento della morte in un’estasi che è anche espressione di un amore sublimato, e in questo è perfettamente funzionale al tema trattato da Morgan nel suo romanzo.
 
Trasfigurazione attraverso l’arte
 
Mary aveva sempre creduto che l’amore sarebbe arrivato nella forma di equilibrio supremo e riconciliazione interiore, un approdo in un porto tranquillo, non quell’impulso cieco e tempestoso che la spinge in modo incontrollabile verso Sparkenbroke, in una resa totale della propria volontà. Ora però desidera tanto la vita tranquilla che conduceva col marito prima di incontrare Piers, in sintonia con la sua natura, quanto quelle impetuose sensazioni capaci di trasfigurare e illuminare la sua natura; ma soprattutto desidera trovare un’armonia tra le due cose. Quando esce per una nuova passeggiata, questa volta solitaria, attraverso una città le cui strade vuote ora incutono timore “perché affollate da ricordi recenti” e le mura, dopo una gioia così “straziante” sono ammantate di “benefica malinconia”,[38] sente l’impossibilità di conciliare le due parti di se stessa. Arriva al Duomo dove spera di ritrovare Sparkenbroke, ma dove la sua attenzione si sofferma sul sarcofago raffigurante l’effigie di Ilaria del Carretto. Il rilievo che scorre ai fianchi del sarcofago, dodici putti alati che sorreggono pesanti festoni di frutta e foglie, è descritto con dovizia di dettagli, nell’armonia del disegno, nel delicato gioco di luci e ombre creato dalla debole illuminazione proveniente dall’alto, nella gestualità degli amorini con la loro eterea vivacità, quasi irreale, e la molteplicità di atteggiamenti; uno di loro è avvolto da un grazioso gioco di ombre che fa sorridere Mary:
 
C’era in questo fanciullo, e nei suoi compagni di gioco, ornati di ghirlande, una gioia che non arrivava ancora a essere sfida alla tristezza, ma si conciliava perfettamente con essa – una luce serena, dentro l’idea di malinconia, che il mondo ha perduto; in loro brillava anche un’intimità scultorea in virtù della quale il sarcofago non era né una prigione né un monumento, ma un luogo da abitare.[39]
 
I putti, espressione di serena malinconia, introducono allo spazio abitato da Ilaria, che è il momento supremo del trapasso dove tutte le differenze si annullano:
 
Su di esso giaceva la figura di una donna, una giovane, l’espressione dolce e calma per l’intima visione, gli occhi appena chiusi. L’abito ricadeva in un austero drappeggio, giù fino ai piedi dove era accucciato un cagnolino. Le mani erano incrociate, semplicemente, non al petto o in un gesto simbolico, ma come avrebbero potuto esserlo nel sonno; e Mary, osservandola, subì quel processo di semplificazione che si prova a volte nei sogni, sotto la cui ombra le barriere che separano gli opposti sfumano fino a far sparire ogni conflitto tra le differenze: parola e silenzio, tempo e non-tempo, vita e morte appaiono, seppur separati nella forma, identici nella sostanza. [40]
 
La tranquilla perfezione della raffigurazione trasporta Mary in un nuovo stato d’animo privo di conflittualità, capisce che Sparkenbroke deve aver provato qualcosa di analogo quando, da bambino, era rimasto chiuso nel sepolcro di famiglia. Adesso, di fronte alla tomba di Ilaria, le sue due vite di immaginazione ed esperienza, rappresentate rispettivamente dal rapporto con Sparkenbroke e da quello col marito, si incontrano: le due Mary diventano una, in un momento di riconoscimento di fronte a un’opera che è fusione perfetta di arte, amore e morte come continuità.

