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Goffredo Petrassi, dal 'barocco romano' all'invenzione straordinaria
Dal " barocco romano " all'invenzione straordinaria
 
 
 
Ciò che mi ha sempre inorgoglito è che Goffredo Petrassi (Zagarolo 1904 - Roma 2003) un giorno mi disse che avrebbe avuto piacere che io scrivessi un libro su di lui. E una cosa che mi ha sempre rattristato e che non sia ancora riuscito a scriverlo, quando forse lo farò sarà troppo tardi per leggerlo al Maestro, la cui morte mi ha rattristato non poco, perché sta a significare la scomparsa non solo di un grandissimo Maestro ma anche la fine di un'epoca.
 
La musica di Petrassi m'interessa come poche e la sua persona mi ha sempre suscitato grande stima. Ma sono i casi della vita che ti portano ora qui e ora lì, spero che presto mi conducano alla sua musica con partecipazione. L'esperienza italiana, dopo l'hortus conclusus della tradizione melodrammatica, tenta l'aggancio faticoso con le tematiche e i linguaggi europei con Busoni e la Generazione dell'Ottanta, ma il vero interloquire si realizza con Luigi Dallapiccola e Goffredo Petrassi, il quale - dopo aver assimilato le lezioni di Casella e Hindemith con le prime composizioni strumentali, e quella di Stravinskij con le composizioni vocali - si volta, con un'agilità di pensiero e di prassi davvero sorprendente, all'ultima avanguardia uscita dalla seconda guerra mondiale, ma Petrassi non accoglie né‚ la visione strutturale, né‚ quella negativa, ma vaglia con occhio vigile l'evolversi molteplice del linguaggio, i nuovi processi mentali e le tecniche compositive, in una vitalità formale che costituisce un dinamico universo sonoro, con grande attenzione al cesello, alla decorazione artigianale, all'attività motoria del suono, al gioco segmentato di linee polifoniche, sempre pensando al materiale, senza ricorsi metastorici, anzi con l'innato antico empirismo italiano.
 
È il più prestigioso compositore italiano della sua generazione iniziando, parallelamente alla produzione di Luigi Dallapiccola, il processo di svecchiamento della musica italiana. Dopo aver assimilato le lezioni di Casella (musicista di riferimento dell’ambiente romano) e di Hindemith, con le prime composizioni strumentali, e quella di Stravinskij, con le composizioni vocali, Petrassi volse la sua attenzione, con un’agilità di pensiero e di prassi davvero sorprendente, all’ultima Avanguardia uscita dopo la seconda guerra mondiale. Però Petrassi non accolse né la visione strutturalistica né quella negativa, ma vagliò con occhio vigile l’evolversi molteplice del linguaggio, i nuovi processi mentali e le tecniche compositive, in una vitalità formale che costituisce un universo sonoro dinamico, con grande attenzione al cesello, alla decorazione artigianale, all’attività motoria del suono, al gioco segmentato di linee polifoniche, sempre pensando alla musica in sé, senza ricorsi metastorici, anzi con l’innato, antico, empirismo italiano.

Per Petrassi può valere quel “richiamo all’ordine” espresso, negli anni Venti, dalla rivista «La Ronda», secondo la quale la buona arte è soprattutto pulizia formale e scrupolo artigianale. La contaminatio del giovane Petrassi avvenne col senso di un rigoroso apprendistato, con l’esigenza di imparare il mestiere. Nessuna scaltrezza neo-classica, nessuna volontà intellettualistica di costruire musica “al quadrato”, nessun rimando a, anzi, una insofferenza verso gli ammicchi che si rivela seriosa, anche se risolta in una scrittura cristallina e agilissima.

L’impegno del giovane compositore fu rivolto alla conoscenza di tutti i materiali, all’esigenza contrappuntistica e alla ricerca di nuove combinazioni timbriche. Iniziò coscientemente l’attività di compositore nel 1932, data in cui scrisse il suo primo lavoro di una certa importanza, Partita per orchestra, la scrittura di questo brano è costituita da una serie di frammenti melodici mobilissimi che rendono il disegno interessante e sfuggente, ma a un tempo plastico, inoltre una timbrica molto fluida contribuisce alla visione prismatica del tutto. A differenza della Partita di Dallapiccola, che prevede la voce e che ha tratti vagamente espressionistici, quella di Petrassi si basa tutta sulla solidità della struttura formale, senza riferimenti emotivi (in un certo senso guardando a Ravel).

Il modo di rivivere il passato (‘Barocco romano’, venne definita la tendenza petrassiana, soprattutto dopo il vasto affresco del Salmo IX e il Magnificat) è esente da piacevolezze salottiere e dalla visione pittoresca del revival, la filiazione para-classica o neo-barocca che sia (Concerto n. 1, 1934) non dà luogo a ritorni, ma a un rinnovato magistero contrappuntistico (Magnificat, 1940) e a una nuova collocazione del decoro timbrico, come nel peculiare organico del Coro dei morti (1941, per coro maschile, ottoni, contrabbasso, 3 pianoforti e percussioni) “un’amara meditazione sul destino dell’uomo”, com’ebbe a definirlo lo stesso Petrassi: da una parte il coro si esprime in un morbido tonalismo mentre dall’altra l’orchestra propone un tessuto sonoro duro e un percorso strumentale a scatti, da questa contrapposizione prende forma il Dialogo di Federico Ruysch e le mummie. Nel balletto La follia di Orlando (1943) il cromatismo si insinua nel tessuto armonico pancromatico e l’atematismo è generalizzato a tutti i parametri che sono condotti con una disincantata razionalità e con un’eleganza timbrica ben strutturata. A seguire, Petrassi compone l’altro balletto Le portrait de Don Quichotte (1945) dallo stile colorito e fantastico. L’interesse per il balletto derivò dal poter abbandonare strutture narrative, dall’affidarsi alla visionarietà, dall’affermarsi progressivo del sagomato contrappunto strumentale che crea un’atmosfera rarefatta, a momenti perfino astratta, ironica e a volte allucinata, sulla quale la danza può basarsi ma in maniera molto libera e indipendente.

Il tessuto contrappuntistico sfaccettato, le segmentazioni timbrico-strumentali, la fredda eleganza espressiva appartengono anche al Cordovano (1949), un atto teatrale tutto incentrato sull’agilità dell’orchestra, scattante e ricca di golosità sonore, e su una vocalità che fa spesso ricorso al linguaggio parlato, distorto e parodiato, proponendo una complessiva segmentazione del tessuto sonoro. Noche oscura (1952) è la sintesi della produzione strumentale e delle varie maniere di plasmare il coro; l’espressività è luminosa e sfumata, realizzata in un morbidissimo tessuto cromatico; l’intera composizione si basa su un tema enigmatico proposto all’inizio che viene utilizzato nelle sue forme speculari. Nella Serenata (1958) il trapasso dell’intelligenza nell’edonismo non è volutamente aggraziato dalla facilità dell’apparenza, lo sforzo della piroetta leggera è svelato dal sudore: la felicità dell’opera non è una grazia, un dono ricevuto, è un premio, una continua ricerca. Sempre allo stesso anno appartiene il Quartetto per archi, dove emergono figure musicali, poi subito alienate in una continua presenza-assenza della cellula tematica, un simile avvinghiarsi del tematismo con la sua dissolvenza è presente anche nel Trio (1959), ma con meno violenza e con più minuziosa ricerca di un equilibrio fra i frammenti tonali e modali, in un variabile e ininterrotto tessuto sonoro. Nel Concerto per flauto e orchestra (1960) Petrassi supplisce all’ormai storicamente scaduta dialettica discorsiva dello strumento concertante con l’orchestra, trasferendo il principio della differenziazione nella scissione netta degli atteggiamenti timbrici e figurali.

La parziale accettazione del metodo dodecafonico, attuata a partire dal terzo concerto, Récréation concertante (1953), viene attuata per trovare nuove soluzioni mantenendo però alcuni nessi tonali seppur molto lenti, in uno stile raffinato e rarefatto, basato su una razionalità disincantata. Estri e Tre per sette sono ancora un atto di fiducia nella felicità del suono, le figure si direzionano nello spazio, ma senza alcuna finalità costruttiva. Straordinaria è la sapienza di Petrassi nel riuscire a estrarre da pochi nuclei di partenza un’ampia gamma di possibilità di variazioni, come nel Concerto n. 5 (1955) e nel Concerto per flauto e orchestra (1960), caratterizzato da una trasfigurazione coloristica e da serrati incastri: «L’orchestra s’incarica di configurare vaste campiture armoniche, internamente mosse da un continuo cangiare timbrico, ma staticizzate dall’assenza di spiccati impulsi agogici, interamente riservati al pianista». (1) Al 1958 appartengono la Serenata, atematica, formalmente libera e preziosa nei suoi canginti colori, e il Quartetto per archi che al tematismo fa vagamente ricorso ma circondato da un puntillismo che lo avvinghia e che lo contraddice, in una violenta tensione formale, agitazione che si placa nel successivo Trio (1959), in una ritrovata serenità, dove elementi tonali e modali, aspetti decorativi e fantastici, profilature delle figure e susseguirsi degli episodi formano un unicum espressivo profondo e ombreggiato.