L’artista, Nicodemo/della Quercia, ha accesso a un mondo altro, è un intermediario tra gli uomini che sentono confusamente ciò che lui percepisce attraverso l’immaginazione. L’opera d’arte, Volto Santo/Ilaria, “produce un atto di riconoscimento, una specie di ricordo di ciò che fu prima della nascita e di ciò che sarà dopo la morte”.[41] Arte, amore e morte sono tre forme di una sola e unica estasi; la ricerca dell’arte implica quindi un riconoscimento della morte. Su Ilaria si chiude il libro ambientato a Lucca, in lei Sparkenbroke trova una nuova assoluzione, a lei dedica questa ultima riflessione:
 
Sparkenbroke rifletté che Jacopo della Quercia aveva infuso in quell’opera una qualità che trascendeva il suo stesso disegno, persino le sue capacità; quella stessa qualità che distingue la poesia dai versi, l’amore dal desiderio e la morte stessa dall’atto fisico del morire: una qualità che non appartiene alla mente, poiché il pensiero è un’interpretazione e non un punto di partenza, ma al seme che cade su alcune menti pronte ad accoglierlo. L’effigie di questa giovane non era né viva di vita corporea né morta di morte corporea, bensì trattenuta nella quiete sospesa di chi, avendo contemplato la verità attraverso occhi ciechi e avendola toccata oltre i propri sensi, ha avuto il genio di soffermarsi nella completezza dell’attesa. E Sparkenbroke guardava la luce diffondersi sul cuscino, stupito di fronte a quella costanza che pareva aver pietà di lui e assolverlo.[42]
 


[1] Vernon Lee, The Golden Keys, Tauchnitz Edition, Leipzig 1925, pp.7-8.
[2] Charles Morgan, Sparkenbroke, Macmillan, London 1936, p.354.
[3] Ibidem, p. 218.
[4] Ibidem, p. 331.
[5] Ibidem.
[6] Cfr. Del Beccaro Felice, ‘Charles Morgan, Nel bosco d’amore’, in: Bollettino Storico Lucchese, N. 1, 1939, pp. 61-63.
[7] Charles Morgan, Sparkenbroke, cit., p. 320.
[8] Ibidem, p. 356.
[9] Ibidem, p. 380.
[10] Ibidem, p. 358.
[11] Ibidem, p. 360.
[12] Ibidem, p. 362.
[13] Ibidem, p. 364.
[14] Ibidem, p. 365.
[15] Ibidem.
[16] Ibidem, p. 365.
[17] Ibidem, p. 366.
[18] Ibidem.
[19] Ibidem.
[20] Ibidem, p. 367.
[21] Ibidem, p. 368.
[22] Ibidem, p. 372.
[23] Ibidem, p. 374.
[24] Ibidem, p. 399.
[25] Ibidem, p. 425.
[26] Ibidem.
[27]  A. Brilli, Il viaggio in Italia – Storia di una grande tradizione culturale, il Mulino, Bologna 2006, pp. 263-305.
[28] Charles Morgan, Sparkenbroke, cit., p. 312.
[29] Ibidem, p. 375.
[30] John Ruskin, Praeterita, Oxford University Press, Oxford 1978,  p.316.
[31] Ruskin viene a Lucca per la prima volta nel 1840, accompagnato dai genitori coi quali si trattiene nella città un fine settimana. Per informazioni biografiche su Ruskin in Toscana cfr. Clegg Jeanne e Tucker Paul, Ruskin e la Toscana, trad. Caterina Ranchetti, Ruskin Gallery, Sheffield 1993.
[32] John Ruskin, Viaggi in Italia 1840-45, in: Brilli Attilio, Viaggiatori stranieri in terra di Lucca, trad. A. Brilli, Silvana editoriale, Cisanello Balsamo (Milano) 1996, p. 132.
[33] Cfr. John Ruskin, The Aesthetic and Mathematic Schools of Art in Florence.
[34] John Ruskin, Viaggi in Italia 1840-45, in: Brilli Attilio, Viaggiatori stranieri in terra di Lucca, cit., p. 132.
[35] Cfr. John Ruskin, Praeterita, cit., p. 315.
[36] John Ruskin, The Aesthetic and Mathematic Schools of Art in Florence, in: The Works of John Ruskin- Volume 23, CUP, Cambridge 2009, pp. 221-236.
[37] Ibidem, pp. 230-231. Per la citazione fatta da Ruskin cfr. Matteo ix. 24.
[38] Charles Morgan, Sparkenbroke, cit., p. 380.
[39] Ibidem, p.382.
[40] Ibidem, pp. 382-383.
[41] Ibidem, p. 71
[42] Ibidem, p 452.


 



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