Lo sforzo della conquista si riscontra invece in Souffle (1969) dove la levigata trasparenza dei rapporti ritmico-timbrico-polifonici sfocia in una gestualità cristallina, ma sempre razionalmente controllata ai montaggi del materiale e alle cesellature strumentali. La ricerca stilistica, sempre rinnovatasi, si fa più essenziale e, a un tempo, più complessa e sottile nelle sfaccettature ritmiche e timbriche, come nel concerto Settimo (1964, dall’invenzione sorprendente di sezioni strutturanti) e Ottavo (1972).
La composizione pianistica non occupa una posizione preminente nella produzione di Petrassi, ma le pagine pianistiche indicano comunque il percorso stilistico del maestro, dalla provenienza di origine caselliana, come nella Siciliana a marcia per piano a quattro mani (1930), all’adozione prediletta della scrittura polifonica, come nella Toccata del 1933, o, infine, l’esplicazione della tendenza alla stilizzazione in Oh, les beaux jours, tre piccoli pezzi del 1941-43, poi modificati e ampliati nel 1976. Al 1942 risale il Divertimento scarlattiano e, in questi anni, Petrassi compose anche una serie di liriche per canto e pianoforte, ma dopo il 1944 si assistette a un notevole rallentamento della scrittura pianistica, anche se a quell’anno risalgono le Otto invenzioni pianistiche che risultano un brano importantissimo, sorta di magazzino segreto pieno di scintille che accenderanno anche le ultime opere, fra le quali dobbiamo citare la conclusione della serie dei Concerti, con la composizione de citato Ottavo, nel 1972, stupendo; il Poema per archi e trombe (1980), Tre cori sacri, per coro a cappella (1983) e l’Inno, per 12 ottoni, ultima composizione scritta dal maestro.

Sovrintendente del teatro La Fenice di Venezia, Direttore artistico dell’Accademia Filarmonica romana, Presidente della Società internazionale di musica contemporanea, Petrassi ha tenuto, dal 1958 al 1974, il Corso di alta composizione presso l’Accademia di Santa Cecilia a Roma. Del suo lavoro il maestro ci lascia questa testimonianza: «A proposito di certe scene, Giuseppe Verdi diceva che ne cercava la “tinta”: è molto appropriato, perché‚ ogni lavoro ha una sua particolare tinta. Si può dire che ha un preciso rapporto timbrico, o sonoro, o concettuale, ma parlare di tinta mi sembra più appropriato. Dunque, una volta impostata la tinta o l’ambito, o come lo si voglia chiamare, dopo tengo fede a una totale libertà di conduzione: lascio che la musica stessa mi suggerisca che cosa devo fare. In che cosa consiste il nutrimento della musica se non nella musica stessa? Iniziato il lavoro, è il materiale musicale a suggerire il procedimento ed è il procedimento a suggerire lo svolgimento ulteriore, in una specie di autogenesi che si può trovare alla base di tanti processi immaginativi». (2) Petrassi fu anche un grande amante dell’arte figurativa.

La personalità di Petrassi costituisce il punto di riferimento di gran parte della cultura musicale italiana e in modo particolare a lui guarderà il giovane Clementi, mentre la sua prassi artigianale inventiva e positiva sarà ripresa, ovviamente con modalità personali, da autori quali Castiglioni e Berio. La concezione di una metamorfosi continua di una cellula musicale di partenza interesserà Donatoni. Le sue ragioni furono quelle di esaltare la felicità di un gesto compositivo sempre rinnovantesi, con sentimenti accesi su quello che gli stava attorno.




NOTE
1) Armando Gentilucci, Guida all’ascolto della musica contemporanea, Feltrinelli, Milano 1963, pp. 309, 310: «Il flauto non dialoga con l’orchestra, ma attraversa incide il tessuto mobile della compagine strumentale con la sua monodia fluttuante, imprevedibile, estrosissima. La scrittura, almento limitatamente all’orchesytra, è impostata secondo i procedimenti dodecafonici e seriali,, mentre la paretre del flauto è più libera. Ma anche nel Concerto per flauto, come sempre in Petrassi, non è l’adizione di un metodo che conta, la le sollecitazioni che dal metodo ne ricava la fantasia, tanto è vero che il compositore avvicina perfino la problematica dell’alea.»
 2) Renzo Cresti, Intervista a Goffredo Petrassi, in «Piano time» 1985. 
Cfr. Renzo Cresti, La Vita della Musica, ipertesto di Storia della Musica, Feeria, Panzano in Chianti 2004 . Inoltre da Enciclopedia Italiana dei Compositori Contemporanei, a cura di Renzo Cresti, III vol., 10 Cd, Pagano, Napoli 1999-2000).
 
 
 
http://www.goffredopetrassi.com/

http://www.orfeonellarete.it/archivio/ricerca.php

http://www.musica.san.beniculturali.it/web/musica/protagonisti/scheda-protagonista?p_p_id=56_INSTANCE_5yY0&articleId=14256&p_p_lifecycle=1&p_p_state=normal&groupId=10206&viewMode=normal&tag=tag_personaggio







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